Varie, 5 marzo 2002
PERICOLI
PERICOLI Tullio Colli del Tronto (Ascoli Piceno) 2 ottobre 1936. Uno dei più celebri disegnatori italiani (ma anche scrittore e pittore, vignettista). «Dal mondanissimo salotto di Fulvia, chi vuole immergersi nella preistoria artistica di Tullio Pericoli deve traslocare in una cucina degli anni Cinquanta in Corso Mazzini, pieno centro di Ascoli. La pagina locale del ”Messaggero” non si poteva permettere di meglio, e Carlo Paci, nuovo caporedattore, aveva eliminato fornelli e frigorifero per fare posto al giovane e promettente pittore, non ancora ventenne. ”Il Messaggero vendeva allora in città sulle duecentocinquanta copie, mentre il ”Resto del Carlino” era intorno alle settecentocinquanta. Per colmare la distanza Paci mi chiamò, proponendomi la caricatura dei cittadini più rappresentativi. Una dozzina di profili per volta, da impaginare di taglio basso: dodici lettori potenziali in più”. Con benevola indulgenza, Pericoli si volta a ricordare. L’esordio in provincia, 1958 e dintorni. Su un giornale ha cominciato. E sui giornali ha continuato: con un tratto lieve e sospeso che, nonostante lìattualità del mezzo, sfida l’inattualità. ”Vivo nel mio tempo senza prenderne la forma. Questo mi fa sentir bene”. Pittore e disegnatore, straordinario ritrattista, anche scenografo e regista, gli capita spesso di mettersi in gioco. E ricominciare. ”Ho cambiato frequentemente modo di esprimermi: sia per ansia personale, sia per noia”. Ora si dedica principalmente alla pittura, e al modo dell’artista cortese sta completando una lunetta e due grandi dipinti in forma d’ala per una dimora principesca che sembra ambientata nei Kew Gardens ed è invece appena fuori Roma. ”Una sorta di borgesiano Aleph”, commenta davanti al cavalletto. Un universo di luoghi, memorie e simboli, appena evocato con un soffio di leggerezza. ”In pittura come in altre forme d’arte occorrono due cose: inventare un contenitore e avere qualcosa da metterci dentro”. Lievi anche i ricordi, che si srotolano fino alla cucina di Corso Mazzini, teatro delle prime gesta. ”L’appuntamento con i notabili di Ascoli era alle tre del pomeriggio. Mi precedeva sempre una telefonata di Paci: ”Arriva Pericoli: scegliete i vostri uomini migliori’. Mi sfilavano davanti i dirigenti della Cassa di Risparmio, i capi della Camera di Commercio, gli ingegneri, i baristi, anche i dentisti, l’intera squadra di calcio locale, il consiglio comunale, magistrati ed avvocati. Stavano lì dieci minuti, tutti voltati di lato. In poco più d’un minuto dovevo cogliere con il carboncino quel tratto particolarissimo che fa un volto diverso da un altro. Indovinare la rarissima combinazione che rende ciascuna faccia unica tra miliardi. Per me fu una scuola straordinaria, una Superuniversità del disegno. Imparai a guardare. E a comandare alla mano di fare ciò che vedevo. Non so se oggi ne sarei capace: mi sono abituato a lavorare sulle fotografie”. I suoi ritratti letterari, nati sull’’Indice” e proseguiti su ”Repubblica”, hanno inaugurato un genere: biografie dell’anima racchiuse in un dettaglio. In tutto, quasi millecinquecento. Roberto Calasso gli ha proposto di raccoglierne la metà, e a settembre con una copertina adelphiana azzurro polvere uscirà un volume di seicento pagine che ”è come un dizionario lungo vent’anni, tra sbalzi di stile vertiginosi”. è curioso pensare che gli incunaboli siano proprio quei carboncini ascolani, e che dietro le orecchie ad alettoni di Kafka o i baffi arguti di Einstein possa nascondersi alla distanza un anonimo bancario marchigiano. ”In realtà si tratta di lavori assai diversi, separati da un trentennio. I profili dei notabili ascolani erano più caricaturali, i ritratti successivi sono invece soltanto caricati, perché in ogni volto c’è sempre qualcosa da enfatizzare. Più tardi avrei affinato la mia tecnica, mescolando al tratto fisico quello interiore, la faccia come una mappa di segni da decifrare, il disegno elevato a descrizione d’una biografia intellettuale appresa sui libri e sulle opere. Se ne dovessi scegliere uno tra tutti, non avrei dubbi: Beckett. Nella sua faccia, nel reticolo delle rughe, c’è già scritto tutto. Senza che io vi aggiunga dell’altro, ad esempio la sigaretta in Montale o la canna da pesca in Freud. La prima cosa che guardo in un volto non sono gli occhi, ma la bocca: è lei che mi rivela la lingua che parliamo, chi siamo e cosa pensiamo. Tutti noi siamo autori della nostra faccia. E nei muscoli delle labbra c’è scritto se preferiamo ridere o piangere, se siamo indulgenti o giudicanti. Nella bocca, in fondo, è la descrizione fisica dell’interiorità”. Il suo primo quadro lo espose nell’aula del liceo classico Francesco Stabili, in arte Cecco d’Ascoli, ai primi anni Cinquanta. ”Era il tabellone dell’orario scolastico, dal lunedì al sabato. Al posto del nome, le facce dei professori: caricature a mia firma. Il disegno era per me un tratto identitario, ciò che veramente mi distingueva dai compagni. Con le matite corteggiavo le ragazze, o mi accattivavo le simpatie degli amici. Prima dell’esame di maturità, regalai ai commissari i loro ritratti: era un modo per conquistarmi la promozione”. Figlio del segretario comunale di Colli Del Tronto, era studente pendolare. Su e giù in corriera, per la licenza classica. ”Mio padre mi voleva dottore in legge, ma io preferivo dipingere. Anche nei racconti di mia madre, quasi ancora non camminavo che salivo sul tavolo per pasticciare con i colori. Non avrei mai pensato di fare qualcosa di diverso dal disegnare”. Per assecondare il proprio talento, era disposto a tutto: anche a sceneggiare l’incontro ”fortuito” con Ernesto Ercolani, il magister magistrorum. ”Nella piccola città di Ascoli, che per me era il mondo, Ercolani era il Pittore. Dirigeva la locale Pinacoteca, e alle quattro del pomeriggio, ogni giorno, aveva l’abitudine di fare un giro tra le sale. Siccome le storie non avvengono invano, pensai di fare come Giotto con Cimabue. Per chi non lo ricordasse, Giotto diventò pittore grazie a Cimabue, che casualmente lo vide disegnare una pecora. Allora feci in modo che Cimabue-Ercolani passasse per caso davanti a un mio disegno e ne rimanesse abbagliato. Così mi sistemai con un blocco di fogli davanti a un gruppo bronzeo di Paolo e Francesca, in attesa del disvelamento. Statua più sbagliata non potevo trovare: un viluppo complicatissimo di membra e panneggi. Mi venne fuori uno sgorbio. Ercolani rimase sì fulminato: ma dal disegno orribile. Non disse una parola, forse perché affranto. Però il ghiaccio era rotto. Mi propose di tornare e alla fine del primo mese mi disse che ero molto bravo. Volle darmi lezioni gratis. Mio padre Ettore - che si ostinava a volermi avvocato - venne a saperlo, e ne fece una malattia. Un pomeriggio affrontò di petto Ercolani, ingiungendogli di lasciarmi stare”. Ma il destino era tracciato. ”Un giorno, in cucina, sento bussare alla porta. Non faccio in tempo ad aprire che mi si para innanzi una signora un po’ buffa, eccentrica, anche aggressiva. A pensarci bene, fu lei a spingere i battenti. ”Che ci fa lei qui?”, mi apostrofò con un forte accento americano. ”Dipingo”, risposi con timidezza. ”Ma lei non può sprecare qui il suo talento: prenda il pullman e lasci la provincia”. L’idea di andare via mi frullava nella testa, ma l’irruzione di quella giornalista del ”New York Times” fu davvero fatale. Aveva visto una mia piccola mostra a Palazzo del Popolo, sempre ad Ascoli, e venne stanarmi in cucina. Qualche giorno dopo partii”. Roma, nei primi anni Sessanta, non era città facile. ”Passai all’’Espresso’, diretto da Gianni Corbi. In via Po, mi offrirono la collaborazione per il mensile appena nato, l’’Espresso Mese’, che però morì prima che io vi cominciassi a lavorare. Flaiano ne recitò l’epitaffio: ”La morte alza le sue pretese, dopo la Posta vuole l’’Espresso Mese’’. Malinconico e abbacchiato, me ne stavo ripartendo, quando Enrico Marussig, un vecchio redattore che qualche volta sostituiva Moravia nella critica cinematografica, la buttò là: ”Ma perché non scrivi una lettera a Zavattini? Va pazzo per i disegni sei per sei: gliene mandi uno e vedi che succede’. Così feci: Zavattini mi rispose dopo tre giorni”. Pericoli ricorda ancora ”le straordinarie smorfie” stampate sulla faccia, nella sua casa di via Angela Merici, mentre ne osserva i lavori. ”Felice come un bambino. ”Ah no, non devi fare l’avvocato. Corri a Milano, dove ci sono i giornali e le case editrici”. Preparò due lettere: una per Gaetano Baldacci, che aveva appena lasciato la direzione del ”Giorno”, e un’altra per Giancarlo Fusco, penna tra le più crepitanti. Io raccolsi i disegni e le poche lire che mi rimanevano. Dissi ai miei genitori che andavo a fare un breve viaggio. Non sono più tornato”. La vita milanese, con Giancarlo Fusco, cominciava dopo le dieci di sera. ”Mi portava nei night più malfamati, nella periferia buia di Lambrate. All’Anthony conobbi l’ex pugile Garbelli e una serie di strani personaggi che, insieme al cappotto, si levavano le pistole. Io mi divertivo. Ascoltavo. Guardavo. Soprattutto mangiavo”. Fusco, ”uomo di generosità straordinaria”, aspettò un paio di mesi prima di portarlo al ”Giorno”. ”Lì fu la svolta: presi a illustrare i racconti di Italo Calvino, Primo Levi, Giorgio Bassani, Pier Paolo Pasolini, Mario Soldati. Il meglio della società letteraria. Poi venne tutto il resto”. Dalla cucina ascolana di Corso Mazzini al salotto milanese di Fulvia, il trasloco era compiuto. Da oltre un lustro, nascosto dietro le ossa slanciate della signora del sabato sera, Pericoli racconta le trasformazioni del costume italiano. ”Nel tempo il personaggio è molto cambiato. Prima era la sciura un po’ sciocca, facile all’infatuazione per lo scrittore del momento. Ora commenta i fatti con le nostre categorie di giudizio. Fulvia in fondo siamo noi, Pirella ed io”» (Simonetta Fiori, ”la Repubblica” 1/8/2002) • «C’è un solo artista del XX secolo che fa qualcosa di analogo: Saul Steinberg. Il paragone è già stato molte volte evocato, ma è perfettamente calzante. Come Steinberg, Tullio Pericoli è un artista fuori dalle categorie tradizionali. In lui tecnica della rappresentazione e oggetti rappresentati sono tutt’uno. Non è un caso che anche nella sua pittura - così riposante e insieme così eccitante - il piacere del disegno sia prevalente, accanto alla tensione tra due e tre dimensioni: il foglio è il mondo e il mondo è un foglio. C’è nelle sue tele una tensione a sfondare lo spazio non solo nella terza dimensione - il lontano - ma anche nella quarta - il profondo. Pericoli è un pittore geologico che, non potendo perforare la superficie del foglio per farci vedere quello che ci è sotto, fa emergere alla superficie gli strati profondi della terra, la sua terra marchigiana, così amata, così desiderata, così sognata» (Marco Belpoliti, ”La Stampa” 31/3/2002).