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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

PIOVANI

PIOVANI Nicola Roma 26 maggio 1946. Compositore. Vincitore del premio Oscar per La vita è bella. «Collaboratore di Fellini che lo volle per Ginger e Fred, L’intervista, La voce della Luna, dei fratelli Taviani dai tempi della Notte di San Lorenzo, non riesce a ricordare ”un giorno della vita senza musica”. Terzo figlio, ”un po’ viziato”, di una casalinga e di un padre che, dopo aver suonato nella banda del paese, aveva preso tutt’altra strada professionale, racconta di aver tenuto il suo primo concerto, di fisarmonica, a 5 anni e mezzo, e di aver iniziato subito dopo le lezioni di pianoforte dalle suore: ”Gli artisti in genere sono molto narcisisti, io mi sono dato la dritta morale di essere tollerante con gli altri ed esigente con me stesso, non so se mi riesce, ma ci provo”» (Fulvia Caprara, ”La Stampa” 18/3/2001). «Gli è toccato in sorte un dono naturale, come al bambino un po’ folle inventato in Le voci del mondo dallo scrittore austriaco Robert Schneider. Anche lui sente la musica segreta del mondo, i suoi ritmi impalpabili, il respiro nascosto. E al pari di quel bizzarro personaggio, essere squisitamente musicale, al principio della sua biografia c’è un grande organo ecclesiale, su cui sapientemente emulsionare la chimica dei sentimenti. Prima di diventare il maestro da Oscar, compositore per Benigni, Bellocchio, Fellini, i fratelli Taviani, Nanni Moretti, oltre che celebrato autore di opere conosciute in tutto il mondo, faceva l’organista da matrimonio. Schubert e Mendelssohn. Ma anche improvvisazioni originali, con il parroco atteggiato a Zubin Metha per segnalare i passaggi liturgici più delicati. ”è in chiesa che ho imparato la musica funzionale. In fondo non era molto diverso dal cinema: anche allora dovevo alternare alla melodia commossa dei momenti più intensi il chiasso della gioia e della esaltazione”. […] ”Poi passavo in sacrestia a ritirare le cinquemila: mi servivano per comprare dischi e partiture. E per studiare”. Primi anni Sessanta, quartiere Prati. Piccola e media borghesia romana, in un paese cattolico ancora legato a rituali di vita contadina. La Chiesa del Rosario palcoscenico dei grandi eventi quotidiani. ”Io ero nato subito dopo la guerra, nel 1946, al Trionfale. Mio padre Alberico era un piccolo commerciante che viveva di espedienti: non ci faceva mancare niente - come si usava dire - ma di lusso non c’era traccia. Aveva passione per la musica: suonava la cornetta nella banda di Corchiano, un paesino del viterbese vicino a Civita Castellana. Ed era anche dilettante autodidatta di mandolino. Un giorno comparve a casa nostra uno strano tipo con la fisarmonica. Arrivava con il suo Guzzetto, e dava lezione ai miei due fratelli maggiori. Io ero il più piccolo, un po’ viziato. A tre anni puntai i piedi: ottenni la mia fisarmonichetta. Quel capriccio segnò probabilmente il mio destino. I miei fratelli presto si stancarono, io continuai”. Il resto lo fece nonno Nino, baritono in gioventù con il pallino per l’opera. ”A cinque anni mi regalò il pianoforte, dandomi i soldi per le lezioni private. Così avrei potuto sostenere, da privatista, gli esami al Conservatorio”. Famiglia a vocazione artistica, quella dei Piovani: un clan che sembra uscito da una commedia di Eduardo. Una parte importante, in questa storia, l’ebbe anche zia Pina, sorella di Alberico. ”Recitava nel varietà, monologo melodrammatico: Pina Piovani, un nome abbastanza conosciuto al cinema. Era stata la moglie di Totò in Guardie e ladri e la mamma della Lollobrigida ne La Romana. Papà mi portava a vederla al Teatro Castello, un palcoscenico divenuto più tardi anche cinema a luci rosse. Stavo seduto sopra la buca dell’orchestra, travolto dal chiasso delle percussioni”. Tra grancassa e marcette pulsava la colonna sonora dell’infanzia. L’estate si passava a Corchiano, passioni e passatempi scanditi dalla banda del paese. ”La musica era socialità, incontro, impulso vitale. Una suggestione intensa che non mi ha mai lasciato. Ne avrei parlato a lungo con Fellini: l’impronta che la musica bandistica incide sulle nostre emozioni. Ancora adesso, quando scrivo un pezzo per banda ritrovo l’allegria di me bambino”. Lui, piccolissimo, andava a suonare la fisarmonica nel negozio di barberia, ”un bugigattolo con la sputacchiera all’angolo e un grande cartello sulla porta: In questo locale non si bestemmia”. Repertorio, Buongiorno Tristezza e Musica proibita. ”Venivano ad ascoltarmi i contadini cronicamente abbronzati: stavano lì, a canticchiare, mentre uno si faceva fare la barba. C’era anche chi mi chiedeva la serenata per l’amata. Una voce e un clarinetto nella notte, la magia era assicurata”. L’Italia era ancora un paese afasico, con pochi dischi e pochissima Tv. ”Il suono conservava un tratto prezioso, la sonorità era qualcosa di imprevisto in un sottofondo generalmente ovattato. Oggi è diverso, la musica invade ogni luogo, gli ascensori come le toilette: lo stupore è semmai provocato dalla quiete inattesa. Negli anni Cinquanta, una nota, una melodia e un ritmo che irrompevano nel silenzio notturno lasciavano dietro di loro una scia d’incanto. La stessa che oggi rivivo in teatro, a luci spente. Una preziosità annunciata dal gesto impagabile di quegli spettatori che emettono piccoli colpi di tosse, un attimo prima dello spettacolo, nel timore poi di sovrapporsi alla musica. E’ anche per questo che mi piace fare teatro, forse ancor più che lavorare al cinema. Forse perché il teatro è la mia infanzia, il cinema acquisizione più tarda della maturità”. Dopo le serenate sotto i balconi di Corchiano, al principio dei Sessanta, arrivò la creativa corvè del piano bar e del cabaret. ”Lavoravo al Cab 37, in via della Vite, al fianco di Fiorenzo Fiorentini, Lino Banfi e Carlo Molfese. Un’esperienza che ricordo con simpatia: da loro imparai l’uso della musica in Petrolini, maestro della comunicazione teatrale. Se ripenso a quella stagione, nonostante studiassi già composizione e ascoltassi Prokof’ ev e Beethoveen sulla radiolina a valvole - allora esisteva già Radiotre, che io seguivo compulsando il Radiocorriere - non sento il sapore della frustrazione. Come se non avessi altre ambizioni, se non il piacere di fare musica, sia in forma di marcia nuziale o canzonetta da varietà”. Intanto curava gli arrangiamenti per le case discografiche. Finché un disco da lui lavorato capitò tra le mani di Fabrizio De André. Era il 1970 e s’accese una fiammella, la prima d’una serie. La svolta arrivò con il maestro greco Manos Hadjidakis, che gli insegnò ”tecnica e stile, ma soprattutto come quello che scrivi sul pentagramma si lega a tutto al resto”. Non la musica composta al chiuso d’una stanza, ”in modo manieristico ed estetizzante”, ma uno spartito aperto sul mondo, ”nel quale riversare amori pubblici e sentimenti privati”. La passione civile come ”intensa emozione vitale” che esploderà nell’esecuzione della Pietà in una Betlemme ferita. O nel concerto tenuto a Johannesburg pochi mesi dopo la fine dell’apartheid, neri e bianchi mescolati in orchestra. O nelle note della Notte di San Lorenzo, suonate al pianoforte davanti a tre milioni a Roma dallo sciopero della Cgil. ”Quando mi trovo davanti a una partitura bianca, penso sempre che la musica bella è stata già scritta. Cerco allora di misurarmi con la contemporaneità, tentando di farla rivivere nella composizione”. La sua poetica è consapevole tessitura di ”alto” e ”basso”, musica colta e repertorio popolare, Mozart e Zecchino d’Oro, ”in sintonia con la babelicità dell’universo”. Una libertà fantastica che oggi appare cifra naturale, mentre per l’ex bambino di Corchiano che si esibiva con la fisarmonica in barberia non deve essere stato approdo facile. ”Fu Elsa Morante, conosciuta grazie a Carlo Cecchi, a liberarmi dal complesso della musica colta. Fu lei, con la sua autorità, a farmi capire che scrivere un valzer per fisarmonica ha la stessa dignità che fare musica da camera. Un altro incontro fondamentale è stato con Fellini, maestro nel trasmettere la libertà giocosa del comporre. Pochi come lui sono capaci di liberarti una sorta di leggerezza d’animo, tirandoti fuori il meglio”. Ne ricorda anche la puntigliosità un po’ folle, surreale. ”Un pomeriggio passammo alcune ore intorno a una questione che a ripensarci oggi sembra pazzesca. Nell’Intervista una scena finiva con una trivialità: Vattela a pia’ n’ der culo. A risentirla Fellini ebbe qualche perplessità, e mi fece allungare la musica sopra l’insulto. Riascoltammo: era troppo, la musica nascondeva completamente la parolaccia, alterando il senso della scena. Ci riprovammo, la musica sospesa tra cu e lo. E poi ancora, un po’ più in qua, un po’ più in là. Passarono le ore. Esausto, alla fine mi guardò: ”Ma se ora arrivasse l’ambulanza Neurodeliri’ e ci caricassero, non avrebbero tutti i torti, no?’”. La corda pazza conduce a Benigni, con cui Piovani insieme a Cerami fa ormai ditta fissa. ”Una comunicazione che non è solo verbale, ma intensamente emotiva, quasi esoterica, direi corporale. Roberto è un comico e al pari di tutti i grandi comici ha come primo obiettivo la comunicazione. Un attore tragico può anche accettare di essere incompreso. Un comico no, è disposto al triplo salto mortale per farti arrivare quello che ha dentro. Così Benigni ha un modo tutto suo per farti entrare nell’emozione d’un film: e diventi suo complice nel trasmetterla al pubblico”. […] E pensare che, prima dell’ Oscar, per molti americani era soltanto un nome de plume. Nicola Piovani, pseudonimo di Ennio Morricone: sta scritto in tutte le enciclopedie Usa. L’equivoco era nato da un’intervista dell’amico Morricone a un giornale arabo. L’’Oscar fu una straordinaria occasione per chiarire la cosa. Nel backstage, dopo la premiazione, il maestro si presentò ai giornalisti americani. Era la prima volta che uno pseudonimo vinceva la preziosa statuetta: i quotidiani, il giorno dopo, ne fecero un caso» (Simonetta Fiori, ”la Repubblica” 22/8/2002).