varie, 6 marzo 2002
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Pinter Harold
• Hackney (Gran Bretagna) 10 ottobre 1930, Londra (Gran Bretagna) 24 dicembre 2008. Drammaturgo. Commediografo. Attore, regista e sceneggiatore. Premio Nobel per la Letteratura 2005. «Ricevendo una laurea ad honorem dell’Università di Firenze, Harold Pinter mise in imbarazzo le autorità quando pronunciò al posto della lectio magistralis di prammatica un’appassionata invettiva contro l’imperialismo americano, senza lesinare al presidente Bush le accuse addirittura di genocidio. [...] al primo Pinter era stata applicata la definizione, anche, di teatro della minaccia. Nel testo dell’esordio, La stanza (1957), un locale chiuso ospita un crescendo di malessere che culmina in un omicidio. Seguì Il compleanno, in cui due tipi equivoci vengono a prelevare un tale, non si sa perché; fu quindi la volta del Calapranzi, con una coppia di sicari appostati in un sottoscala, in attesa di direttive che però arrivano sempre più confuse. Nella Serra (1958) un ospedale per malati di mente è metafora di un mondo dominato dal totalitarismo; nel Guardiano (1959), il primo vero successo, un barbone alla ricerca di un rifugio diventa la preda contesa tra i suoi anfitrioni, due fratelli rivali. In tutti questi testi si ride - l’ironia, fraintesa da alcuni dei primi registi di Pinter fuori d’Inghilterra, è invece parte fondamentale del linguaggio di questo autore, non meno che per Kafka, dal cui cognome come da quello di Pinter è derivato un aggettivo in parecchie lingue europee - ma c’è un sottofondo di disagio. Nato [...] a Hackney, ossia nella Londra periferica, figlio di un sarto ebreo di lontane origini portoghesi, obiettore di coscienza a diciott’anni (processato, se la cavò con una multa), Harold Pinter iniziò come attore, e come attore di repertorio, anche nella compagnia del grande vecchio interprete shakespeariano itinerante Donald Wolfit, quello immortalato in Servo di scena di Ronald Harwood, la cui amicizia con Pinter risale alla condivisione di quella esperienza. Il mestiere non lo dimenticò mai [...] tornò a calcare le scene addirittura nel West End, in una riproposta del suo Terra di nessuno, per non parlare di qualche notevole cammeo cinematografico. Ma soprattutto gli servì per scrivere da attore e per gli attori, con un orecchio infallibile per la resa delle parole sul palco. Altri drammaturghi, grandi ma privi di questa formazione (Miller, Williams), produssero copioni poi bisognosi di tagli e insomma dell’adattamento di un regista. Quelli di Pinter sono partiture musicali, dove anche le pause sono registrate con precisione, e dove ogni minima alterazione comporta grossi rischi. Pinter è stato un innovatore nella sostanza, non nella forma, ché previde sempre spazi e recitazione convenzionali, realistici. Quello che spiazza, sorprende e inquieta nei suoi testi è la sommessa violazione di certe regole non dette del teatro tradizionale, per esempio quella secondo cui un personaggio presentandosi dice la verità. I personaggi di Pinter invece mentono spesso, in primo luogo su se stessi - ”recitano”, proprio come noi recitiamo nella vita, dandoci importanza in certe situazioni o fingendo umiltà in altre. Spiandoli, ci facciamo su di loro idee che in seguito vengono contraddette, lasciandoci un senso di confusione che, di nuovo con nostra costernazione, non verrà consolato da un finale chiarificatore. In questa vena, tralasciando i numerosi pezzi brevi (cultore della concisione, Pinter ama proporre a volte, come Beckett, atti unici di pochissime pagine), alcuni tra i titoli principali sono Ritorno a casa (1965), Paesaggio e Silenzio (1968), Vecchi tempi (1971), Terra di nessuno (1974), Tradimenti (1978), Altri luoghi (1982), Party Time (1991), Moonlight (1993), Ceneri alle ceneri (1996). Poeta e romanziere, ma in primo luogo uomo di spettacolo a tutto tondo, Pinter oltre che come drammaturgo e come attore si è distinto come eccellente regista teatrale, di quelli che accantonano la loro personalità per mettersi al servizio di un testo, e come geniale sceneggiatore cinematografico. Piace comunque pensare che premiandolo col Nobel per la Letteratura l’Accademia Svedese abbia voluto segnalare, oltre che un intellettuale coraggiosamente impegnato nella battaglia per il salvataggio della civiltà, il più illustre esponente del Teatro: ossia di quella indispensabile forma di arte che ogni giorno mette in contatto persone vive, senza mediazioni meccaniche. [...]» (Masolino D’Amico, ”La Stampa” 14/10/2005). «[...] è un numero uno in un teatro che ha comunque a che fare con la letteratura da quando cominciò a rappresentare i suoi testi nel 1957 ed era già famosissimo [...] dai primi anni Ottanta, cioè dal suo secondo matrimonio, con Antonia Fraser, ha anteposto la lotta politica, che dai suoi inizi non gli è mai stata estranea, all’affermazione in teatro, ma da quel tempo ha ridotto al massimo la scrittura di testi, preferendo da allora dedicarsi alla poesia o ad atti unici ridotti alla massima secchezza, e facendosi notare soprattutto per la sue dichiarazioni contro le campagne di guerra imperialistiche, tanto che da poco gli è stato assegnato il Premio Wilfred Owen per la poesia contro il conflitto. Attore teatrale, come del resto la sua prima moglie Vivien Merchant, Pinter debutta come drammaturgo prima dei trent’anni con La stanza, che insieme ai testi subito successivi, puntualmente sfornati di anno in anno - e sono ormai classici come Il compleanno, Il guardiano, Il calapranzi, Il ritorno a casa - contribuiscono a dargli un posto a parte nella corrente degli arrabbiati, che scandalizza in quel tempo Londra, dove gli autori sono però considerati dei registi, e ciclicamente sono protagonisti di qualche rivolta contro l´establisment. Ma, a differenza degli Osborne o dei Bond, Pinter sembra più ribelle per il suo modo di scrivere, che non ignora l’influenza di Kafka e di Beckett, di cui diverrà anche amico, che non per gli attacchi al sistema. I suoi personaggi rimangono chiusi in interni, prigionieri di quella che qualcuno chiamerà ”la drammaturgia delle stanze”, catturati da una conversazione che ruota sui luoghi comuni quotidiani per puntare, non tanto sulla distruzione della logica che caratterizzava l’assurdo degli stranieri di Francia un decennio prima, quanto sulla distruzione del costume piccolo borghese nella sua ripetitività, con un lavoro che parte dalla satira o dallo svuotamento della lingua per rifrangersi sulla meccanicità dei gesti. E il discorso procede implacabile di commedia in commedia, perché Pinter è bravissimo anche nel farsi spiritosamente il verso o nel pescare diverse interpretazioni dei suoi lavori da anno all’altro. Così Terra di nessuno (No Man’s Land), divenuta leggendaria nel 1975 grazie all’interpretazione di due mostri sacri della stazza di Ralph Richardson e John Gielgud, nel chiacchierato teatro di Hampstead sul filo di un gioco omosessuale, rinasce in un’altra sala di Londra diciott’anni dopo scoprendo il suo vero tema nella passione per l’alcool, condivisa dall’autore che è in scena dove si ritrae bevendo e appare straordinariamente diverso dalla sua immagine d’intellettuale, opaco come un impiegato di banca, con una voce grezza e dura da bettola, tozzo e netto nei suoi contorni rispetto alla sinuosità delle parole che emette, eppure passibile di rivelarsi un mutante dopo pochi bicchieri, quando traballante s’abbatte a terra, s’aggrappa alla poltrone e ricade, per poi uscire a gattoni come un orso; e sembrare puntualmente un altro al suo rientro. Oppure nel 1997, per festeggiare i quarant’anni del suo primo lavoro, di cui ci tiene a far brillare la longevità, scrive Celebration, dove è appunto un anniversario a venir celebrato da un gruppo di snob con pompa insensata e lo accoppia alla povertà grigia ma espressiva della sua mitica Stanza. [...] La fortuna di Pinter in Italia deve molto alle interpretazioni dal realismo quasi britannico di Carlo Cecchi negli anni Ottanta in cui trova una grande diffusione specialmente grazie alla generazione giovane, e vede comunque ritornare con insistenza certi lavori, come Tradimenti, dove una storia d’amore a tre si svolge a rovescio, scena per scena, dalla fine all´inizio, per cui l’interesse si sposta dall’azione al modo in cui i diversi protagonisti la vivono. In passato l’autore si era anche dedicato molto al cinema, lavorando in particolare con Joseph Losey, per cui ha scritto le sceneggiature di Il servo, L’incidente e Messaggero d’amore. Interessava anche a Losey, oltre a Resnais, Bergman e Visconti, la Recherche di Proust adattata per il cinema, ma ne è ahimè sortito solo un modesto Amour de Swann di Volker Schlondorff con Jeremy Irons e Alain Delon, oltre alla pubblicazione del treatment, mentre Altman ha girato direttamente dai testi teatrali i suoi film ripresi dalla Stanza e dal Calapranzi. Ma, come si sa, l’ultimo Pinter, che ha ormai i suoi anni, è evoluto verso un altro modo di concepire il teatro. Salvo qualche licenza per festeggiare degli anniversari, dopo la scintilla di Moonlight, i suoi testi si sono via via raggrumati in atti unici, sketch fulminei o comunque in brevi composizioni molto meditate e duramente polemiche, realizzate e ascoltate con religione nel paese natio e rappresentate da noi specialmente da santoni della ricerca. Ma vanno ricordati almeno Il bicchiere della staffa, che ha per tema la tortura e in particolare Il linguaggio della montagna, che mette in scena le vittime di una guerra costrette a parlare una lingua che non conoscono nelle visite ai congiunti prigionieri e che finiscono per usare come tramite del loro linguaggio il silenzio in una pagina mirabile che il pubblico premia a sua volta col suo eloquente silenzio. Senza mai perdere il culto della parola nella sua scrittura controllatissima, Harold Pinter è riuscito a far evolvere le sue modalità espressive man mano che portava avanti una lotta per un’altra giustizia e per un diverso modo di concepire i rapporti umani [...]» (Franco Quadri, ”la Repubblica” 14/10/2005). «L’autore de Il calapranzi, Il guardiano, Il compleanno, colui che ha messo in scena l’isolamento dell’uomo del Novecento, braccato da una minaccia sconosciuta, prigioniero di un’incomunicabilità che sta tra farsa e tragedia. [...] ”Sono semplicemente uno scrittore, non un sacerdote. E la mia scrittura è strettamente connessa all’impegno politico: succede, quando si tratta un tema come la vita”. Una vita che, sul grande schermo, Pinter non ha mai raccontato con sceneggiature originali ma affidandosi ad adattamenti di romanzi da McEwan a Kafka alla Atwood o alle sue stesse pièce: ”Non so perché ho sempre convogliato tutte le mie idee originali nel teatro. Eppure il mio primo amore è stato il cinema: a 14 anni mi iscrissi ad un cineclub e mi nutrii di Ejsenstein e Pudovkin, Cocteau e Buñuel, il noir francese. Andavo raramente a teatro”. Il sodalizio indimenticabile è quello con Joseph Losey, per il quale ha scritto tra l’altro la sceneggiatura di Messaggero d’amore: ”C’era una grande affinità, sapevamo esattamente cosa aspettarci l’uno dall’altro. Ricordo che per Messaggero non riuscivo a buttar giù una parola. Allora chiamai Joseph, gli raccontai della mia difficoltà e lui mi raccomandò: ”Fatti un giro nel parco’. Niente. Lo richiamai, e lui. ”Fatti una bevuta’. Niente. Alla terza supplica, mi disse: ”C’è una sola cosa che puoi fare: inizia’. Così nacque quel film”. Molte le sceneggiature mai realizzate, tra l’altro una Recherche per Losey, adattata quest’anno per il teatro: ” sempre più difficile scrivere per il cinema. Si sta ripetendo con insistenza ciò che mi è accaduto con Lolita di Adrian Lyne: alla terza riscrittura il regista sembrava contento. Poi non si è fatto più sentire. Un giorno mi chiamava David Mamet. Anche a lui era successa la stessa cosa. Il cinema americano ha preso il sopravvento. E gli americani lavorano così”. Di quello inglese, apprezza Ken Loach; dei nuovi drammaturghi Sarah Kane. E il teatro italiano? ”Ho sempre avuto un ottimo rapporto con i vostri registi e attori. Tranne che con Visconti: quel Vecchi tempi che mise in scena nel ’74 non mi apparteneva. Era una rielaborazione tutta sua”. Con quali cineasti italiani le sarebbe piaciuto lavorare? ”Fellini, Pontecorvo... E Visconti, of course”» (Fulvio Paloscia, ”la Repubblica” 11/9/2001). «[...] ha donato una nuova parola al dizionario inglese, ”Pinteresque”, equivalente a un dramma carico di enigmatici silenzi e di verità pronunciate a denti stretti [...] Da sempre pacifista e accanito difensore dei diritti umani, ha guidato l’opposizione alla guerra in Iraq all’interno della sinistra britannica, diventando un feroce critico di Tony Blair: ”Non sopporto più quel criminale di guerra che va in giro con un ipocrita sorriso cristiano stampato in faccia. stato un idiota ad andare dietro a Bush in questa avventura”. Di Bush e dell’America ha detto anche peggio: ”Gli Stati Uniti sono il vero stato canaglia, un paese arrogante, sprezzante, indifferente alle leggi internazionali, la potenza più pericolosa che il pianeta abbia mai conosciuto”. Quando, nonostante la sua promessa di occuparsi soltanto di politica, ha ripreso a scrivere, ha messo la politica e la guerra al centro del suo palcoscenico mentale: con War, un libro di poesie, e Voices, un testo teatrale che riprende e rielabora frammenti dei suoi ultimi drammi, scandito dalle parole dei discorsi di Bush e Blair, dall’eco delle operazioni militari in Afghanistan e in Iraq, e da un’accusa implacabile: ”L’infernale condizione che stanno vivendo tutti gli uomini della terra, in Occidente e altrove, è colpa di un potere dissennato”, il potere dell’America. [...]» (’la Repubblica” 14/10/2005). «[...] ha prodotto, [...] uno straordinario corpus di scrittura, e ha definito per noi una certa, unica, speciale qualità di silenzio, di minaccia, di assurdo sociale. Ha avuto e ha il merito impareggiabile di aver liberato il teatro inglese dalle limitazioni del realismo [...] è stato una figura rivoluzionaria: una figura che permette a ogni generazione di rileggerlo e reinterpretarlo, e che sa cogliere nelle sue opere sempre nuovi significati e nuovi valori. [...] In Inghilterra quando la gente dice ”pinteresque” sa perfettamente cosa vuol dire, esattamente come quando si dice kafkiano: appunto questo cocktail di assurdo nella vita delle persone normali. [...] Ha una presenza imponente, e quando si va a trovarlo la prima volta ci si può sentire intimiditi. [...] Invece Pinter è un uomo di grande senso dello humour e di grande calore. [...]» (Ian McEwan, ”la Repubblica” 14/10/2005). «Non sono un teorico. Non sono un commentatore autorevole né attendibile della scena drammatica, della scena sociale o di qualsiasi altra scena. Io scrivo commedie, quando ci riesco, e questo è tutto. Questo è quanto. Quindi vi parlo, ma sono un po’ riluttante a farlo, ben sapendo che ci sono come minimo ventiquattro possibili interpretazioni per ogni singola frase, a seconda di dove ci si trova o di com’è il tempo. Una dichiarazione categorica – così io ritengo – non rimarrà mai come è e dirsi finita. Sarà immediatamente oggetto di modifica da parte delle altre ventitré sue alternative. [...] Mi ci è voluto un bel po’ per abituarmi al fatto che la reazione della critica e quella del pubblico in teatro seguono una carta delle temperature alquanto variabile. Per uno scrittore il pericolo a questo proposito è quello di cadere preda delle vecchie manie, l’apprensione e l’aspettativa. [...] Fare teatro è un’attività smisurata, energica, pubblica. Scrivere, per me, è un’attività del tutto privata, che si tratti di una poesia o di una commedia non fa differenza. Non è facile conciliare questi aspetti così diversi. Il teatro professionista, quali che siano le virtù che esso senza alcun dubbio possiede, è un mondo di falsi climax, di tensioni calcolate, di qualche isteria e di un bel po’ di inefficienza. I campanelli di allarme di questo mondo, nel quale presumo di lavorare, stanno diventando sempre più diffusi e intrusivi. In sostanza, però, la mia posizione è rimasta immutata. Ciò che io scrivo non ha obblighi verso nient’altro che ciò che io scrivo. La mia responsabilità non è verso il pubblico, i critici, i produttori, i registi, gli attori o i miei propri simili in generale, bensì soltanto verso la commedia che ho per le mani, tutto qui. Prima vi ho messo in guardia contro le mie dichiarazioni definitive, ma pare proprio che ora io ne abbia appena fatta una» (’la Repubblica” 14/10/2005).