Varie, 6 marzo 2002
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Pintor Luigi
• Roma 18 settembre 1925, Roma 17 maggio 2003. Dal 1946 al 1965 ha lavorato all’’Unità”. Nel 1969 è stato tra i fondatori del ”manifesto”, prima rivista e poi quotidiano • «Di famiglia sarda, è stato giornalista, scrittore, deputato del Pci, poi comunista eretico, fondatore e direttore del ”manifesto” (rivista, partito e giornale). Sulla fine degli anni Ottanta s’era riavvicinato agli antichi correligionari del Pci, per separarsi in seguito, definitivamente, dalla nuova formazione post-comunista. Una vita spesa comunque a sinistra, la sua. Con dedizione. Con caparbietà. Con inquietudine. Quest’ultima qualità, o dono - una trepidazione venata di arguta malinconia - vale più d’ogni altra a spiegarne la personalità e il destino. E ad imporlo al ricordo di molti. Arrivando diciottenne all’impegno politico, aveva appena subìto quel trauma che lo avrebbe segnato nel profondo: la scomparsa del fratello Giaime, scrittore, critico, studioso di letteratura tedesca, editor (si direbbe oggi) della Einaudi, uno dei più promettenti ingegni dell’Italia sul crinale tra fascismo e libertà. Giaime era morto a poco più di vent´anni, nel ’43, saltando su una mina mentre cercava di passare il fronte laziale per organizzare la lotta partigiana. La presenza delicatamente mitica di Giaime s’indovinerà per sempre in Luigi, al di sotto delle sue apparenze più divulgate d’uomo-contro, di moralista, d’intellettuale votato alla polemica, mezzo illuminista e mezzo giacobino. Era stato Giaime, di sei anni maggiore di lui, il mèntore della formazione di Luigi e poi anche l’arbitro - postumo e invisibile - di tante sue scelte. In Servabo, un breve libro del 1991, Luigi parla delle scoperte culturali che andava facendo da ragazzo: fra l’altro, i romanzi di Vittorini e di Pavese e la spinta, che ne derivava, verso la narrativa americana. Una vetta della letteratura yankee, Herman Melville, resterà fra i suoi autori di culto. Del cinema parlava come di una rivelazione preziosa. C’era infine la musica, malattia di famiglia. Suo padre Giuseppe, funzionario al Provveditorato delle Opere Pubbliche di Cagliari, si sentiva un musicista mancato e ne soffriva. Luigi stesso suonava, con la passione d’un dilettante colto. ”Per tutta la vita”, confessava, ”mi sono tirato dietro, di casa in casa, un pianoforte”. I Pintor erano antifascisti: uno zio paterno, Fortunato, un bibliofilo erudito che aveva collaborato alla Treccani, dové dimettersi per motivi politici dalla Biblioteca del Senato di cui era un dirigente. Un altro zio (o forse lo stesso) accompagnerà Luigi a cercare le spoglie di Giaime in quel paesino, Castelnuovo al Volturno, dove aveva trovato la morte. La partecipazione di Luigi alla Resistenza durante l’occupazione nazista di Roma, nei Gruppi di Azione Partigiana (Gap), cui seguirono l’arresto da parte della ”banda Koch” e la condanna a morte sventata dalla Liberazione di Roma, s’inseriscono in questo quadro etico-politico. Ma anche qui ecco risuonare una di quelle note elegiache che a Pintor molto somigliano. Nei mesi della lotta antifascista nella capitale - egli raccontava - gli fu vicino un amico d’infanzia, Silvio Serra, che sarebbe poi stato ucciso in combattimento. Quando, assai più tardi, Pintor vide i giovani del Sessantotto, gli sembrò di averli sempre conosciuti: Serra, il suo antico compagno, vestiva esattamente come loro ”anche se allora l’eskimo non c’era”. Partigiana era anche la sua prima moglie, Marina Girelli (che sarebbe morta alla fine degli anni Settanta). L’aveva sposata a vent’anni. A ventidue avevano già due figli. Nei quindici anni successivi l’attività di Pintor non si discosterà da quella tipica degli intellettuali ”organici” all’interno del Pci. Luigi portava un cognome mitologico, ma non era incline a farsene un’aureola. Come giornalista – all’’Unità”, prima come redattore politico, poi come condirettore dell’edizione di Roma - era colto e attento, anche se le sue vere doti di editorialista le avrebbe dimostrate più tardi, in contesti assai più liberi. Membro dell’Ufficio di Segreteria del partito, consigliere provinciale a Roma, il suo ”cursus honorum” prosegue e quasi si conclude (il quasi lo si chiarirà più avanti) nel 1968 con l’elezione alla Camera in un collegio sardo. Del suo spirito caustico e autonomo non si ebbero prove decisive in quella fase. [...] In un momento cruciale, dopo quel XX congresso del Pcus che segnò l’addio al Pci di molti fiancheggiatori, fu proprio Pintor a rimbrottare sul settimanale ”Il Contemporaneo” uno dei dissenzienti, Carlo Cassola, per avere scelto ”il divorzio dall’azione politica, e quindi dall’azione civile e sociale”. E’ perciò difficile dire se già in quel ’56 covino in Pintor germi di insubordinazione partitica. I dodici anni che separarono la tragica rivolta di Budapest dalla primavera (repressa) di Praga sono per tanti intellettuali inquadrati nel Pci una parentesi d’insofferenza mascherata. Sulla metà degli anni Sessanta, tuttavia, nel mondo comunista l’aria si fa pesante. La crisi all’interno dei satelliti europei si somma con l’eresia cinese, in Urss il dissenso fa sentire la sua voce, albeggia il Sessantotto, nel mondo del lavoro si preannunziano tempi ”caldi”. Nel Pci, l’ala sinistra rappresentata dai seguaci di Pietro Ingrao - il leader sconfitto all’undicesimo congresso, nel 1966 - si pone di fatto come un nucleo di opposizione interna. Tre suoi esponenti, Luigi Pintor, Rossana Rossanda ed Aldo Natoli, vengono eletti nel Comitato centrale per iniziativa di Enrico Berlinguer, nominalmente ancora vicesegretario (con Luigi Longo). Ma quel gruppo di dissenzienti fornirà una prova tangibile di indipendenza: la fondazione della rivista il manifesto, diretta da Lucio Magri e Rossana Rossanda, ma promossa anche da Pintor, Natoli, Caprara e altri intellettuali. Quella rivista osava l’eresia. Il numero 4, settembre 1969, conteneva una lettera di Pintor che la stampa ufficiale del Pci s’era rifiutata di pubblicare per il suo tono apertamente polemico nei riguardi di Giorgio Amendola, che aveva sostenuto sull’’Unità” la necessità, per il Pci, di entrare nel governo a breve scadenza. Era, questa reazione critica, una delle tante mosse temerarie che il gruppo si concedeva. La replica del vertice comunista era nell’aria. La procedura repressiva adottata dal partito fu di una suprema macchinosità burocratica. Prima venne soppressa la rivista. Poi il Comitato centrale deliberò la ”radiazione” di Pintor, Rossanda e Natoli e infine emise provvedimenti a carico di altri esponenti: Magri, Caprara, Parlato, Luciana Castellina. Volle essere un esempio. Non per questo il manifesto interruppe la propria corsa. Nel giro di due anni, la rivista si trasformò in quotidiano. [...] Si tentava di dar vita, egli dichiarò, a ”un giornale povero” con un ”minimo vitale” di trentamila copie. ”Uno strumento di intervento continuo, di informazione continua, di presenza e battaglia continue”. Pintor ripensava ”alla grande esperienza dell’’Unità’ dell’immediato dopoguerra, che ebbe un afflusso di giovani quadri venuti dalla Resistenza. Essi inventarono il giornale, impararono a farlo e lo fecero bene, sostituendo i gruppi dirigenti originari”. difficile dire se questo programma si sia compiuto. In parte, certamente sì. Pintor ha conosciuto durante gli ultimi decenni traversie politiche - come l’avvicinamento al Pci, che lo fece eleggere deputato ”indipendente” nel 1987, e il successivo distacco dal Pds nascente - e smisurate tragedie personali: la morte dei suoi due figli, Giaime junior e Roberta. Per lui il manifesto rappresentava, più che mai, un’oasi. ”Era solo un giornale”, avrebbe raccontato, ”ma per noi era molto di più, ed entrarci non era una scelta di mestiere ma un arruolamento volontario”. Gli editoriali che egli andava scrivendo - ne ha raccolto nel 2001 un gruppo, in un volume intitolato Politicamente scorretto - erano spesso ironici fino al surreale. Somigliavano ad epigrammi, a parabole laiche. Emanavano una luce da ”anno zero”. Parlavano, a volte, fuori dai denti. Ma contenevano ”in nuce” la stessa felicità di scrittura, lo stesso distacco raffinato e dolente che Pintor mostrava nei suoi libri di ricordi, dal già citato Servabo (1991) alla Signora Kirchgessner (1998) al Nespolo (2001), tutti editi da Bollati Boringhieri. Produrre brevi articoli o esili autobiografie era l’unica cosa che gli restava. ”Come da un osservatorio astronomico si guarda il cielo”, ha raccontato, ”così dalla mia postazione mi affacciavo sul grande scenario e credevo di partecipare al moto degli astri mentre sedevo a una macchina da scrivere”. L’ultimo libro, I luoghi del delitto, accompagna la scomparsa del suo autore, e la preannunzia con la solita levità elegiaca. ”Penso con sollievo che la morte mi ricondurrà dov’ero, cioè da nessuna parte. Ma questo cielo notturno mi seduce e mi fa credere per un momento in un aldilà dove si possono capire le cose incomprensibili dell’aldiqua”. Una laica scommessa» (Nello Ajello, ”la Repubblica” 18/5/2003) • «Il colletto della camicia sbottonato. Il pacchetto delle sigarette sul tavolo, una tra le dita. Nella stanza, il girare a vuoto delle frasi di alcune persone che inseguono una formula magica da trovare ogni sera, e ogni sera diversa, senza riuscire ancora ad afferrarla. Poi, il più delle volte, Luigi Pintor, quello con quella camicia e quelle sigarette, che tira fuori due, tre parole, o anche una sola, ed ecco la soluzione. Operazione compiuta. Preda afferrata. La si consegni in tipografia. Sono nati così, per anni, tanti titoli del ”manifesto”, quotidiano comunista figlio di un’eresia. Schizzi di sarcasmo, zaffate di critica, sfottò urticanti o puramente divertenti senza essere, però, né bonari né ingenui. Titoli come ”Istituzioni a delinquere”, nel 1973, su un voto del Senato che negava l’autorizzazione a procedere contro sei parlamentari per lo scandalo Ingic, un antenato di Tangentopoli. Oppure ”Il mitile ignoto”, sulla tendenza di certa stampa a non individuare colpevoli nella diffusione del colera in una Napoli malgovernata e con le cozze a far da capro espiatorio. Per aver decantato sull’organo del Psdi le qualità di Giuseppe Saragat, che lo aveva nominato senatore a vita, il poeta Eugenio Montale ricavò un corsivo intitolato così: ”Ossi di presidente”. Non più di seppia. Rispondeva ad un metodo, la libera inventiva di Pintor: la scelta di andare al dunque, evitare il superfluo. ”Limavo i miei scritti stampati sul giornale... scoprendo che c’è sempre una riga su tre di troppo”, ha raccontato sui suoi esordi da giornalista che poi lo portarono ad essere condirettore dell’’Unità” , prima della radiazione dal Pci nel 1969, e direttore del ”manifesto”. ”Ho applicato alla scrittura le tecniche meticolose che si usano su una tastiera”, ha ammesso riferendosi al pianoforte. Il risultato è stato l’opposto di un virtuosismo barocco, del dilettarsi in inutili giochi di parole. E l’ammissione conteneva la confessione di un intimo desiderio: una vita diversa da quella che si era sentito in dovere di vivere. Forse avrebbe preferito che qui si fosse descritto un musicista o un uomo di cinema. Come ha spiegato in Servabo , libro amaro e profondo, gli piaceva credere che se non ci fosse stata la Seconda guerra mondiale la politica sarebbe rimasta per lui ”una curiosità secondaria”. Ma la guerra, ricordava Pintor, ”si è sovrapposta alla mia adolescenza con la precisione di una calcomania”. Invece che artista tenuto a fantasticare, il diciottenne Luigi si ritrovò un ragazzo costretto a cercare il corpo del fratello nei pressi di un campo minato. Giaime, più grande di sei anni, era morto per combattere i nazifascisti nel dicembre 1943. ”Quelle vicende hanno deciso interamente del mio futuro, formando tutto il mio modo di pensare”, riconosceva Luigi, chiamato in una lettera del fratello a continuarne la lotta. Gappista, venne catturato dalla lugubre ”banda Koch”, picchiato per ore. Fu la sorte a salvarlo dall’esecuzione. Il resto dell’esistenza, più tardi, non gli risparmiò insidie. La malattia che gli sottrasse la prima moglie. Le perdite ravvicinate dei due figli, Giaime e Roberta. Verso Pasqua, su di sé, la scoperta di un tumore. Troppo tardi. [...] Di certo, il pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà evocati da Gramsci, sardo come la sua infanzia, li aveva sperimentati per reggere agli urti della vita. E li usava non soltanto per quello. Era uno che nel 1975, aprendo un dibattito sul ”manifesto”, chiariva da subito: ”Il giornale non ci pare all’altezza dei compiti”. La testata rimaneva ancora legata a una forza politica, il Partito d’unità proletaria. Alla concezione togliattiana secondo la quale un giornale è ”la politica del partito che si fa quotidiana”, Pintor preferiva il paragone con ”una rondine che la mano del partito non deve stringer troppo per non soffocarla, né troppo poco perché non voli via”. C’era un residuo della diplomazia acquisita nel Pci, in quella tesi. In realtà Pintor affermava anche che ”un giornale ha bisogno di una direzione o impronta personale”, e dicendolo pensava alla sua. Teorizzarlo lo autorizzava a suonare con più autonomia, sui tasti di una Olivetti, come avrebbe preferito fare da musicista su un piano. Da due pericoli metteva in guardia: il ”manifesto” non deve essere ”nè una salsiccia di articolesse né un tritato di informazioni”. L’imperativo: ”Non ci serve assomigliare di più agli altri, bensì il contrario”. Qualcuno oggi faticherà e credere che un giornalista di partito, e del Pci degli anni 50, sia potuto essere uno spirito libero, non votato all’obbedienza. Ma la varietà antropologica dei comunisti italiani ha prodotto anche questo. Che poi Pintor si sia battuto contro una propensione della sinistra a pigri compromessi non significa che non sia stato, in parte, conservatore. Non gli piacque quando il Pci cambiò nome. Il suo però era un conservatorismo laico, sottile. A Silvano Miniati, che già nel 1974 non voleva chiamare ”Pdup per il comunismo” il Pdup, aveva obiettato: ”L’idea di esser frainteso nel senso che comunista significhi brezneviano, mi terrorizza. Ma ci terrorizza molto di più lasciare a Breznev la bandiera del comunismo”. Fu ”Non moriremo democristiani” un suo titolo celebre. Risale al 28 giugno 1983, dopo un tonfo elettorale della Dc di De Mita. Pintor riteneva che per ottenere governi senza scudo crociato non bisognasse aver paura di Craxi. In seguito, a Craxi addebitò di non aver puntato a un vero ricambio del potere. Nell’ultimo editoriale, il 24 aprile 2003, ha riconosciuto una delusione per sé ben peggiore: ”La sinistra italiana che conosciamo è morta”, corrosa dalla voglia di governare comunque. Secondo quel testamento destra e sinistra sono formule ”svanite”, meglio un’internazionale dei movimenti e ”estraneità” rispetto all’avversario. Sembrò ”una terribile ingiustizia”, al ragazzo Luigi, l’assenza di musica al funerale del padre, amante di opera e sinfonie» (Maurizio Caprara, ”Corriere della Sera” 18/5/2003).