Varie, 6 marzo 2002
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Adams Ryan
• Jacksonville (Stati Uniti) 5 novembre 1974. Cantante • «Confondendo anche un po’ le idee intorno al proprio nome, che suonerebbe identico a quello di Bryan Adams se non fosse per la mancanza della “B” iniziale, è uno che si è guadagnato attenzione e rispetto perché è apparso ai più tenaci utopisti come la nuova speranza del vecchio rock, proprio quello duro e puro che ha in Bob Dylan la mamma e in Bruce Springsteen il papà. Salutato dalla critica statunitense come il fenomeno del 2001, fra i due modelli di riferimento sembra senza dubbio scegliere il primo […] Il primo album, Heartbreaker, fu salutato con entusiasmo dalla comunità rock, mentre più controverso è stato il giudizio sul secondo, lunghissimo Gold […] Adams è californiano, e ha intitolato Gold, oro, l’album, perché così dice che gli appare Los Angeles al tramonto: “Ma non fatemi analizzare le canzoni. Io sono uno che guarda al futuro e ho già un sacco di altro materiale nel cassetto. Mi sono dato due obiettivi, nella vita artistica: non analizzare quel che scrivo e non leggere gli articoli che vengono scritti su di me”. Non c’è dubbio, è un nipote di Bob Dylan» (Marinella Venegoni, “la Stampa” 20/2/2002) • «Uno dei musicisti più in vista della canzone d´autore americana. [...] Due anime [...] quella del rocker e quella del cantautore, che racchiude in una personalità musicale davvero unica. [...] “Ogni volta che faccio un disco ridefinisco me stesso. Ogni disco non racconta tutto quello che sono, ma solo alcune parti di me”. Prolifico lo è di sicuro. [...] “Scrivo costantemente, penso a me stesso come a un artista che dipinge bozzetti» dice lui e aggiunge che se morisse domani la sua casa discografica avrebbe materiale per una lunga serie di album postumi”. [...] Amante della poesia (una delle sue canzoni più belle è Sylvia Plath), autore di racconti, innamorato dell´Europa (“Amo il sud degli Stati Uniti, ma vivrei volentieri tra Amsterdam, Parigi e Roma”), è senza dubbio una delle personalità più interessanti della musica americana di oggi, un artista che si muove liberamente, infischiandosene del marketing e delle mode, seguendo solo la sua ispirazione: “Del resto non saprei fare altrimenti. Volevo cantare e suonare fin da piccolo e, visto che sono fortunato, quello continuo a fare, costantemente, ogni giorno della mia vita”» (Ernesto Assante, “la Repubblica” 7/1/2004) • «[...] nel 2000 lo salutarono come “next big thing” del rock, una sorta di Prescelto che aveva saputo mediare, nell’ancora insuperato Gold, country e pop, acustico ed elettrico, tradizione e innovazione. Si trattava davvero di capolavoro, uno dei pochi dischi irrinunciabili degli ultimi dieci anni. I suoi primi passi furono tali da giustificare la coniazione di un genere ad hoc che fotografasse lo stile di Ryan Adams: la critica parlò di “alternative country”, o addirittura di Americana: come se la musica del buon Ryan [...] coincidesse addirittura con l’America. Come se nelle sue note, nei suoi lineamenti stropicciati, nella sua voce in grado di arrampicarsi su suoni veracemente autentici, potesse rispecchiarsi un continente intero. Non è facile esaudire le aspettative, specialmente quando sono (troppo) alte. Adams ha affrontato il futuro con insicurezza onnivora, sbandando di qua e di là come un pugile suonato. Ha inciso di tutto, ha litigato con i discografici di mezzo mondo, ha ammiccato alla nicchia per poi tornare commerciale. Ha “copiato” da ogni genere possibile. Nel 2004 ha regalato una cover mozzafiato di Wonderwall degli Oasis, l’anno dopo ha dato sfogo alla sua attitudine compulsiva incidendo tre dischi in dodici mesi. Per il 2006 aveva promesso altri tre dischi, ma la casa discografica non ha assecondato la sua bulimia compositiva. Dopo due anni di pausa, per lui un’eternità, Adams (nessuna parentela con Bryan) è tornato sul mercato con Easy Tiger, che non è né carne né pesce. Più confuso che eclettico, più noioso che acustico, tranne qualche sparuto guizzo (perché il talento, a coltivarlo, ci sarebbe eccome). La situazione è fin troppo semplice: Ryan Adams non ha ancora deciso cosa fare da grande. È stato idraulico, cameriere, lavapiatti, panettiere, demolitore. Non ha la patente, non guarda la tv (a parte Friends, dice lui), è un mezzo matto che ama bere e vestirsi da cani (dicono gli altri). È grande amico di Phil Lesh, icona dei Grateful Dead. A volte è Bob Dylan, altre Neil Young, quando ha la luna di traverso oscilla tra Gram Persons e Damien Rice. L’auspicio, un giorno non lontano, è che decida di essere se stesso» (Andrea Scanzi, “La Stampa” 3/8/2007).