varie, 6 marzo 2002
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Pollack Sidney
• Lafayette (Stati Uniti) 1 luglio 1934, Los Angeles (Stati Uniti) 26 maggio 2008. Regista • «Non si uccidono così anche i cavalli?, I tre giorni del condor, Tootsie, La mia Africa. Regista, produttore, attore, Sydney Pollack [...] ha saputo provare che un film può intrattenere, fare soldi e vincere Oscar e, allo stesso tempo, può farci pensare. [...] ”[...] Quando ho iniziato, negli anni ”60, la gente diceva che il cinema degli anni ”40 era superiore. Negli anni ”70 si diceva che gli anni ”60 erano migliori. Negli anni ”90 ricordavamo con rimpianto la decade precedente. [...] quando fai un film vuoi disperatamente che vada bene, anche se a volte ti senti una macchina. Anzi, arrivato alla centesima intervista della giornata, ti senti un folle”» (Lorenzo Soria, ”L’Espresso” 12/5/2005). «Mi sono avvicinato al cinema in un momento importante, erano gli anni della rivoluzione politico-culturale. All’epoca il cinema europeo aveva un grosso ruolo, e quello americano veniva rivisto attraverso l’esperienza italiana. Così sono stati realizzati film importanti […] I primi film di Fellini e i primi di Antonioni erano una novità assoluta perché stravolgevano la forma del racconto tradizionale. Ricordo di aver visto Otto e mezzo almeno undici volte. Godard invece mi piaceva già meno, e Visconti era un po’ difficile per noi americani» (Franco Giubilei, ”La Stampa” 24/4/2002). «Oltre a essere un regista di successo, ha prodotto quasi 40 film. Cosa significa oggi essere produttori a Hollywood? ”Produttore è un termine elastico. Può voler dire uno bravo a trovare i soldi, ma che non capisce niente di cinema. Un altro magari ha intuizioni valide, però ignora l’aspetto finanziario. Infine, c’è il raro caso del produttore dotato di senso estetico, in grado di dare un contributo di idee. Quanto a me, mi interessa far passare un passaggio senza averne l’aria e tirare fuori il meglio dai collaboratori”. Ha cominciato la sua carriera come attore: ”Recitare non mi piace tanto. Lo faccio per vedere come lavorano gli altri registi e imparare […] Kubrick controllava ogni minimo particolare, anche il movimento del mignolo, avevi l’impressione di essere manovrato come un burattino. Woody al contrario non dice nulla agli attori, neppure buongiorno se è per questo. E’ timido. La sua forza è la solidità della sceneggiatura e la buona scelta degli interpreti. Se poi scopre di aver preso un attore sbagliato lo manda via”. […] ”Una cosa è sicura, non ho mai girato niente che fosse estraneo alla mia realtà. Horror, fantascientifici, non saprei proprio farli […] Sono anni che sogno di fare un film che racconti Hollywood con la verità con cui Eva contro Eva parlava del teatro. Quello del cinema è un ambiente un po’ ridicolo, pieno di tipi capricciosi, viziati, insopportabili. Sembra il sistema più inadatto a fare arte, lì conta solo il denaro, eppure non c’è un singolo anno che da Hollywood non escano almeno tre o quattro pellicole di grande valore intrinseco”» (Alessandra Levantesi, ”La Stampa” 4/8/2002). «Nato al cinema dalla televisione degli anni Sessanta sullo sfondo di quel cinema americano del dopoguerra di robusta ispirazione ”civile”, come si direbbe da noi, dei Penn, Lumet, del più giovane e di poco più anziano di lui Frankenheimer, si è trovato in ricchissima compagnia ad animare la nuova ondata di anticonformismo e rinnovamento fiorita tra gli sgoccioli del decennio Sessanta, sulla scia di Easy Ryder, e la prima metà del successivo. Quella New Hollywood che ha rifornito con generosità planetaria la programmazione d’essai di quegli anni e che per tanta parte ha fatto poi smarrire le sue tracce, e che invece oggi fornirebbe materia per una ghiottissima riscoperta: siamo pronti a scommetterci. In questo contesto ha avuto diversi primati e meriti. Quello di diventare il campione di un cinema fortemente ideologizzato e impegnato, insomma di segno anticonservatore, che è però riuscito contemporaneamente a raccogliere vastissimi consensi commerciali: ne sono prova schiacciante e inconfutabile soprattutto Come eravamo e I tre giorni del Condor, un film di perfezione ammirevole e invidiabile che non viene scalfita neanche alla centesima ri-visione. E quello, che oggi magari fa alzare un po’ il sopracciglio, di aver praticamente inventato la nozione di politically correct, con la scoperta non solo sua ma da lui largamente divulgata attraverso Corvo rosso non avrai il mio scalpo, dell’indiano buono: la riabilitazione di quelle popolazioni native che il cinema e soprattutto il western avevano sistematicamente confinato nel cliché del selvaggio assetato di sangue, quando fino a prova contraria il sangue lo avevano versato soprattutto loro e la violenza l’avevano abbondantemente subita. Se in Come eravamo ha lasciato un contributo-chiave alla revisione di quell’intensissima stagione culturale americana che va dall’ondata di simpatia e apertura degli anni Trenta verso la causa antifascista fino alla chiusura del maccartismo, riversandovi lo sguardo di un intellettuale che è a tutti gli effetti erede di quelle pulsioni, Corvo rosso è il manifesto di una riflessione critica sì, ma profondamente partecipe dei grandi valori tradizionali, dell’antico e fondativo valore americano della wilderness in opposizione all’odierno cinismo, alla violenza senza onore e alla prevaricazione senza valori. Lungo questo itinerario si è fatto fedelmente accompagnare da un attore che rappresenta in definitiva il suo alter ego: Robert Redford. Ha fatto di lui la reincarnazione della stessa rettitudine degli eroi del New Deal, un nuovo James Stewart. Ma non è proprio il caso di dimenticare almeno altri due o tre titoli, sia pur senza Redford. Tra questi il primo che gli ha dato un nome: Non si uccidono così anche i cavalli?, straziante spaccato della Depressione e, attraverso la presenza di Jane Fonda, indiretto omaggio a un altro gigante di quella stagione, papà Henry. Poi anche Yakuza, un film che si tende a non associare alla sua impronta ma che invece contiene molto del suo spirito. E certamente Tootsie, che invece appartiene alla zona più illuminata e fortunata della sua carriera, quella di un cineasta dalla sensibilità vigile e sempre pronto a cogliere l’aria del tempo, capace di travasarla in opere destinate a diventare riferimenti obbligati» (Irene Bignardi, ”la Repubblica” 1/8/2002).