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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

PLACIDO

PLACIDO Beniamino Rionero in Vulture (Potenza) 1 febbraio 1929, Cambridge (Gran Bretagna) 6 gennaio 2010. Giornalista • «Cuore azionista, esordi pannunziani al ”Mondo”: è un antico frequentatore di Montecitorio dove – incredibile dictu – iniziò a lavorare al servizio informatico. Intellocrate di lungo corso, si diletta di critica televisiva: ha diretto il Salone del libro di Torino, ha duettato in video con Montanelli su Raitre, allevato un paio di generazioni nella sua università prandiale del ristorante ”Piperno”, nel cuore del ghetto di Roma» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 31/10/1998) • Dalla ”Repubblica” del primo febbraio 2006. Eugenio Scalfari: «La critica televisiva era stata confinata nei quartieri di servizio. Come non bastasse, era faticosissima: molti canali da seguire, una programmazione di almeno diciotto ore al giorno, la necessità quindi di compiere una severissima selezione preventiva che comunque costringeva il malcapitato a restare per molto della giornata inchiodato davanti al teleschermo, passando dai telegiornali alle ”fiction”, dalle trasmissioni di sport a quelle scientifiche, dai film ai dibattiti e agli spettacoli con dentro il varietà, il rebus, il concorso a premi, le ”soubrette” e tante altre cose ancora tra lo spiritoso e l’insulso. Insomma una fatica da ammazzare un bue, che richiedeva, per essere compiuta a dovere, un occhio clinico speciale, una totale dedizione e una dose supplementare di capacità critica. [...] Beniamino resistette alle nostre proposte. Toccammo, sia pure con molta discrezione perché il giornale non disponeva di grandi mezzi, la lusinga d’un buon compenso, ma lui continuò a rifiutare. Stava così bene al settore culturale, ci disse. Rosellina Balbi, che ne aveva la responsabilità, lo coccolava. Sceglieva lui i temi dei quali occuparsi di volta in volta, un libro, un’inchiesta, un personaggio da intervistare o da ritrarre. Il lavoro era comodo e gratificante. Stimolante ma riposante. Non quella galera della critica televisiva. Ma alla fine accettò. Si fece sedurre»; Ezio Mauro: «Una volta io non conoscevo Beniamino, conoscevo il suo modo di scrivere. Forse il nome, forse la scrittura: mi dava l’idea di un folletto culturale, capace di muovere le parole in allegria, legarle con dei nastri suoi, alzare il tutto quasi per gioco come in un cartone e poi farlo precipitare in una direzione che non ti aspetti, veloce come l’imprevedibilità, mentre il resto scivola sovente sulla pista usurata dei luoghi comuni. Anche per questa ragione troppo spesso trascurata nel giornalismo - la scrittura, sì, la scrittura - credo di essermi perso pochissimi articoli suoi. Leggevo per il piacere di leggere, intanto, perché la bella scrittura e la buona lettura vanno sempre insieme. E poi cercavo di capire l’impianto giornalistico del pezzo, com’era assemblato, con quali strumenti, con quale progetto in testa. Ecco qui: impianto, assemblaggio, strumento e progetto. Perché un articolo di Beniamino, l’ho capito allora, non è mai soltanto un articolo, ma è una costruzione»; Giuseppe Carbone: «Avevamo partecipato allo stesso concorso per dieci posti di segretario in prova, il terzo concorso pubblico del nuovo Parlamento Repubblicano: cinquecento e più concorrenti. Beniamino era risultato secondo. Eravamo alla metà degli anni Cinquanta. Aveva partecipato pure ed era entrato con noi Gianni Ferrara. Non ci conoscevamo, ci siamo conosciuti poi come giovani funzionari parlamentari e siamo diventati come i tre moschettieri, tutti per uno e uno per tutti, ancorché molto diversi. Una cosa vistosamente ci accomunava: vistosamente non eravamo democristiani»; Irene Bignardi: « stato il primo lucano della mia vita. E l’ho subito adorato. Come si poteva sfuggire al fascino di questo Woody Allen nostrano che parlava italiano con un bizzarro (per me milanese) accento del Sud e tutte le lingue con inappuntabile sapienza, che conosceva tutto e tutti e aveva letto tutti i libri, che sapeva scrivere pezzi memorabili per cultura e per eloquenza popolare (il cui stile cercavo di emulare) ma anche fare televisione (quando la televisione era intelligente, e i suoi direttori anche), e che mi aveva investito della sua benevolenza, adottando la ragazza venuta dal Nord e piombata, sconosciuta a tutti, nella redazione cultura di ”la Repubblica”?»; Massimo Cacciari: «Sono sempre stato un pessimo lettore di giornali, ma in tutti questi anni tra i pochissimi articoli che leggevo vi erano sempre quelli di Beniamino. Avevano queste sue stesse doti: ”toccare” un argomento senza velleità ”disvelative”, eppure riuscendo proprio a ”toccarlo”! Con lo stesso ”tatto” Beniamino si avvicinava all’amico, senza ”opprimerlo”, soprattutto senza mai giudicare. Erano sempre ”breviloqui” quelli di Beniamino, sia parlati che scritti, ”modesti”, nel senso del saper cogliere l’ora, l’istante in cui un’opera, una figura, un avvenimento, si offrono alla nostra attenzione e ci colpiscono»; Maurizio Bettini: «Fra le molte cose che ho imparato da Beniamino Placido, c’è anche questa frase di Mark Twain: ”i classici sono quei libri che tutti vorrebbero aver letto, ma che nessuno ha voglia di leggere”. Parole talmente pungenti da far male. E siccome Caterina Caselli sosteneva che, a far male, è per l’appunto la ”verità”, viene il sospetto che siano anche parole vere»; Alberto Arbasino: «Beniamino Placido scrisse una volta che la televisione è come una finestra, da cui le vecchie zie guardavano ”cosa accade, e chi passa”. E fu lui a inventare anche la meritoria definizione della ”casalinga di Voghera”»; Aldo Grasso: «Agli studenti che aspirano a fare una tesi di laurea sulle cronache televisive di Achille Campanile si fa loro studiare, preventivamente, Gli asparagi e l’immortalità dell’anima o il Manuale di conversazione (e solo se dimostrano una certa consonanza di spirito si procede nel lavoro); così quei volenterosi (ce ne sono, ce ne sono già molti) che vogliono cimentarsi con le critiche di Placido devono prima confrontarsi con La televisione col cagnolino». Ha scritto Eugenio Scalfari: «Quando ho conosciuto Beniamino, anzi per me sempre Mimmino, egli era il lord protettore, la guida spirituale, il tramite con il mondo di una comunità di singolari studenti universitari lucani addensati tra Piazza Bologna e Piazzale delle Province. Ci avviavamo verso la metà degli anni Cinquanta, e chi arrivava a Roma, e tra questi c’ero anch’io, conosceva variegati riti d’iniziazione, ovviamente legati ad un passaggio dalla provincia alla grande città che allora era davvero l’immersione in una dimensione del tutto diversa, poiché lo scarto tra quelle due realtà non era mediato e ridotto da un sistema dei mezzi d´informazione che consentiva di trasmettere e rendere subito comuni conoscenze e esperienze. Si entrava in un altro mondo e, per chi avesse questa propensione, si sviluppavano mille curiosità. Mimmino mi apparve subito come chi delle curiosità si era impadronito, e ne aveva sviluppato un singolare metodo di governo. Se il tramite per arrivare a lui erano stati i ”lucani”, subito mi apparve saldamente insediato in quell’altro mondo, che percorreva con levità, ma senza compiacenze o concessioni. Se ci fu qualcosa che me lo fece subito sentire vicino, questo fu proprio il bisogno di gettare l’occhio su tutto, o quasi, senza esclusioni intellettualistiche o snobistiche. E dunque avanspettacolo e grande critica letteraria, calcio e università, generi nascenti ed esperienze in via d’estinzione, attenzione politica e rigoroso pettegolezzo. Discutendo o chiacchierando con lui, si avvertiva che egli non proponeva gerarchie, ma criteri rigorosi di giudizio. Se di tutto era legittimo interessarsi, questo non autorizzava l’ingagglioffirsi, né il legittimo pettegolezzo permetteva di guardare alla storia o alla politica con l’occhio del cameriere. E così, senza farli pesare, cadevano il riferimento o la citazione per mettere nel posto giusto lo spettacolo di rivista, il romanzo appena uscito, un dibattito parlamentare. Non mi sembrò strano, quindi, che egli diventasse acclamato e temuto critico non solo della sua amatissima letteratura americana, ma di quello che davvero gli appariva il ”nuovo mondo” dei tempi nostri, la televisione. Ha inventato un genere dopo aver messo le mani sul nuovo mezzo, in quell’allegra e rigorosissima mescolanza che sono state le sue ”serate”. Veloce com’è sempre stato nel cogliere la sostanza delle questioni, non ha mai trascurato i dettagli, ma mai ne è rimasto prigioniero. Ne ebbi una prova diretta quando, all’epoca in cui preparava il concorso per la Camera dei deputati, venne un paio di volte a casa mia con l’argomento che voleva un po’ saggiare la sua preparazione nelle materie giuridiche. Fu subito evidente che delle tecnicalità si era immediatamente impadronito, e davvero non gli serviva alcun sostegno esterno. E così le nostre chiacchierate divenivano un interrogarsi su quale fosse davvero il ruolo del diritto costituzionale, quale la funzione del Parlamento e il modo in cui tutto questo dava forma alla politica, e più ancora alla cultura che doveva sostenerla. Il mio tempo parlamentare non ha coinciso con il suo. Quando divenni deputato, Mimmino aveva già lasciato la Camera. Ma la nostra costante frequentazione, intensa in particolare agli inizi degli anni Sessanta, si è svolta anche nei luoghi parlamentari, allora assai più accessibili di adesso, dove arrivavo come frequentatore della biblioteca o curioso di politica o semplicemente come amico, scoprendo così non solo affinità tra le mie prime ricerche sui computers e le sue pionieristiche iniziative per l´informatizzazione dei servizi della Camera, ma pure l’attenzione e il rispetto che per la sua cultura avevano tanti parlamentari (un fatto che oggi mi sembra irripetibile). Anche lì, si potrebbe dire con espressione abusata, Mimmino era riuscito a divenire ”punto di riferimento”, scavalcando e rendendo ridicole gerarchie e burocrazie. Ma nella mia vita parlamentare Mimmino ha un posto particolare, legato ad un episodio assolutamente unico. Una mattina presto suonano alla porta di casa, ed un fattorino mi consegna un bellissimo fascio di rose rosse. Apro il biglietto che l’accompagnava, con un lieve senso di colpa perché ritenevo di violare la riservatezza di mia moglie, e invece leggo d’essere io il destinatario del dono, che Mimmino aveva voluto mandarmi avendo letto su il manifesto il testo di un mio discorso alla Camera del giorno prima. Infrangendo una regola rigidissima soprattutto tra meridionali – non ci si scambiano fiori tra uomini, meno che mai rose rosse – Mimmino mi arrivava davvero al cuore. Ed ho sempre voluto pensare che con quel gesto atipico volesse sottolineare la singolarità della mia posizione parlamentare, una sorta di irriducibilità agli schemi abituali. La sua costante attitudine scherzosa non è mai sottovalutazione. Al contrario. il modo per mostrare, con grazia, senza pedanteria, che non ci si deve prendere troppo sul serio. Le cose possono essere serie e gravi, e come tali vanno trattate, senza però che questo consenta a chi le tratta di mettersi pennacchi o salire a cavallo. Tanto più grandi sono le cose, tanto maggiore dev’essere l’umiltà nell’affrontarle. Forse mai come con lui l’ironia mi è apparsa così nitidamente come la misura delle cose» (Eugenio Scalfari, ”la Repubblica” 1/2/2006).