Varie, 6 marzo 2002
PLACANICA
PLACANICA Mario Catanzaro 13 agosto 1980. L’ex carabiniere accusato e poi prosciolto per la morte di Carlo Giuliani durante il G8 di Genova (20 luglio 2001) • «Sì, ho sparato. Ho cercato di difendere me stesso e i miei compagni. Ma non ho sparato per uccidere, dalla posizione in cui mi trovavo potevo solo sparare verso l’alto [...]Il sangue mi colava sugli occhi (mi fa orrore il sangue) per una ferita alla testa ed ero annebbiato dai fumogeni. Sul defender era come stare in un’ambulanza. Ero ferito, ero frastornato, un altro collega si lamentava. Ho cercato di difendermi in tutti modi, con le mani, con i piedi. Non capivo più niente, mi sentivo in trappola. Lì c’era un inferno. Io sono giovane, come lo era Carlo Giuliani. E non avrei mai voluto che accadesse quel che è accaduto. Ma il destino ha fatto andare le cose diversamente. [...] Sono un ragazzo del Sud che ha voluto fare il carabiniere, appartengo a una famiglia di lavoratori che hanno sempre lavorato per un mondo più giusto. Non sono un assassino. Assassino è chi spara per ammazzare. Io ho sparato per sopravvivere. Anche se adesso mi porto appresso, e forse me lo porterò a vita, il peso di quella tragedia» (Pantaleone Sergi, ”la Repubblica” 3/12/2002). «Sta male, e si vede. [...] Dice di sentirsi ”perseguitato, molto perseguitato, da un’angoscia, da pensieri sempre rivolti a quella giornata”. Poi, parla di quei minuti in piazza Alimonda, ed ecco quel che dice: ”Un anno dopo non mi rendo conto se sono stato io, perché ho sparato in aria, non ho sparato contro persone. Davanti a me non c’era nessuno, non c’era Carlo Giuliani. Spero che si farà luce su questa questione”. [...] Sostiene di aver sparato in aria, e di non aver visto Giuliani davanti a sé, mentre nei due interrogatori davanti al pm Silvio Franz, in maniera confusa, affermò di essersi accorto della sagoma del ragazzo di Genova. [...] Sta male. [...] Ha lasciato la caserma nella quale stava sottoponendosi alla ferma volontaria, interrompendo il corso di preparazione. E’ tornato a casa, dove ha trovato suo padre Pino, e una famiglia in difficoltà. Il papà un giorno prima di piazza Alimonda si fratturò tibia e perone in un incidente sul lavoro, e da allora non si è più ripreso. A suo figlio, è successo di trovarsi in mezzo a quei giorni di rabbia, e in una inchiesta sottoposta a scossoni continui. Adesso sembra aver deciso di lasciare l’Arma. Per lui, una sola buona notizia: a breve gli arriverà il denaro proveniente da una sottoscrizione promossa tra i lettori del quotidiano ”Libero”. Qualcosa come quattrocentomila euro, circa 768 milioni di vecchie lire. Adesso, i dubbi di un ragazzo in difficoltà psicologica (’Non mi rendo conto se sono stato io”) gettano nuova benzina sul fuoco delle polemiche. Alimentano nuove teorie che sembrano smentite dalle conclusioni che i periti del pm Franz si stanno apprestando a consegnare. A sparare fu lui, su questo la Procura non ha dubbi» (Marco Imarisio, ”Corriere della Sera” 20/7/2002). «Vorrei incontrare il padre di quel ragazzo per dirgli che non sono un assassino. Posso guardarlo negli occhi, posso parlargli. Ho sparato due volte, è vero, ma sicuramente non volevo uccidere, non ho sparato per ammazzare. Se il signor Giuliani accetterà di vedermi capirà che sono un ragazzo per bene, catapultato in un incubo che non sembra avere fine. Ero frastornato e non vorrei che qualcuno oltre a me abbia sparato. Vorrei dirgli che non mi sento colpevole, che in una situazione di quel tipo poteva accadere di tutto, che come a suo figlio una sorte tragica poteva toccare anche a me [...] L’incontro con il signor Giuliani mi darebbe la forza per andare avanti. Vorrei che comprendesse quel che mi sta accadendo, come io comprendo il dolore di un padre. Sono angosciato per la morte di un ragazzo come me. Io entro in crisi quando sento dire che sono l’assassino di quel ragazzo [...] Mi dispiace che alcuni mi considerino una camicia bruna. Non sono un nazista, a me fa orrore il sangue. Vengo da una famiglia di onesti lavoratori democratici, mio padre è iscritto alla Cgil. La famiglia mi ha insegnato ad avere rispetto per tutti. Sono vittima di una accusa grave e ingiusta. Voglio tornare a vivere, cerco serenità, comprensione da parte di tutti, anche dal signor Giuliani [...] Genova quel luglio di un anno fa era calda in tutti i sensi. Il mio reparto era arrivato in città tre giorni prima. Tutti ragazzi, tutti in tensione palpabile. Ci alloggiarono in Fiera, uscivamo solo per servizio. Quel giorno siamo andati a letto tardi, dopo l’una, ci siamo svegliati alle sei e mezza già stanchi e ci siamo messi a scherzare tra di noi per alleggerire la tensione. Ci hanno dato l’attrezzatura, scudi, tanfe, lacrimogeni. Ne ho sparati quattro in aria prima che mi prendessero il fucile perché non sapevo sparare. Era il mio primo servizio vero. Avevo fatto ordine pubblico in Sicilia, allo stadio. Ero al Celeste di Messina, vicino a quel ragazzo colpito da un petardo e morto [...] Il reparto rimase tre ore davanti alla Fiera. Qualcuno perquisiva i manifestanti in arrivo, altri stavano a guardare nervosi. I primi scontri li abbiamo avuti davanti al palco nel campo dei no-global. Lanciavano molotov, pietre - una mi ha colpito a uno stinco - oggetti metallici. Non li abbiamo attaccati, ci siamo solo difesi. E non nego che in tanti avevamo paura. Poi, dopo le 14 e con due panini nello stomaco, ci siamo trovati nel posto in cui è stato bruciato il blindato dei carabinieri. Siamo arrivati a piedi e siamo entrati subito in azione [...] C’era da impazzire. Mi sono sentito male per i gas lacrimogeni. Vomitavo, e come ho visto il Defender sono salito a bordo per chiedere al carabiniere Filippo Cavataio, che ho trovato lì, qualche rimedio per gli occhi. Tutto attorno, da quello che potevo vedere, c’era il caos e i miei colleghi tornavano indietro. Sul Defender salì anche un altro carabiniere, Dario Raffone, s’era sentito male anche lui [...] Da qui in poi i miei ricordi diventano sfuocati, tanto gli eventi sono stati convulsi. Ho preso una botta in testa da quella trave infilata nel Defender. Perdevo sangue, la mia faccia, le mie mani, la divisa, la pistola erano insanguinate. Pure Cavataio era imbrattato di sangue. Ho pensato: ”Oggi mi cupano”, oggi mi fanno fuori. Ho preso allora la pistola. Ho sparato. Nella posizione in cui mi trovavo, semidisteso nell’auto, potevo sparare solo verso l’alto. La mia mano con la pistola era al di dentro dell’auto, ne sono certo, e non fuori come appare in qualche strana immagine. Ho sparato due colpi in successione, uno sembra sia finito sul muro della chiesa, l’altro - dicono - avrebbe ucciso Carlo Giuliani. Ero sotto choc. Stai tranquillo, mi dicevano alcuni colleghi, che andiamo in ospedale. Mi hanno detto che abbiamo incontrato Agnoletto sulla strada per l’ospedale San Martino. Gli hanno chiesto se ci faceva passare. Pure Raffone perdeva sangue. Ma Agnoletto ce lo avrebbe impedito, costringendoci a un giro più lungo» (Pantaleone Sergi, ”la Repubblica” 23/8/2002).