Varie, 5 marzo 2002
PEZZALI
PEZZALI Max Pavia 14 novembre 1967. Cantante. Prima con gli 883, poi da solo. «Sotto il nome di 883 negli ultimi dieci anni sono nate canzoni diventate molto popolari, spesso veri e propri tormentoni amati dai fan quanto mal sopportati dai critici: Hanno ucciso l’uomo ragno, Sei un mito, Quello che capita hanno scalato le classifiche grazie alla forza della loro semplicità. Bastava ascoltarle una volta e si mandavano a memoria. [...] ”Da un paio di anni sto lavorando sulla voce con un insegnante che utilizza tecniche americane. un lavoro lungo, e su cento cose che apprendo magari solo dieci mi saranno davvero utili”» (Carlo Moretti, ”la Repubblica” 7/6/2004). «Figlio unico, Max ha tutte le caratteristiche per essere un perfetto esempio di italiano post: del post-dopoguerra, del post-Sessantotto, del post-Settantasette, della post-politica. Elementari dalle benedettine: ”Ricordo il giorno del rapimento di Moro, l’atmosfera luttuosa, con le suore che si aggiravano con addosso l’espressione fisica della tragedia. Eravamo bambini, mica sgamati come adesso, ci fece un’impressione terribile”. Poi il liceo scientifico al Copernico, meno esclusivo del Taramelli, ”un asilo da cretini” con professori in costante complesso di inferiorità e quindi più feroci: ogni anno una sofferenza atroce con la matematica e anche una bocciatura in terza. L’iscrizione a Scienze politiche, con un unico esame in Sociologia. Infine, scoraggiato dall’insuperabile esame di Statistica fino a farsi venire l’esaurimento nervoso e dire addio all’Alma Mater. A raccontare come ha cominciato a fare musica non ci si crede. Con un suo amico e compagno di banco, l’extrabiondo Mauro Repetto, e grazie alle mance natalizie derivanti dalla distribuzione dei fiori per le feste, si erano comprati le prime tastiere e la batteria elettronica della Roland. Max fanatico per la voce calda dei Wall of Voodoo di Stan Ridgeway, Repetto più mercantile, Duran Duran e dance nera. [...] agli inizi, seconda metà degli anni Ottanta, i due erano inseparabili. E senza sapere niente di musica, si erano subito messi a fare canzoni, come se fosse la cosa più naturale del mondo. Non come i loro coetanei, che di solito tentano l’avanguardia, l’house, l’acid, la techno, la jungle, tutta roba inascoltabile: ”Macché: primo, facevamo musica per imparare a usare tastiere e computer; secondo, a me è sempre piaciuto fare canzoni, fatte e finite, perché nel mio genoma dev’esserci ben piantata la melodia italiana. Mi piace Vasco Rossi, Eugenio Finardi per cui ho fatto quasi una malattia al tempo dei movimentismi e dei primi centri sociali, il De Gregori di Rimmel, il Battisti ermetico che faceva sperimentazioni con anni di anticipo sugli altri. E così dopo un paio di rap piuttosto artefatti ho messo giù Come mai, una canzone maledettamente romantica”. Già: quella che a distanza di anni sarebbe risultata un successo delirante con le ragazzine che si fanno venire le lacrime agli occhi non appena Max attacca: ”Le notti non finiscono all’alba sulla via...”. Sembrerebbe il ritratto tipico del conformismo nazionale. ”Vero fino a un certo punto. Perché come per tutti, a un certo punto, è scattata la rivolta generazionale. Rispetto ai miei genitori, e alla loro mentalità secondo cui non cambia mai niente, ogni cosa si ridimensiona e alla fine tutto torna sempre uguale, malgrado i computer e l’Euroflora che va online, io non avrò una grande coscienza politica ma mi sembra di sentire ancora l’eco di un’idea secondo cui qualche cosa può essere cambiato. Sono ingenuo? Ma no, sono una via di mezzo. Sono ancora condizionato dalla mia formazione cattolica, sono un po’ centrista, un po’ di sinistra moderata”. Da Marx al punk Dunque dove sarebbe la famosa rivolta? ” arrivata prima: avevo 14 anni, leggevo ”Frigidaire’, ero innamorato di Andrea Pazienza e di quella banda lì. Nello stesso tempo avevo cominciato a frequentare il circolo operaio di ”Lotta comunista’ che come livello iniziatico sembrava Dianetics, virato sul marxismo-leninismo e sulla militanza di sinistra. Una sinistra molto vecchia, molto sospettosa. Ti guardavano storto solo perché eri giovane. Riuscivano ancora, all’inizio degli anni Ottanta, a portare l’eskimo. Chissà dove lo compravano. Poi c’è stata l’epoca del punk, in cui invece grazie al cielo c’era pochissima teoria: ero il classico miope con fondi di bottiglia davanti agli occhi, e quindi fare il punk voleva dire affermare una personalità. Si andava a Milano, al Virus, e a Piacenza, e soprattutto a Bologna, che era la capitale morale del movimento. Ma anche a Pavia, ad esempio per la performance dei Chelsea Hotel, quattro gatti a vederli, con il cantante che prese a tagliuzzarsi le vene e venne portato via dalla Croce verde... Un paio di volte, per curiosità, sono anche andato a vedere che cosa facevano quelli del Fronte della gioventù, ma era solo un trip per cui uno si alzava fascista la mattina e al pomeriggio decideva di fare il nazi, e io ho detto questi sono fuori come un balcone, e me ne sono andato senza salutare”. Il fatto è che il mondo vitale di Pezzali è rimasto quello di sempre, della provincia, del bar Dante fuori dalla cinta muraria, e con i tavolini d’estate, immortalato in alcune canzoni come La dura legge del gol, La regola dell’Amico, Rotta per casa di Dio, frequentato con gli amici di sempre. Ovvero Francesco Bertolotti, alias ”Cisco”, coscienza storico-critica del bar, tornitore in un’azienda meccanica di Binasco. Oppure ”Apo”, cioè Claudio Apone, contabile in un’agenzia di assicurazioni, e ”Yeye”, diploma di geometra, una storia di sette anni di tossicodipendenza risolti con una radicale terapia in comunità, accolto dagli altri come un trionfatore, uno che ce l’ha fatta, una vita ricostruita nel settore agricolo. A parte il bar, Max si alza alle dieci e mezzo, e lavora a casa con le sue tastiere nella sua stanza. In studio di registrazione, a Bresate, gli danno una mano gli altri componenti della factory 883, Pier Paolo Peroni (amico di Jovanotti, ex programmatore di Radio DeeJay) e Marco Guarnerio (fonico-arrangiatore), mentre il pallidissimo Cecchetto, quello che li ha tolti dall’anonimato chiamandoli dopo avere sentito una loro cassetta, è lo stratega, quello che sovrintende alle operazioni complessive, dal packaging al lancio. Perché gli 883 sono effettivamente un prodotto industriale, rivolto al mercato: con l’aggiunta di un atteggiamento scanzonato, da buona compagnia, che riesce a frullare insieme il professionismo con il dilettantismo, il calcio con l’immaginario giapponese. Dalla discoteca allo stadio. Con il risultato che Pezzali, men-tre prima era considerato trash puro, è stato recuperato. [...] ”Sono sempre quello che è cresciuto a pane e fumetti, i Supereroi, Alan Ford di Magnus & Bunker, e anche Tex Willer e Zagor, fino a Dylan Dog di Tiziano Sclavi, che oltretutto è di Broni, proprio qui dietro casa. Hanno ucciso l’uomo ragno, o Nord Sud Ovest Est nascono proprio dai fumetti. E naturalmente quello che andava per discoteche, dove lui ha imparato a fare il sociologo sul campo, a osservare le coppie che ”si baciano come nei film, poi si tradiscono dopo un’ora” (Nella notte): ”C’erano due discoteche, a Pavia, il Docking per i fighetti, e il Celebrità, poi ribattezzato Matisse, più girato sul rock. Ci si andava un paio di volte la settimana. La discoteca era il luogo in cui entravi in contatto con la città, perché venivano quelli di Milano, o per meglio dire dell’hinterland, a farti concorrenza con le tipe. Uno scontro fra provinciali. In ogni caso la discoteca era anche un luogo che veniva interpretato come un palcoscenico. Capirai, in provincia ci si conosce tutti, tutti sanno che fai la parrucchiera o il meccanico, eppure tu vai nel locale e fai la divina o il dark”. Cultura? ”Tutte le mattine il ”Corriere’, la ”Provincia pavese’ e naturalmente la ”Gazza’, perché il calcio è la mia antropologia. Libri, pochi. Mi piacciono gli spaccati storici. Impazzito per Fatherland di Robert Harris, cioè di un’idea di storia parallela, di che cosa poteva succedere se Hitler avesse vinto la guerra. Romanzi ancora meno[...] molto Stephen King, anche adesso”. [...]» (Edmondo Berselli, ”L’Espresso” 11/5/2000). Vedi anche: Tommaso Pellizzari, ”Sette” n. 35/1998; Stefania Ulivi, ”Sette” n. 45/1999.