Varie, 6 marzo 2002
POLLINI
POLLINI Maurizio Milano 5 gennaio 1942. Pianista. Considerato uno dei pianisti ”del secolo”, dotato di tecnica superba e di una capacità eccezionale di analisi del testo. Ha suonato con tutti i direttori più celebri e ha collaborato molto spesso con Abbado, a cui lo lega una grande amicizia (’la Repubblica” 5/2/2001) • «Per la maggior parte degli spettatori è ancora il ragazzo della fotografia consegnata agli organizzatori del VI Concorso Chopin di Varsavia. Così compare anche sulla copertina del disco assegnato come premio al vincitore: il Primo di Chopin. Era il 1960. Il 18enne Pollini, cui Arthur Rubinstein presidente di giuria dedicò un giudizio-presagio artistico esplicito, era cresciuto in una colta famiglia milanese dov’era naturale far coesistere il pragmatismo professionale con l’amore per la musica e l’arte in genere, e con la passione civile. Il clima di rigore intellettuale assicurò al giovane pianista quella maturità artistica e poetica così spiccata che aveva colpito Rubinstein e indirizzato all’unanimità il verdetto dei severi giurati [...] Un memorabile, e involontario, caso di cronaca portò alla ribalta l’uomoPollini quando, nel 1972, tentò di leggere una protesta antiamericana (c’era ancora la guerra, in Vietnam) al pubblico del Conservatorio di Milano. Non fu che un inizio. Attraverso storiche prime di musiche scritte per lui (da Nono, Manzoni e Sciarrino, tra gli altri) e tenute a battesimo con l’amico e fratello di battaglie civili Claudio Abbado, incontri e esecuzioni per il pubblico delle scuole, delle periferie e delle fabbriche occupate, si rafforzò l’immagine dell’artista colto e anticonformista: impegnato come si diceva. La corredò una costante attenzione e curiosità nei confronti della creatività contemporanea (Stockhausen, Boulez e gli autori della Scuola di Vienna non sono più mancati nei suoi programmi) e penetranti incursioni nel grande repertorio di cui l’integrale delle Sonate di Beethoven o il confronto con il Clavicembalo ben temperato di Bach furono l’emblema. Tra un recital solistico e l’altro, riemergeva la predilezione per la musica da camera, e la voglia di cimentarsi con la direzione d’orchestra che si manifestò dopo rare esperienze mozartiane nella tumultuosa lettura della rossiniana Donna del lago a Pesaro. Negli ultimi anni la stessa curiosità e volontà di non lesinare la presenza artistica hanno indirizzato Pollini su altre strade: l’insegnamento alla Scuola di Musica di Fiesole e all’Accademia Chigiana (compiuto da un artista esigente e riservato come lui, il gesto rivela una caparbia moralità) e la creazione di rassegne musicali a tema come ”Zeitfluss” al Festival di Salisburgo. L’unicità di Maurizio Pollini, al di là delle cose stupende dette al pianoforte, sta nella sua partecipazione costante, razionale e tenace, rigorosa ma appassionata, alla vita culturale e al nostro tempo (così nelle ore in cui iniziavano i bombardamenti sull’Afganistan, lui stava suonando a New York). Per cui ogni suo recital è un evento esclusivo. Non manca il delirio poetico-esecutivo, il momento interpretativo in cui il pensiero musicale si fa emozione. Senza però tradire le aspettative di chi da lui è stato addestrato a ricevere insieme anche una rara opportunità critica per imparare» (Angelo Foletto, ”la Repubblica” 9/11/2001). «Quel ragazzo o sarebbe diventato il più grande pianista del mondo o ”sarebbe finito in manicomio”, pensò Piero Rattalino, storico del pianoforte. Presentarsi al concorso di Varsavia con i quattro più impervi Studi di Chopin era una scelta di coraggio estremo. Maurizio Pollini, diciottenne milanese, nel 1960 vinse il primo premio: ”Tecnicamente ci sorpassa tutti”, esclamò il presidente della giuria Arthur Rubinstein. Non ancora pago, il ragazzo intensificò il lavoro che l’avrebbe collocato tra i maggiori interpreti fra Novecento e Duemila. Con rigore, metodo, curiosità, sensibilità. Anche con qualche ”vera follia”: come quell’eseguire a memoria, nei primi Anni ’70, Klavierstück X di Stockhausen alla Scala, la Seconda Sonata di Pierre Boulez all’Unione Musicale di Torino, i due Concerti di Bartók con Abbado, l’integrale di Schönberg che allora ”quasi nessuno conosceva”. Ricorda appassionatamente quei concerti Francesco Micheli, finanziere pianista [...] E racconta: ”All’opposto di Horowitz che affermava di suonare soprattutto quello che il pubblico gli chiedeva, Pollini cerca di far crescere il pubblico spiegandogli un repertorio sempre più nuovo e imponendoglielo”. Per combattere la paura nei terribili minuti prima di affacciarsi sul palcoscenico, Arturo Benedetti-Michelangeli ricorreva al metodo Stanislavski: immaginarsi chiuso in una ”campana di vetro” facilitava il suo sforzo di concentrazione. Pollini dietro le quinte passeggia in una ”campana di fumo” che si sprigiona dalle ”sue insostituibili Pall Mall, rigorosamente senza filtro”. Entrano in scena i pianoforti. ”Alla ricerca di quello ”speciale”, Francesco Micheli accompagna più volte il maestro alla Steinway di Amburgo. ”Si attraversa una prima sterminata fila di pianoforti verticali neri che sembrano soldati schierati sull’attenti, poi si sale nel santuario, una enorme sala al terzo piano sopra i laboratori, dove una quarantina di pianoforti a coda, tra cui una buona metà da concerto, ti aspettano con i coperchi sollevati. E’ il massimo concentrato del genere che si dia sul pianeta. Ricordo Pollini provarli in modo erratico uno dopo l’altro, poi scendere in un reparto dove ce n’era qualcuno ancora non finito ma già in grado di suonare. Neppure lì la ricerca giungeva finalmente a un termine”. Entrano in scena i maestri più amati, scandagliati: Beethoven, Schubert, Chopin, Schumann, Liszt, Brahms, Debussy, Schönberg e Bartók. A capire Pollini teso ad allargare gli orizzonti della sua conoscenza bastano queste ”istantanee” del musicologo Enzo Restagno: ecco il maestro ”intento ad accompagnare Fischer Diskau nella Winterreise schubertiana; al Barbican Center per presentare, insieme con Boulez, un nuovo lavoro per pianoforte e orchestra di Sciarrino”. Eccolo ”sprofondato nello studio dei madrigali di Luca Marenzio, di Gesualdo e di Monteverdi”, proteso ”nel captare le riverberazioni provenienti dai nastri magnetici di Luigi Nono”, assorto nell’anatomia di un’opera teatrale di Schubert quasi dimenticata. Entrano in scena le appassionate battaglie. Non soltanto quelle d’intellettuale di sinistra - la parola torna a Micheli - che lo portavano ”ad aderire alla sospensione di uno spettacolo al Conservatorio di Milano in segno di protesta contro i bombardamenti americani nel Vietnam, oppure a esibirsi in concerto con Luigi Nono a Genova in una fabbrica occupata dai lavoratori, a sostegno della loro causa”. Ma anche la battaglia ”per estendere l’accesso alla musica di qualità alle fasce di pubblico più povere” e ”l’intraprendenza che lo vede spesso in prima fila nel promuovere nuove occasioni, festival, associazioni che hanno l’obiettivo di allargare la conoscenza, la pratica e l’ascolto della musica, specie di quella contemporanea che ne ha più bisogno”» (Alberto Sinigaglia, ”La Stampa” 11/4/2003).