varie, 5 marzo 2002
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Pennac Daniel
• Casablanca (Marocco) 30 novembre 1944. Scrittore francese. «Certamente uno degli scrittori più amati dal pubblico italiano. Ogni volta che viene nel nostro paese, è atteso con entusiasmo da schiere di lettori di tutte le età che lo ascoltano attentamente, apprezzando il suo talento di narratore e ridendo delle sue battute. ”Sono commosso da tanto successo, mi sembra quasi di essere stato adottato dagli italiani e ciò mi fa enormemente piacere”, [...] Vent’anni di militanza letteraria e di una mezza dozzina di romanzi - dal Paradiso degli Orchi alla Prosivendola, dal Signor Malaussène a Signori bambini - che hanno fatto conoscere in tutto il mondo il quartiere parigino di Belleville e le disavventure dello sfortunato ma simpaticissimo Benjamin Malaussène. [...] ”I miei romanzi hanno sempre bisogno di tempi lunghi”, spiega l´autore della Fata Carabina, ”li concepisco e li scrivo molto lentamente. Non scrivo di getto, avanzo piano, cerco le parole una per una, sforzandomi di produrre sulla pagina quell’impressione di spontaneità che in realtà non possiedo assolutamente. La scrittura è un lavoro difficile e faticoso, anche se naturalmente non voglio paragonare la mia situazione con quella di chi veramente soffre sul lavoro. So benissimo che lavorare in fabbrica è molto peggio, e anzi sarebbe ora finirla definitivamente con il mito dello scrittore sofferente e sfinito. Detto ciò, è però vero che la scrittura di un romanzo m´impegna a fondo e mi richiede molto tempo [...] Dubito di continuo del mio lavoro, non sono mai sicuro di niente e ogni volta mi rendo conto che in questo mestiere non si capitalizza nulla: le migliaia di pagine già scritte non mi servono quasi a niente al momento di iniziarne una nuova. Si ricomincia sempre da capo e la scrittura romanzesca è sempre una scommessa. In fondo, scrivere un romanzo è un gesto fondamentalmente gratuito, proprio perché si tratta di un’opera d’invenzione. Così, ogni volta devo scommettere che quest’atto gratuito abbia un senso non solo per me, ma anche per il lettore. Naturalmente, la scommessa non sempre funziona. Non a caso, butto via molto di quello che scrivo, proprio perché ho l’impressione che sia privo di tale senso. Sulle prime 200 pagine della prima versione della Fata Carabina, ne ho conservate solo 15. Ancora di recente ho abbandonato un lavoro in corso, perché mi sembrava un testo troppo dimostrativo e noioso. E io ho orrore dei saggi travestiti da romanzi [...] Innanzitutto, scrivo per finirla con me stesso, giacché la scrittura è sempre il tentativo di trasformare la propria soggettività in oggettività. Questa necessità di scrivere è presente in me come un appetito biologico, una fame da saziare, anche se poi cambiano i gusti e le forme. [...] Nella vita come nella letteratura non bado alle dichiarazioni d’intenti e ai sistemi di valori, guardo esclusivamente i comportamenti e le azioni delle persone. Quindi, sul piano della lettura, è inutile che un genitore dica a un bambino di andare a leggere nella sua stanza, se poi lui se ne sta a guardare una partita di calcio in televisione [...] So bene che il mito dello scrittore è costruito sull’immagine di un individuo solitario che non deve essere assolutamente disturbato. Personalmente, è un mito che rifiuto, perché non sopporto gli artisti che antepongono il loro lavoro ai bisogni delle persone che stanno loro attorno. Come pure non sopporto coloro che sono disposti a tutto pur di arrivare al successo. Per me, il ”cattivo” è sempre colui per il quale il fine giustifica i mezzi. Un atteggiamento che io condanno sempre, perché anche il più nobile dei fini non deve mai giustificare mezzi infami”» (Fabio Gambaro, ”la Repubblica” 13/6/2002).