varie, 6 marzo 2002
PISAPIA Giuliano
PISAPIA Giuliano Milano 20 maggio 1949. Avvocato. Politico. Sindaco di Milano (dal 2011, ballottaggio del 29-30 maggio). Nel 1996 fu eletto deputato come indipendente nelle liste di Rifondazione comunista, rieletto nel 2001. Consulente giuridico di varie associazioni di volontariato, ex vicepresidente della Camera penale di Milano, tra i fondatori della Lega italiana per la lotta all’Aids (Lila), contribuì alla stesura del quesito referendario che portò all’abolizione delle norme che punivano penalmente la detenzione di sostanze stupefacenti per uso personale. Fu presidente della commissione Giustizia della Camera • «Garantista lo è stato sempre. Basta pensare che, nonostante la militanza a sinistra, in passato anche estrema, fu il primo avvocato a sfidare il pool di Mani Pulite annunciando, nell’ormai lontano luglio del 1993, un ricorso al Consiglio superiore della magistratura contro la procura dove lavorava Antonio Di Pietro. [...]» (Roberto Zuccolini, “Corriere della Sera” 1/12/2005) • «Eravamo una grande tribù di sette fratelli, 5 maschi e 2 femmine e, tutti, contestavamo la nostra famiglia. Ci aveva formato il mondo cattolico: avevo fatto lo scout, avevo avuto come insegnante, al Berchet, don Giussani e l’aria del tempo mi aveva buttato dentro il movimento studentesco. Mai avrei voluto seguire le orme di papà, famoso penalista, perché non capivo l’utilità sociale e politica della professione di avvocato. Così, mi iscrissi a medicina e passai tutti gli esami dei primi due anni: salvare una vita mi sembrava l’impegno più nobile. La sera, facevo il barelliere alla Croce Rossa [...] Decisi di non chiedere il rinvio per il servizio militare. Desideravo l’autonomia e fare il soldato mi sembrava il modo per ottenerla senza arrivare a una rottura traumatica con la mia famiglia. Feci un patto con papà, il mio primo patto con lui: almeno avrei chiesto di fare l’ufficiale. La mia domanda fu respinta perchè penso sapessero quali fossero le mie idee politiche e, così, fui spedito tra gli assaltatori, commilitoni che, in gran parte, avevano la licenza elementare ed erano, quasi tutti, figli di contadini del Sud. Imparai a vivere con le 350 lire della diaria giornaliera e a mangiare fuori, in pizzeria, solo la sera del sabato [...] Tornato alla vita civile, decisi di smettere di studiare e di incominciare a lavorare, proseguendo l’impegno politico di base. Feci l’operaio in una fabbrica chimica, poi l’educatore al carcere minorile, dove mi presi l’ulcera, e l’impiegato di banca. Le lotte operaie e studentesche mi portarono a Torino e mi iscrissi a Scienze politiche con indirizzo sociologico, una facoltà che mi sembrava vicina ai miei veri interessi. Facevo di buona lena gli esami, anche perché, per ognuno, c’erano cinque giorni di permesso dal lavoro [...] Un giorno, incontro il diritto penale e arriva il colpo di fulmine. Vedo l’attualità della materia, capisco il ruolo della difesa per il sostegno di determinati valori e di alcune persone, avverto l’importanza sociale di quella professione. Con papà, nella nostra casa di vacanza a Santa Margherita, pur nella permanente diversità di opinioni politiche, discuto sulla materia e così riprende un forte dialogo tra noi. Mi laureo anche in legge, ma, non ancora del tutto convinto, evito di seguire il suo indirizzo e faccio pratica da un civilista [...] Nessuno, tra i miei fratelli, aveva voluto fare l’avvocato. Mio padre, una sera, chiude la porta della mia stanza e mi convince che è stupido fare il civilista solo per rimarcare la mia autonomia da lui. Stringiamo un secondo patto, stavolta con esito migliore del primo: sarei andato a lavorare con lui, con l’impegno di non compromettere, con le mie scelte politiche estremiste, la reputazione dello studio. In cambio, papà avrebbe rispettato il mio impegno sociale [...] Il mio primo incarico è quello di difensore d’ufficio alla pretura di Rho, dove incontro un magistrato straordinario, che applicava la giustizia con grande umanità. Seguo i grandi processi del tempo, ma, agli inizi degli anni Novanta, muore papà. Mi offrono una candidatura alle Regionali, ma, di colpo, sento la responsabilità di sostenere lo studio in un momento difficile e di dimostrare di saperlo fare. Poi, nel 1996, mi chiedono di entrare alla Camera come indipendente nelle liste di Rifondazione. Adesso posso accettare. Vengo eletto e mi nominano presidente della commissione Giustizia [...] Il lavoro alla Camera mi dà molte soddisfazioni, ma, dopo due legislature, decido di non candidarmi più. Forse, se non avessi mollato, avrei potuto fare anche il ministro, ma la politica non deve diventare una professione e, poi, si può fare anche fuori dal Parlamento. [...]» (Luigi La Spina, “La Stampa” 17/8/2007).