Varie, 6 marzo 2002
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Powell Colin
• New York (Stati Uniti) 5 aprile 1937. Politico. Figlio di immigrati giamaicani. Si è laureato in geologia frequentando i corsi serali al City College di New York. Ha completato gli studi con un Master in Business Administration. Ha indossato la divisa militare per 35 anni. Pluridecorato veterano del Vietnam (cinque medaglie tra cui la prestigiosa Purple Heart), ha lasciato l’esercito nel 1993, con il grado di generale a quattro stelle. Nominato capo di Stato maggiore dal presidente George Bush senior nel 1988, durante la Guerra del Golfo (1991) ha diretto l’operazione «Tempesta del deserto», chiedendo e ottenendo di inviare in Iraq una «overwhelming force», una forza soverchiante. Consigliere per la Sicurezza nazionale durante il secondo mandato del presidente Ronald Reagan, è stato nominato segretario di Stato (cioè capo della diplomazia americana) nel gennaio 2001 dal presidente George W. Bush, primo afroamericano nella storia degli Stati Uniti a ricoprire questo incarico. «’Il generale Colin Powell è un eroe americano, un simbolo americano, una magnifica storia americana”, disse George Bush presentandolo. Quattro anni dopo, l’eroe e il simbolo vivono ancora, ma la storia è finita, con la lettera di dimissioni presentata [...] alla Casa Bianca. Chi sperava che il vecchio soldato gentiluomo avrebbe resistito per altri quattro anni nella sua erculea fatica di contrappeso razionale agli apostoli della guerra si dirà deluso, ma il destino di Powell alla segreteria di Stato era segnato. Lo si era capito fin dal giorno del 2003 nel quale lui presentò alle Nazioni Unite il libro dei sogni venduto come ”prove certe” per la guerra preventiva, una vergogna dalla quale non si sarebbe più ripreso. Powell ha saputo sconfiggere il cancro, ma non i suoi nemici interni che lo avevano sempre guardato come un intruso nel bunker di Bush. Giustamente, come le sue poche parole pubbliche di testamento spirituale [...] hanno dimostrato: ”Ora dobbiamo ricostruire e rafforzare le alleanza internazionali degli Stati Uniti”. [...] Powell, naturalmente, non è un martire e neppure un’ingenua verginella. Non si marcia dal Bronx, dove il padre pescatore emigrò negli anni ’30, fino alle quattro stelle di generale dell’Esercito, alle somme poltrone di capo di stato maggiore della Difesa, poi Consigliere per la Sicurezza Nazionale (il posto che fu di Kissinger e ora di Rice) e infine di capo della diplomazia americana senza essere grandi navigatori di scrivanie. Invocando lo spirito di servizio assorbito nei corsi civili per allievi ufficiali che lui frequentò, evitando la accademia militare di West Point, ha saputo mettersi agli ordini di Comandanti supremi sparsi agli estremi opposti dello spettro politico e ideologico, Reagan, Bush il Vecchio, Clinton e Bush il Giovane, sempre con quell’aplomb calmo e distaccato, rispetto alle maree schiumanti della politica che non sembravano bagnarlo. Scaricava le tensioni sulle vecchie automobili ”Volvo” che lui amava smontare e restaurare nei week end. La sua arma era la competenza, che faceva pesare nei confronti degli strateghi dilettanti elevati al massimo potere e che non avevano mai visto un combattimento vero, come Reagan, Clinton, George W. Bush. Non per caso lui, che aveva esordito da giovanissimo sottotenente spedito in Vietnam da Kennedy nel 1962, prima di essere mandato in Germania a fare la guardia sul fronte occidentale, aveva trovato le maggiori affinità con Bush il Vecchio, che la guerra aveva conosciuto e fatto davvero, ai comandi di un bombardiere abbattuto dai giapponesi sul Pacifico. A differenza dei falchi da tavolino, George il Vecchio, come Powell ferito due volte in Vietnam, della guerra aveva un sano orrore. Si oppose, inizialmente, anche a Desert Storm, nel 1990-91, insistendo con il presidente perché, prima di passare all’azione, formasse una seria e convinta alleanza internazionale e poi applicasse i tre principi che lui, Powell, aveva enunciato nelle sue memorie. Fare guerre soltanto con 1) Forze schiaccianti; 2) Certezza dell’obbiettivo e della strategia di uscita; e 3) Pieno e convinto sostegno popolare all’azione contemplata. Esattamente i tre principi violati nella tragedia Iraq. Per questo, rileggendo proprio le ”tavole della legge” secondo Powell, anche molti dei suoi ammiratori che avevano tentato di convincerlo a presentarsi come candidato alla Casa Bianca, (fu la moglie Alma a dire ”no” per il timore di vedere il marito ucciso come Martin Luther King) hanno guardato con amarezza la sua quotidiana ritirata davanti all’aggressività dei profeti della guerra preventiva. Per i tre anni trascorsi dall’11 settembre, Powell, che aveva addirittura avanzato l’ipotesi di allentare le sanzioni contro l’Iraq nella certezza che punissero gli innocenti e arricchissero i farabutti, aveva tentato di ripetere quella semplice verità di buon senso che Rumsfeld, Wolfowitz, Cheney e alla fine anche Bush non volevano sentire, che gli scenari rosei di un Iraq in festa all’arrivo degli Alleati, erano puro wishful thinking, proiezioni di fantasie ottimistiche. Tentò di spiegare al presidente che in Iraq sarebbe scattata la regola del ”Pottery Barn”, la grande catena americana di porcellane e casalinghi: ”Se lo rompi è tuo” e i cocci sanguinosi di quella nazione frantumata sarebbero appartenuti in pieno agli Stati Uniti. Ma quando Bush lo mise di fronte all’aut aut, ”con me o contro di me”, il generale vinse sul diplomatico e Powell scattò sull’attenti. Fu spedito, come ”volto credibile” a recitare quell’abominevole show di illusionismo al Consiglio di Sicurezza, nel febbraio del 2003, che non persuase nessuno e che lui stesso, mesi dopo, rimpiangerà amaramente. Il compito che Bush gli aveva affidato era quello di mettere in riga il mondo dietro la guerra e Powell, che alla guerra non credeva, non ci è riuscito. Forse non voleva riuscirci. Ha pagato inghiottendo il dissenso e giocando al buon soldato. Soluzione di comodo o soluzione di coraggioso sacrificio, per un uomo che avrebbe potuto tranquillamente consumare la propria vecchiaia [...] scampata a un tumore alla prostata parlando a congressi di dentisti e di rotariani per 50 mila dollari a serata? Propendiamo per lo spirito di servizio, per il senso del dovere e non soltanto per il suo cuore di vecchio soldato, ma per il colore della sua pelle. Come primo segretario di Stato di sangue africano, Colin Powell sentì la responsabilità di onorare la propria gente, di essere davvero un esempio di impeccabile correttezza a ogni costo, in una nazione ancora oppressa, come tutte, da stereotipi razziali e razzista. Non è riuscito a impedire la guerra, ma ha reso possibile d’ora in poi qualunque orizzonte politico per chi fu schiavo» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 16/11/2004). «Ha perduto quel giorno alle Nazioni Unite, quando ha investito il suo immenso prestigio alzando la finta fiala di antrace. Quando ha mostrato i pannelli con i laboratori mobili di Saddam, ripetendo la lezione della prima guerra del Golfo, 1990-1991, ”fidatevi di me”. Allora i giornalisti cinici del dopo Vietnam s’erano fidati e Powell aveva mantenuto le promesse, liberando il Kuwait e fermando la formidabile coalizione internazionale guidata da George Bush padre, sotto l’egida Onu e con russi e arabi in campo, senza far cadere Saddam nei limiti della Risoluzione Onu. I conservatori non gliela perdonano e delegano l’ex deputato Newt Gingrich a tacciarlo di fanfarone impotente in una velenosa serie di articoli. La fiala dell’Onu, però, resta vuota, le armi di sterminio di massa sulle quali ha scommesso la faticosa ascesa dai mattoni rossi del Bronx, rampollo di immigrati giamaicani, al marmo della capitale, non si trovano. Powell è solo. I falchi, ispirati dal vicepresidente Dick Cheney, guidati da Rumsfeld e dal suo vice Paul Wolfowitz, lo allontanano da Bush. La sua prediletta Condoleezza Rice, affidatagli dall’amico e sodale Brent Scowcroft, generale fedele alla ”dottrina Powell”, si allea con i duri. Gli uomini della guerra globale contro i veterani della guerra fredda. Il generale Shalikasvili, capo di stato maggiore dell’esercito, si scontra con Rumsfeld sul numero di soldati indispensabili a pacificare l’Iraq, 400.000 secondo l’ufficiale, 250.000 per Rumsfeld, e viene spedito in pensione senza indugi. Powell è accerchiato. [...] La sua risposta al terrorismo globale è timida, quando quella dei neoconservatori è avventata. Bush, obbligato ad agire dall’11 settembre, preferisce l’azzardo della guerra di movimento, all’inerzia della guerra di posizione. Powell si rassegna, e si confida con l’amico giornalista Bob Woodward che, in più volumi, ne difenderà l’operato, rendendo celebre la massima offerta a Bush: ”Se invade l’Iraq, signor presidente, diventa proprietario di 25 milioni di iracheni. Chi rompe paga e i cocci sono suoi!”. La storia dei primi anni del XXI secolo ricorderà la vittoria di Pirro di Powell, che impegna Bush a cercare una seconda risoluzione all’Onu contro Saddam, pur di portare nella coalizione contro Bagdad francesi e tedeschi. Il presidente Chirac, e il ministro de Villepin, all’ultimo momento, annunciano di non essere disposti al blitz, qualunque cosa decida il Consiglio di Sicurezza. ”I francesi mi han sfilato il tappeto da sotto i piedi” ammette Powell, sconfitto. Se l’è cavata con i poliziotti razzisti che volevano arrestarlo da giovane tenente, in Vietnam ai tempi della strage di My Lai, come primo capo di stato maggiore afroamericano. [...] La sua cultura, fedeltà alla bandiera, fiducia nelle regole dei corridoi di Washington, strategia classica della guerra fredda, non conosce il linguaggio frenetico della guerra globale. Il discorso più bello del segretario Powell, pronunciato davanti a una classe di liceali, non riceverà neppure una riga in Europa: a uno studente che gli chiede come mai gli Usa attacchino Saddam quando hanno fomentato il golpe contro il presidente cileno Salvador Allende nel 1973, [...]» (Gianni Riotta, ”Corriere della Sera” 16/11/2004). « nato nel South Bronx di New York da genitori giamaicani, ma per le diplomazie del Vecchio Continente Colin Powell è stato il più europeo tra gli uomini di [...] George W. Bush [...] L’ex generale che Bush mise al Dipartimento di Stato nel 2001 era visto in Europa come una speranza perché come tanti membri di governi europei, in realtà, della seconda guerra in Iraq avrebbe anche fatto a meno. Oppure l’avrebbe fatta in altro modo, con minor precipitazione e una Coalizione più larga. Powell è uno che vantava di parlare ”spessissimo al telefono” con ”l’amico Joschka” Fischer, il ministro degli Esteri tedesco eletto tra i verdi (benché poi quando passava per la Germania corresse a incontrare anche il capo dell’opposizione conservatrice Angela Merkel). uno che si è fatto chiamare volentieri ”Colin” - il solo darsi del tu, in inglese, è scontato - dall’ex titolare della Farnesina Renato Ruggiero e dal successore Franco Frattini. E anche con i francesi, verso i quali pronunciò parole dure a causa della loro avversione risoluta alla guerra in Iraq, Powell non ha rotto la corda di un legame teso. Uno dei suoi amici in Europa è sempre stato l’olandese Jaap de Hoop Scheffer [...] segretario generale della Nato. Quando nel 2003 ”Colin” entrò alla Casa Bianca per una colazione nella quale de Hoop Scheffer era ospite in qualità di ministro degli Esteri, si disse che la sua presenza fu importante: l’appoggio americano a un candidato segretario generale non dipese più soltanto dal Pentagono. Vicino al più diplomatico dei generali americani che in vita propria hanno organizzato guerre in Iraq è il ministro degli Esteri britannico Jack Straw. [...] ha definito Powell ”un grande soldato, un grande statista”. [...]» (Maurizio Caprara, ”Corriere della Sera” 16/11/2004). «Diversi anni fa, durante un’intervista televisiva, un giornalista chiese a Colin Powell come mai un ragazzo nero del Bronx era riuscito a scavalcare tutti i generali americani, per diventare capo degli Stati Maggiori Riuniti. Lui fece un largo sorriso e rispose: ”Questo è un grande Paese”. Il viso mulatto di Colin è sempre stato un simbolo del sogno americano. nato il 5 aprile 1937 da Luther e Maud Powell, immigrati giamaicani di prima generazione, nel quartiere simbolo del degrado di New York. Secondo un esperto di cose araldiche che ha fatto ricerche sulle sue origini, la trisnonna era la figlia illegittima di una schiava nera e di sir Eyre Coote, governatore britannico dell’isola caraibica. Questo farebbe di Colin un discendente del re Edoardo I e un parente lontano dei Bush. Ma negli anni Trenta era soltanto un nero a New York, che nel tempo lasciato libero dalla scuola faceva il garzone per arrotondare lo stipendio del padre, operaio in una ditta di abbigliamento. Studiava poco e male, per sua stessa ammissione, ma era riuscito ad entrare al City College of New York, l’università pubblica locale, laureandosi in geologia. Non aveva la minima idea di cosa fare nella vita, fino a quando aveva incontrato gli arruolatori del Reserve Officers Training Corps (ROTC), il programma per gli ufficiali di complemento che offre di pagare la retta scolastica in cambio di qualche anno di servizio. A lui però il servizio era piaciuto. Aveva preso il grado di sottotenente come primo della sua classe e nel 1962 era volato in Vietnam. Era stato ferito, aveva ricevuto la sua prima medaglia, ma era ritornato a combattere nel 1968. La sua carriera però aveva cominciato a volare sul serio quando era tornato in patria, e dopo un master alla George Washington University era finito alla Casa Bianca nell’ufficio del bilancio. Lo avevano notato Casper Weinberger e Frank Carlucci, futuri capi del Pentagono, e da lì era stata un’ascesa continua: Consigliere per la Sicurezza nazionale con Reagan, capo degli Stati Maggiori Riuniti con Bush padre e vincitore della Prima guerra del Golfo nel 1991, segretario di Stato con Bush figlio, dopo aver rinunciato a candidarsi alla Casa Bianca nel 1996 quando il partito repubblicano glielo chiedeva in ginocchio. Powell è popolarissimo, anche se la sua vita non manca di controversie. Nel 1968 gli avevano chiesto di indagare sul massacro di My Lai, e lui lo aveva smentito così: ”In diretta confutazione c’è il fatto che le relazioni tra i soldati americani e la popolazione vietnamita sono eccellenti”. Quasi vent’anni dopo, mentre stava con Reagan alla Casa Bianca, era una delle cinque persone che sapevano dell’operazione Iran-Contra, ma ne era uscito senza un graffio e senza attaccare i suoi superiori. Quando poi nell’agosto del 1990 Saddam aveva invaso il Kuwait, lui si era opposto all’opzione militare, salvo poi obbedire agli ordini del presidente a condizione che rispettasse la famosa ”dottrina Powell” [...] Questa fedeltà e obbedienza spiegano anche i suoi difficili quattro anni da segretario di Stato. Appena entrato in carica aveva promesso di continuare i negoziati con la Corea del Nord, ma Bush lo aveva fermato per non dare l’impressione che seguisse la stessa strada di Clinton. favorevole all’aborto, cosa che non l’aiuta con la base repubblicana, ma aveva accettato il blocco di tutti gli aiuti esteri che potevano servire a promuovere questa pratica. Dopo l’11 settembre si era scontrato con gli ideologhi che volevano attaccare l’Iraq, come il capo del Pentagono Rumsfeld, peraltro accantonando la sua dottrina della forza preponderante. Ma poi il 5 febbraio 2003 era andato al Palazzo di Vetro per tenere il discorso che forse lo definirà nei libri di storia: ”La gravità di questo momento - aveva detto agitando una fialetta finta di antrace - è pari solo alla gravità della minaccia che le armi di distruzione di massa dell’Iraq pongono al mondo”. Powell aveva passato giorni e notti alla Cia per analizzare le prove, ne aveva scartate parecchie, ed era scettico tanto su cosa stava dicendo quanto sugli eventi che avrebbe scatenato. Eppure aveva obbedito, come in ogni giorno della sua carriera, fino alla dimissioni [...] Il perché lo aveva già spiegato al Congresso il generale MacArthur, dopo la rimozione dal comando in Corea: ”I vecchi soldati non muoiono ma, svaniscono solo in lontanza” [...]» (p. mas., ”La Stampa” 16/11/2004).