varie, 5 marzo 2002
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Penn Arthur
• Filadelfia (Stati Uniti) 27 settembre 1922, New York (Stati Uniti) 29 settembre 2010. Regista. «Sin dall’inizio della sua carriera ha alternato con eguale passione le regie teatrali a quelle cinematografiche. Ha amato la televisione degli albori (“una grande scuola per un’intera generazione di registi’), ma oggi la segue con il disincanto di chi ha contribuito con dedizione a migliorarne le potenzialità epressive e comunicative e ne ha assistito all’involgarimento, alla decadenza e al cinismo. […] “Le major non sono più gestite da uomini di cinema, ma sono diventate parte di grandissime corporazioni, il cui unico interesse è il profitto. Dunque pochi rischi, scelta di formule sicure e inevitabile ripetitività di schemi, personaggi e situazioni: si tratta di elementi letali per ogni tipo di arte. L’unico obiettivo di una corporazione è quello di realizzare un prodotto vendibile in ogni parte del mondo, che acquisisce inevitabilmente un carattere neutro, e quindi antitetico all’essenza stessa dell’arte. L’esigenza della commerciabilità nasce insieme alla settima arte, ma oggi i dirigenti non sono nati nel mondo del cinema e valutano le scelte in termini puramente numerici. In passato il nostro cinema ha rappresentato uno spirito americano che si è identificato con l’epica ed un’idea di conquista, il West. Oggi il cinismo ha sostituito l’ottimismo, l’obbiettivo non è più sociale, ma esclusivamente finanziario. E’ sempre più difficile essere un autore in America, ed ho motivo di credere che questo fenomeno si stia allargando al resto del mondo […] Il teatro è la mia prima passione: per essere sinceri, la mia carriera cinematografica è costruita nelle interruzioni di quella teatrale. Amo in particolare il lavoro con gli attori, e le relazioni interpersonali che si creano durante lo studio di un personaggio. Non sa quanto ho imparato dagli attori con cui ho lavorato. E posso dire lo stesso per quanto riguarda i sei anni in cui sono stato presidente dell´Actor´s Studio. […] Gangster Story fu difficile da realizzare anche all’epoca. Era considerato semplicemente un ‘gangster film’, genere allora in grave declino, e non c’era modo di spiegare che era una storia d’amore ed una metafora del ribellismo degli anni sessanta”» (Antonio Monda, “la Repubblica” 7/6/2002). «[...] l’autore del Piccolo grande uomo e di Gangster Story ha mani che danzano, occhi che parlano, sopracciglia espressive come allievi dell’Actors’ Studio. [...] regista di Billy the Kid e Bersaglio di notte [...] “Mai disegnato uno storyboard, mai pensato un’inquadratura prima di andare sul set”, spiega il regista che al cinema è arrivato dopo anni di teatro e di tv “in diretta” (“tempi gloriosi, si girava con tre telecamere, nessuno registrava, eravamo liberi”). Perché per Penn, e non solo per lui, un film non è fatto solo di immagini, non riproduce qualcosa ma suscita e trasmette un campo di forze al cui centro resta comunque l’attore. E sulla decadenza del recitare Penn, a lungo presidente dell’Actors’ Studio, ha idee chiare. “Oggi tutti sono belli ma quasi nessuno è un attore. Un attore è una persona capace di infondere emozione ai gesti più banali. Ovvio, ma raro. Devi chiedere loro di fare cose diverse, di rischiare. E ognuno richiede cure speciali. Brando e Jack Nicholson, straordinari, erano amici nella vita. Girando Missouri capii quanto fossero diversi sul lavoro. Brando compagnone, sempre pronto allo scherzo. Nicholson chiuso, ispido, come se non si conoscessero. È su queste differenze che devi giocare”. Così Penn ha ottenuto il meglio da divi come Newman, Beatty (“per convincerlo mi costrinse a passare davanti alla macchina da presa”), appunto Brando (“eterno adolescente, un enigma per gli Studios che non riuscendo a capirlo cercavano di dargli degli ordini mentre con lui dovevi essere obliquo, suadente”). E l’adorata Anne Bancroft, che impose in Anna dei miracoli contro Audrey Hepburn o Liz Taylor, volute dagli Studios. Pochi invece i volti che lasciano il segno oggi. Johnny Depp per esempio sì. Kevin Spacey no, freddo, troppo tecnico. Veri talenti sono Jim Carrey e Steve Martin, che detto da chi si fece le ossa accanto a Jerry Lewis, Dean Martin e Bob Hope, è un bel complimento. Ma soprattutto Penn, che pure la conosce bene, ha in odio la tecnica. “Non ne parlo nemmeno con mio fratello Irving”, cioè Irving Penn, grandissimo fotografo. E sì che Arthur e Irving sono figli di un ebreo lituano che faceva l’orologiaio... O forse proprio per questo il regista teorizza l’inutilità dei provini, come di tutti i meccanismi troppo collaudati. “Scelgo gli attori per istinto. E faccio prove solo a teatro. Al cinema cerchi l’incidente, l’imprevisto che illumina un personaggio e magari l’intera scena, perché anestetizzare tutto con le prove?” [...]» (Fabio Ferzetti, “Il Messaggero” 7/5/2005).