Varie, 6 marzo 2002
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Platini Michel
• Jouef (Francia) 21 giugno 1955. Presidente dell’Uefa. Ex calciatore. Pallone d’Oro 1983, 1984, 1985. Con la Francia vinse gli Europei del 1984 e fu due volte semifinalista ai Mondiali (1982, 1986, sempre sconfitto dalla Germania), con la Juventus vinse la Coppa Campioni e l’Intercontinentale del 1985, la Coppa delle Coppe del 1984, gli scudetti del 1984 e 1986, la Coppa Italia del 1983. Capocannoniere del campionato di serie A nel 1983, 1984, 1985 • «Mezz’ala d’attacco, nel suo caso, è un termine fortemente riduttivo. Nonno piemontese di Agrate Conturbia, provincia di Novara, Michel è stato regista, centravanti, uomo-squadra: in una parola, tutto. Gioca nel Saint-Etienne quando, nel 1982, la Juve lo preleva pagando una cifra irrisoria: 148 milioni di lire. stato l’avvocato Agnelli a imporlo. Prima stagione aperta a due stranieri per squadra, con Platini, preferito a Brady, c’è Boniek. Il francese e il polacco troveranno un’intesa strepitosa. Una fastidiosa pubalgia ne frena il decollo, dopodiché solo caviale e champagne. Le Roi diventa il simbolo di una delle Juve più belle. Sei campionati, 157 presenze e 68 gol. [...]» (’La Stampa” 9/2/2004) • «[...] maglia numero 10, è stato il Calcio. Spettacolare nei colpi, ma sempre essenziale; un fantastico regista, con una smodata passione per il gol (353 in 649 partite ufficiali). Come la sua straordinaria carriera, scandita da giornate che sono già storia. A undici anni, Michel, figlio di Aldo, un maestro di calcio, firma il suo primo contratto, con l’As Joeuf; il 2 maggio ”73, quando di anni ne ha quasi 18, esordisce nella prima divisione francese (Nancy-Nimes); dieci giorni dopo, segna la sua prima doppietta (al Lione). Il 27 marzo ”76, gioca la prima partita in nazionale (2-2 contro la Cecoslovacchia, Parco dei Principi, il suo palcoscenico preferito). L’8 febbraio ”78 è il giorno in cui seduce l’Italia: a Napoli, segna due gol su punizione a Zoff. C’è una squadra che parte all’inseguimento di questo talento, che ogni giorno si allena a battere le punizione, mettendo le sagome come barriera: è l’Inter. I viaggi di Sandro Mazzola e Giancarlo Beltrami (uno sotto una bufera di neve) rendono possibile l’operazione, anche se le frontiere sono ancora chiuse. Platini, che vince la Coppa di Francia con il Nancy, approda a casa di Fraizzoli, a Milano, zona Magenta, costretto a stappare due bottiglie di champagne per celebrare l’evento. Il numero uno nerazzurro racconterà nell’84, al momento di abdicare: ”Il presidente della Figc di allora, Artemio Franchi, mi aveva garantito che le frontiere sarebbero state riaperte”. Invece restano chiuse per altri due anni. Il contratto è firmato, ma congelato: Platini, dopo un’ultima stagione al Nancy rovinata da un serio infortunio, viene ceduto al St. Etienne nell’estate ”79. Un anno dopo, in Italia tornano gli stranieri, ma l’Inter, fresca di scudetto, sceglie Prohaska, fra lo stupore di Bersellini. Così Michel vince il campionato con il St. Etienne, la squadra che ha riportato in alto il calcio francese (2 giugno ”81). Il 23 febbraio ”82, la Francia, con un suo gol (e uno di Bravo), batte l’Italia, in amichevole, dopo un’attesa durata 62 anni. la partita che convince l’avvocato Agnelli, che vede lo spettacolo in villa, insieme con Boniperti, a muoversi: l’Inter ha cambiato strategia (prenderà Juary e Hansi Muller), Platini è libero e in scadenza di contratto. Il dottor Giuliano, braccio destro di Boniperti, vola da Varsavia (dove ha soffiato Boniek alla Roma) a Parigi e chiude l’operazione per duecento milioni di lire. Il 30 aprile ”82, ultimo giorno di mercato per i nuovi stranieri, Platini arriva a Torino per la firma del contratto. Boniperti lo abbraccia e lo rimprovera: ”Tagliati i capelli”. Risposta secca: ”Non si preoccupi, non li perdo”. Il blitz deve restare segreto, ma ”Europe 2” fa saltare il piano della Juve e dà l’annuncio. Alle 20, è tutto chiaro, Brady a fine stagione deve fare le valigie, dopo aver vinto due scudetti in due anni. Platini gioca un grande Mondiale (quarto posto con la Francia), chiuso dall’eliminazione ai rigori di Siviglia contro la Germania (8 luglio ”82), mentre la partenza con la Juve non è felicissima. Soffre di pubalgia e fa fatica a capire il gioco bianconero. Osserva Trapattoni, che in panchina ”avvita le lampadine”; scopre che il gioco lo fa Furino. Qualcosa non va, ma a partire da febbraio la musica cambia, anche se la Juve perde scudetto (Roma) e Coppa campioni (Amburgo). La vittoria in Coppa Italia il 23 giugno ”83 (contro il Verona) è anche un trionfo personale. In dicembre, gli frutta la conquista del ”Pallone d’oro”, 25 anni dopo Kopa. Il 29 aprile ”84, vince il primo scudetto (20 gol); il 16 maggio arriva anche la Coppa delle coppe (2-1 al Porto), ma il capolavoro lo firma il 27 giugno: con nove gol, conquista l’Europeo con la Francia (in finale sulla Spagna). una vittoria che lascia il segno anche nel fisico, perché Platini è spremuto come un limone. Il campionato è una sofferenza per la Juve, la Coppa dei campioni finisce con la notte maledetta dell’Heysel. Lui fa gol e alza la coppa, ma è una partita che gli brucia la giovinezza. L’inizio della fine. A ”France Football” ha confessato: ”Dopo l’Heysel, non avevo più voglia di niente; non riuscivo ad andare avanti; ho capito che era cominciato il declino”. Però riesce a vincere l’Intercontinentale (8 dicembre ”85), segnando il gol decisivo su rigore all’Argentinos Juniors (2-2), nel giorno in cui a Tokio l’arbitro Roth gli annulla ”il più bel gol della mia carriera”, per un fuorigioco di Serena. Platini stringe i denti, per un problema al tendine d’Achille e riesce a vincere il secondo scudetto e a giocare un grande Mondiale. Il declino è già cominciato: ”Prendevo medicine a ogni ora del giorno”. La corsa mondiale finisce quando sembra diventata facile, dopo che nel giorno del suo 31° compleanno ha eliminato il Brasile, segnando quello che diventa l’ultimo gol della sua carriera in nazionale. Invece va a sbattere un’altra volta contro la Germania: ”Peccato, perché resto convinto che avrei dovuto vincere quel Mondiale; avevamo la miglior nazionale, ma Giresse e io stavamo male”. Il terzo posto è un traguardo importante, ma non dà la felicità, anche perché Platini sta male, in una Juve diversa, con il gruppo storico che ormai non c’è più (se n’è andato anche Trapattoni), nella quale fatica a riconoscersi. L’addio avviene sotto la pioggia, il 17 maggio ”87 (3-2 al Brescia). L’avvocato Agnelli, che lo aveva paragonato all’argentino Perdenera, saluta commosso ”un artista, mezzo Manolete e mezzo Nureiev. Noi volevamo tenerlo, ma lui non vuole più giocare”. Torino è nel destino di Platini, perché è al ”Comunale”, alla fine di una partita in suo onore, che viene nominato c.t. della Francia (1 novembre ”88). La qualificazione a Italia ”90 è compromessa; quella all’Europeo ”92 diventa una corsa che alimenta legittimi sogni di grandeur : 8 vittorie in otto partite. in Svezia che la Francia viene eliminata a Malmoe dalla Danimarca, lui si dimette. Ma non si nasconde. Il 2 luglio ”92, diventa co-presidente del Comitato organizzatore del Mondiale di Francia, con Ferdinand Sastre. Nasce un’edizione memorabile, chiusa dalla vittoria del Bleus di Zidane sul Brasile di Ronaldo (3-0, 12 luglio ”98). Platini ha fatto carriera: diventa consigliere speciale del nuovo presidente della Fifa, Blatter [...]» (Fabio Monti, ”Corriere della Sera” 21/6/2005). «[...] vita spettacolare, prima in campo con le invenzioni e i gol da grandissimo numero dieci, e poi fuori con l’intelligenza e il gusto della battuta da inimitabile numero uno. Nipote di un muratore di Agrate Conturbia nel Novarese, dove tutti lo chiamano ancora Platìni, all’italiana come il nonno Francesco, mettendo l’accento sulla prima e non sull’ultima ”i”, il piccolo Michel nato a Joeuf, in Lorena, il primo giorno dell’estate del 1955, dimostrin fretta di essere un predestinato. A dieci anni [...]il figlio d’arte di Aldo, ottima mezzala in gioventù, è già soprannominato ”razzo” per la velocità con cui batte i compagni nei dribbling agli alberi. Eppure anche lui ha un problema: il complesso di essere troppo basso che ogni due settimane spera di sconfiggere mettendosi contro il muro della cucina, dove costringe la mamma a misurare i centimetri della sua crescita. Titolare a 17 anni nel Nancy, con cui vince la coppa di Francia nel 1978, Platini non passa inosservato al di là delle Alpi. L’Inter si muove per prima, facendogli addirittura firmare un precontratto (da 250 milioni di lire all’anno) prima del Natale 1978, in attesa della riapertura delle frontiere, concordando con il Nancy persino il prezzo del cartellino: 80 milioni di lire. E Sandro Mazzola, da un anno consigliere delegato della società nerazzurra, un giorno lo porta segretamente prima a fare le visite mediche ad Appiano Gentile e poi, insieme con il direttore sportivo Giancarlo Beltrami, a casa del presidente Ivanoe Fraizzoli, in via Mellerio, dietro sant’Ambrogio. Platini, insieme con la futura moglie, brinda felice (con uno champagne scaduto) alla squadra che però non lo avrà mai. Fraizzoli, infatti, un giorno si stanca di versare anticipi, anche perché qualcuno gli fa credere che ”il francese”, come lo chiama ancora oggi Mazzola, ha le caviglie un po’ troppo fragili. Nel frattempo il primo campione capace di oscurare il mito di Kopa per come inventa palle gol, e quello di Fontaine per come le trasforma, passa al St. Etienne dove vince il primo campionato della sua carriera nel 1981, diventando il nuovo indiscutibile padrone della maglia blu numero10 della Francia. L’Italia (di Enzo Bearzot) lo scopre nell’amichevole dell’8 febbraio 1978 a Napoli, dove segna alla sua maniera la punizione del definitivo 2-2, poi lo batte 2-1 al Mondiale in Argentina. Platini ormai è Platini e quattro anni più tardi, quando le frontiere sono riaperte da due, mentre è già chiuso da tempo quel vecchio vincolo con l’Inter, Gianni Agnelli lo ”regala” alla Juventus per la modica cifra di 880 milioni di lire. ”Lo abbiamo preso per un tozzo di pane – dirà poi l’Avvocato – e lui ci ha messo sopra il caviale”. Il ”caviale” viene spalmato sulle tartine bianconere durante cinque squisite, e indimenticabili, stagioni. Per la verità, l’inizio sembra dare ragione ai vecchi dubbi di Fraizzoli ma dopo sei mesi guastati dalla pubalgia il seguito dà ragione all’intuizione di Mazzola e dei suoi osservatori di fiducia. Platini dà spettacolo sui campi di tutto il mondo, trascinando tra l’altro la Francia al suo primo grande successo: il titolo europeo nel 1984. Ironico quando gli dicono che non può fumare (’è Furino che non può fumare perché è lui che deve correre”), strepitoso quando calcia le punizioni nei primi tre anni italiani vincendo tre volte di fila la classifica dei cannonieri, con 16, 20 e 18 gol, Platini è la stella che illumina il gioco della Juve di Giovanni Trapattoni e Giampiero Boniperti. In cinque intensissime stagioni vince due scudetti, una coppa dei Campioni, una coppa Intercontinentale, una coppa delle Coppe, una supercoppa europea e una coppa Italia. E come non bastasse, provoca tra l’altro la fine del ciclo della Nazionale campione del mondo di Bearzot, battuta 0-2 con un suo gol ed eliminata negli ottavi al Mondiale del 1986 in Messico, dove la Francia, già quarta nel 1982, si deve accontentare del terzo posto. Ma al di là dei titoli in campo e sui giornali, Platini ha il grande merito di divertire i tifosi della Juventus, riuscendo nello stesso tempo a guadagnarsi anche la stima di quelli avversari, privilegio rarissimo concesso soltanto ai fuoriclasse. Primo a vincere il Pallone d’Oro per tre stagioni consecutive, unico a lasciare il calcio a 32 anni, malgrado il suo fisico gli consentisse di strappare ancora facili ingaggi, Platini volta pagina nel 1987 con una ferita che non si è ancora rimarginata dopo vent’anni: il dramma dell’Heysel. Per questo da quel 29 maggio 1985 non ha più voluto tornare, nè mai tornerà, nello stadio che ora si chiama Re Baldovino, dove trasformò il rigore della vittoria più assurda della sua carriera. Numero uno anche a livello di sensibilità, Platini capisce però che non può stare senza calcio e alla fine del 1988 incomincia una nuova carriera da allenatore. Non di una squadra qualsiasi, ma della nazionale francese che guida per quattro anni fino al 1992, quando si dimette dopo la sconfitta all’Europeo in Svezia contro la rivelazione Danimarca. Altro giro, altra corsa, sempre da numero uno nell’impeccabile organizzazione del Mondiale francese del ”98, vinto dal suo erede Zidane, il fuoriclasse che proprio lui aveva consigliato all’avvocato Agnelli. [...]» (Alberto Cerruti, ”La Gazzetta dello Sport” 21/6/2005). «[...] Quando smise era una domenica di pioggia, 17 maggio 1987, Juventus-Brescia al Comunale, dopo la partita radunò tutti in una stanza e c’erano tartine e bicchieri di plastica. In curva Filadelfia, appeso al cemento smangiato, un lenzuolo diceva: ”Che tristezza senza di te”. Ma quanta allegria, prima, quanta pura gioia del gioco e della bellezza. Quanti gol di destro, sinistro, testa, al volo, in rovesciata, di controbalzo, quante punizioni e rigori. Perché Michel Platini era tutto, era un po’ Maradona e un po’ Falcao, cominciava l’azione e la chiudeva, chiamava il triangolo e lo serrava, lanciava lungo e raccoglieva un tocco, un rimbalzo, una sponda comunque per lui. Quando, nelle prime settimane bianconere, Boniperti lo chiamò in sede con Boniek per sapere cosa non funzionasse nel gioco di una squadra in teoria imbattibile, Michel rispose: ”Devono passare la palla a me, non a Furino”. Qualche azzurro era un po’ geloso di quel francese voluto dall’Avvocato, il quale un giorno telefonò al direttore dell’’Equipe”, Edouard Seidler: ”Quel vostro Platini è libero? Ci potreste mettere in contatto?”. Poi spedì Boniperti in missione, compreso un mazzo di rose rosse per la signora Christèle, e riuscì dove l’Inter non aveva insistito, per 90 milioni di lire Fraizzoli poteva chiudere e invece fu preferito Prohaska. ”Dopo l’Heysel non ero più io, mi sentivo vuoto e con troppi dolori fisici”. la sua candelina sulla torta. Sincera, quasi estrema. ”Se non provi più gioia, devi smettere”. Lui lo fece dopo il Mondiale ”86, e quella Coppa resta l’unica assenza in una storia sportiva meravigliosa, la più grande di Francia per lui che, forse, probabilmente, è stato anche lo juventino più forte e completo di ogni tempo. Il nonno Francesco, origini novaresi di Agrate Conturbia, era muratore e si trasferì a Joeuf, Lorena, dove rilevò la licenza del ”Cafè des Sportif”. Il padre, Aldo, era professore di matematica e allenatore dilettante. La mamma, Anna Piccinelli, arrivava dal Bellunese e quando serviva pernod e calvados al bancone di zinco del suocero aveva già Michel nella pancia. Poi cambiarono casa e finirono al profetico indirizzo di ”impasse Saint Exupéry” anche se Michelino (che i compagni di calcio in strada chiamavano ”il nano” per la non travolgente struttura fisica) avrebbe sconfessato l’autore del Piccolo Principe: l’essenziale è visibilissimo agli occhi, altroché. E di occhi ne ha riempiti tanti, Michel Platini, molti dei quali increduli per la naturalezza con cui disegnava l´impossibile senza quasi degnarsi, appena uno schizzo però sublime, un solo tocco di colore ed era già capolavoro. Cinque anni con la Juve, 147 partite e 68 gol in campionato, due scudetti e quasi tutte le Coppe, compresa la maledetta di Bruxelles, tre Palloni d’Oro consecutivi, una Coppa Europa con la sua Francia bellissima. Stile, intelligenza calcistica e non, ironia inarrivabile, snobismo, accenti sprezzanti, emotività: come quando si incaponì di fare la punta pura ad Atene, nella finale di Magath, e non vide palla. Ma gli accadeva rarissimamente di giocar male. E sapeva resistere al dolore fisico, dalla pubalgia d’esordio alla tendinite conclusiva, inizio e fine della storia bianconera. Il suo grande amico era Zibì Boniek con cui giocava a carte ovunque, in aereo, in pullman, in camera d’albergo. Gli piaceva fumare e mangiare e dire cose intelligenti, oppure tacere: all’intervista banale preferiva un crasso dito medio alzato, in risposta all’indice allo stesso modo sollevato dal cronista che gli faceva segno ”hai un momento, un momento solo?”, quando lui stava già in auto e sgommava. Ora Platini è un dirigente potente e controcorrente, perciò è difficile dire quanto sarà lunga la sua strada. [...] lo [...] sguardo di quando, stravaccato in quella foto memorabile, puntò l’arbitro dopo il gol annullato a Tokyo, più languido di Paolina Bonaparte e più acido di un limone. [...]» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 21/6/2005). «[...] . Profeta in patria e fuori: un privilegio concesso a pochi. E comunque, di patrie, ne ha sempre avute due, la Francia e l’Italia, divise soltanto da quell’accento sulla ultima i; radici familiari ad Agrate Conturbia, nel Novarese, a due passi dalla Barengo di Boniperti, e poi tanta Lorena - Joeuf, Nancy - fino a quando non è diventato Re sole o Re solo, in base agli incantesimi e, detto fra di noi, ai tiramenti. Due, come i ruoli che ha occupato: centravanti e regista, numero nove e numero dieci, non un ”nove e mezzo” alla Roberto Baggio (battuta sua), ma uno che se marcavi con un difensore, arretrava; e se lo affidavi a un mediano, avanzava. Classe raffinata. Il sinistro di Omar Sivori era adrenalina pura, il destro di Michel è stato pennello e righello, quelle punizioni, quelle traiettorie, troppo ”esatte” perché un portiere potesse gridare al destino cinico e baro (l’ha detto Zoff). In carriera, fra Nancy, St-Etienne, Juventus e Nazionale, ha disputato 649 partite ufficiali e seminato qualcosa come 353 gol. Il più bello, però, gliel’ha annullato un tedesco tutto d’un pezzo a Tokyo, durante la sfida intercontinentale con l’Argentinos Juniors, 8 dicembre 1985. Finì 2-2 e la Juve vinse comunque ai rigori, e il rigore decisivo lo segnò Michel, naturalmente. La sua foto - sdraiato e imbronciato, alla Paolina Borghese - fece il giro del mondo. ”Palla sulla testa di un avversario e sinistro al volo, nel sette. L’arbitro, Roth, andò a scovare un fuorigioco di posizione di Serena, roba da matti”. Il calcio di Platini è stato elegante e ironico, hotel di lusso e non stamberga, cabaret e non discoteca. Passione, non mestiere. Fu l’Avvocato a suggerirlo a Boniperti, nella primavera del 1982. Con lui, era arrivato Boniek. Per lui, venne sacrificato Brady. Michel ha contribuito a dare una dimensione europea alla Juve, ferma alla Coppa Uefa tutta italiana del 1977. Non aveva un fisico bestiale né sprigionava il furore iconoclasta di un Di Stefano, e non è stato neppure un incendiario della tattica come Johan Cruijff. Era un direttore d’orchestra che, ogni tanto, si sostituiva al tenore. Per farlo, aveva bisogno di impresari che ne sapessero governare le fregole e le bollicine, li trovò in Boniperti e Trapattoni, l’allenatore che si divertiva a provocarlo, mitigandone il gusto estetico con il suo personalissimo ”decalogo”: undicesimo, non lasciare sguarnita la difesa. Si è ritirato il 17 maggio 1987, dopo Juve-Brescia, in un pomeriggio di pioggia e fango. Non aveva ancora 32 anni. Avrebbe potuto tirare dritto per un altro paio di stagioni, se non di più, ma l’Heysel gli aveva rubato l’anima. L’Heysel e i Mondiali dell’86, quelli divorati da un uomo solo: Maradona. ”Ero a pezzi, non stavo letteralmente in piedi. Tendini infiammati, prendevo medicine a tutte le ore. Peccato. Se fossi stato bene, e lo fosse stato anche Giresse, li avremmo vinti noi, quei Mondiali. Invece, la Germania ci sbatté fuori in semifinale. il mio rimpianto più grande”. Un anno prima, il 29 maggio 1985, c’era stato l’Heysel. Michel l’ha nascosto, non cancellato. Juventus-Liverpool, finale di Coppa dei Campioni, 39 morti e un rigore fasullo, trasformato e celebrato come se falsa fosse stata la tragica cornice e non l’azione che lo aveva propiziato. [...] ”Avevo la testa vuota. L’Heysel, per me, ha rappresentato un confine. A 30 anni, provai una sensazione stranissima: proprio nel momento in cui ero salito in cima alla montagna, capii che era arrivato il momento di scendere. Non andavo più avanti. Non mi divertivo più. Il dramma, quel dramma. E poi gli infortuni. E poi le facce intorno a me, tutte nuove. Alla Juve, soffrii molto le partenze di Boniek, Gentile, Tardelli, Rossi, Bettega, Zoff. La vecchia guardia. La ”mia’ guardia. Uomini, non solo campioni. Feci in tempo a conquistare il mio secondo e ultimo scudetto, ma ormai il vento era cambiato. Si andava verso un calcio completamente diverso, basato più sulla potenza fisica che sul gioco. Al posto di Boniek presero Laudrup: troppo presto per Michael, troppo tardi per me. Ormai, avevo deciso. Ciao stimoli, ciao voglia. Zoppicavo, mi trascinavo. Magari, se fossimo tornati campioni dal Messico, avrei continuato: ma non successe”. Il calcio ai calciatori: è sempre stato il suo motto. Anche da ct della Francia. [...] diventato un politico, il fantasista scivolato dalle tasche dell’Inter di Fraizzoli. Agnelli lo prelevò per un tozzo di pane e ci spalmò sopra il caviale. [...] non ha mai raccontato favole. Al massimo, le ha scritte. Prima che comparisse, la Francia era vergine di trofei. L’ha liberata dal sarcasmo di noi italiani, e per noi ha realizzato il miracolo di umanizzare l’unica squadra che non fa prigionieri, o la ami o la detesti: si chiama Juventus, e lo sa bene. [...]» (Roberto Beccantini, ”La Stampa” 21/6/2005). ”France Football” l’ha eletto miglior calciatore francese del XX secolo, davanti a Zidane e Kopa. «’Mettere a confronto giocatori di differenti generazioni è sempre un esercizio artificiale, ma questo è un premio di cui andare orgogliosi. Significa che ce l’ho fatta, e che la mia carriera è davvero conclusa: questa sarà la mia ultima vittoria da atleta. [...] Io sul campo ho dato tutto me stesso. Sempre. Ovviamente, non ho mai corso quanto Tigana. Da bambino mio padre mi diceva che il pallone corre sempre più veloce del più veloce dei giocatori. E io davo retta a mio padre: non avevo bisogno di correre, perché facevo correre il pallone. Nel profondo della mia anima, non sono mai stato un atleta. [...] Divenni Ct della Francia e mi trovai in un ambiente che conoscevo bene. Fu facile. Poi cambiai ruolo: co-presidente del comitato organizzatore di Francia ”98, i mondiali. Così ho scoperto la politica e l’economia. Infine, quasi per caso, alla fine dei mondiali Sepp Blatter si è candidato per sostituire Havelange alla presidenza della Fifa. Mi chiese di aiutarlo. Fu eletto, diventai il suo consigliere personale. Ecco tutto. [...] Sono stato il capitano della Francia, il mio lavoro era tenere uniti 11 giocatori intorno ad un obiettivo comune. Quindi, so essere diplomatico se c’è in gioco un interesse. Ma non necessariamente sono uomo di facili consensi e compromessi. Quando ho delle idee ben precise, le rispetto. E ho un principio: non prometto mai niente a nessuno. [...] Penso che i calciatori della mia generazione godessero di più a giocare. Il calcio è diventato una tragedia permanente, un vero e proprio dramma, altro che una festa. Tutto va molto più veloce: Lizarazu, per esempio, corre due volte più veloce di Amoros. E poi io appartengo alla generazione del calcio-passione. Sono figlio del piacere, non degli affari. Quando ero ragazzo non sapevo neppure che si potesse diventare dei calciatori professionisti. Oggi, invece, senza offesa per nessuno, penso che si diventi calciatore per il solo desiderio di ascesa sociale”. Messico ”86, quarti di finale dei mondiali: la Francia va ai rigori contro il Brasile di Zico. Quando arriva il suo turno, Platini sbaglia. Un evento inimmaginabile, all’epoca: Platini sbaglia il rigore. ”Per me è sempre come se fosse successo ieri. Avrei dovuto tirare il quinto rigore, l’ultimo della serie. Il quarto toccava a Fernandez, ma lui mi chiese di lasciarlo tirare per ultimo. Risposi di sì. Andai sul dischetto, sbagliai e il mondo crollò... Pensai alla mia squadra, al pubblico francese, ai giornalisti... Prima che Fernendez andasse a tirare il quinto rigore, allora, gli dissi: ”Salvami la testa, evitami di finire tra le grinfie dei giornalisti’. Per fortuna, Fernandez segnò. Quell’episodio rilanciò il dibattito su rigori e golden gol. Per ragioni filosofiche, io sono per il golden gol. Non trovo elegante vincere per un errore dell’avversario. [...] stata una gioia vera vedere la nazionale francese vincere un trofeo che in passato le era sfuggito ingiustamente. I rimpianti li masticavo nell’82, e nell’86... Francia-Germania dell’82 resta il ricordo più intenso. Quella semifinale fu un concentrato di tutte le emozioni di una vita: la gioia di esserci qualificati, l’ansia di giocare contro i tedeschi, la delusione per aver subito il primo gol, il miracolo del pareggio, la speranza, e poi, subito dopo, la disperazione del secondo e del terzo gol tedeschi, la ribellione, l’odio di fronte all’aggressione contro Battiston e lo scoramento di perdere così, per un maledetto errore ai rigori. Furono 90 minuti di eroici sentimenti”. [...] Nell’agosto ’82 passa alla Juventus. All’inizio Trapattoni lo lascia fuori dal suo schema di gioco. Perché? ”Arrivai alla Juventus infortunato. A furia di fare addominali negli allenamenti della nazionale m’era venuta la pubalgia. E poi, con Zoff, Cabrini, Gentile, Scirea, Tardelli, e Rossi c’erano già sei campioni del mondo in squadra. Quando capitava di perdere, era ovviamente colpa dei nuovi. E io ero uno dei nuovi. Una sera, dopo una partita a Genova, stavo per scappare in Francia con mia moglie. Ma ho tenuto duro. Il calcio in Italia non ha nulla a che vedere con quello che è da noi. Se sei scarso, i tifosi ti rimandano a casa. Ma se sei un campione ti mettono allo stesso livello del Papa”.A Torino vinse tutto. E divenne il cocco di Gianni Agnelli, il proprietario della Fiat e della Juventus. ”I nostri rapporti erano amichevoli. Non eravamo della stessa generazione, e questo fu un peccato. Credo che fosse fiero del mio successo, perché era stato lui a portarmi in Italia”» (Paul Miquel, ”la Repubblica” 30/3/2001).