varie, 6 marzo 2002
POZZI
POZZI Elisabetta Genova 23 febbraio 1957. Attrice • «Sono felice quando conquisto anche soltanto una persona per sera, ma per ottenerlo devo lavorare, tutti i giorni. Affinare la mia tecnica. Non mi nego al divertimento, questo no. Anche se ho passato le vacanze di Natale su un testo di Karen Blixen Carta bianca […] Non mi sono mai proposta al cinema. Non ho tempo […] Non mi piace il cosiddetto teatro minimalista, quello che cerca spasmodicamente di trovare linguaggi per tutti: il ”quotidianismo”. Non ne posso più. La lingua è mutata, certamente ma non vedo la necessità di adeguarsi allo spaventoso degrado culturale che ci circonda. Mi sto dedicando ad una serie di testi, romanzi e cerco di adattarli per la scena. Il teatro, è stato detto fino alla noia, ha una funzione sociale, allora mettiamola in pratica» (Alessandra Rota, ”la Repubblica” 28/1/2002) • «La conversazione ”più forte, più importante”, che ha inciso sul suo mestiere di attrice l’ha avuta con Giorgio Albertazzi, ”che reputo il mio maestro”, qualche mese dopo l’esordio, ”avevo 17 anni”, al teatro Duse di Genova, nella commedia Il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello con la regia di Luigi Squarzina. ”Il suo effetto non è stato immediato”, avverte. La metabolizzazione è stata laboriosa, e molto lenta, ”anche perché le opinioni espresse da Giorgio rovesciavano completamente le idee con le quali avevo affrontato il palcoscenico”. Aveva cominciato, racconta, con la scuola dello Stabile della sua città. In realtà, confessa, non aveva seguito corsi di alcun genere: ”Andavo a teatro dall’età di 12 anni, quasi tutti i giorni, se potevo, senza una predilezione particolare: il musical piuttosto che la tragedia. Mi facevo accompagnare dai miei genitori e assistevo agli spettacoli dello Stabile diretti da Squarzina: ricordo una Madre Courage e i suoi figli di Bertolt Brecht interpretata dall’indimenticabile Lina Volonghi; vedevo le rappresentazioni del Gruppo della Rocca e del Teatro Insieme”. Era una spettatrice onnivora e insaziabile. ”La necessità di recitare è cresciuta dentro di me istintivamente”, aggiunge: ”Testimoniava una passione e una vocazione autentiche”. Riesumare queste pagina della vita, ”l’ultimo anno era anche l’anno della maturità classica”, le è utile per far capire il valore di quel colloquio improvviso e inatteso. ”Albertazzi, che era il protagonista della pièce, mi aveva scelto dopo un provino; non ho dovuto fare la trafila dei piccoli personaggi e mi sono immediatamente trovata a recitare accanto ai mostri sacri: lui, la Volonghi, Ferruccio De Ceresa, Lucilla Morlacchi; c’erano anche Massimo Lopez e Tullio Solenghi. I primi tempi sentivo il bisogno di copiarli, di imitarli. La mia cultura teatrale era un’infarinatura di avventure precedenti, di letture disordinate e forsennate, di cognizioni un po’ scarse. Ero molto giovane”. Aveva avuto occasione di parlare con l’attore già celebre, ”che conoscevo poco”, durante le prove e le prime repliche del testo pirandelliano. ”Un giorno mi è scappato di dirgli, non so bene perché, probabilmente per provocarlo, neanche lo credevo fino in fondo, che la recitazione ha a che fare con l’invenzione: invento qualche cosa, racconto una bugia, una falsità; divento altro da me. Ero vittima del luogo comune, che coinvolge molti, secondo cui l’attore sa mentire bene, è l’abile, grande menzognero. Era anche il modo di difendermi da un mondo che mi attraeva e nello stesso tempo mi impauriva”. Quella sera di 26 anni fa, un’ora prima dell’inizio di una replica, nel camerino del Duse entra Giorgio Albertazzi. ”Comincia a dire, con semplicità, ma con la chiara intenzione di farlo intendere a me, che cosa significhi per lui essere attore. Ciò che pensava era l’opposto delle teorie, molto infantili, che gli avevo accennato, sull’attore colossale bugiardo. Giorgio è stato abilissimo: stare sul palcoscenico, mi ha detto, con pacatezza, senza mettersi in cattedra, è esattamente il contrario. Innanzitutto bisogna avere una conoscenza profonda, addirittura brutale, di se stessi: forse, per paradosso, non esiste al mondo un essere più sincero di un attore. L’attore non può lavorare che muovendo da sé e trasferire sul personaggio le sue emozioni, le sue esperienze, i suoi dolori, le sue gioie... La vita che vivi all’esterno del palcoscenico non deve mai scindersi dalla vita che vivi sul palcoscenico: è tutt’uno. Soltanto allora sei credibile”. Molti giovani in cui si imbatte adesso la pensano come la pensava lei, prima di quella conversazione. ”Invece, l’Amleto che reciti tu, è il tuo Amleto: sei tu, con il tuo sangue, le tue viscere”, conferma. ”Altrimenti tutti gli Amleti sarebbero uguali”. Le parole del ”maestro” l’hanno colpita, confessa: non aveva mai ipotizzato di dover partire dal suo vissuto e metterlo in gioco. ”Ho tentato di argomentare le mie opinioni: non mi piaceva l’idea di accettare ciò che non capivo profondamente. Forse, senza esserne consapevole, praticavo quello che lui teorizzava; e tuttavia sentivo il bisogno di contrastarlo, comunque di resistergli”. Era anche eccitata e incantata, ammette: ”Sono sempre stata entusiasta del mio lavoro e del mio stare al mondo... un entusiasmo che nessuno è riuscito a scalfire... e quindi”, spiega, ”è costante il desiderio di andare avanti e di apprendere tutto quello che c’è da apprendere, afferrandone il senso più segreto”. Albertazzi aveva a che fare con un essere ”speciale”, dice senza enfasi: ”Lo sono molti giovani, per carità. Ma la mia furia andava al di là dell’entusiasmo giovanile. E lui desiderava che continuassi nella maniera giusta”. Elisabetta Pozzi ha capito fino in fondo il significato di quella serata particolare parecchio tempo dopo. Lì per lì, no: era presa, non avendo fatto scuole di recitazione, dalla voglia di imparare la tecnica del teatro. Viveva anche in maniera convulsa: faceva stage; è andata a conoscere Peter Brook, a Parigi; studiava canto, danza... ”Dieci anni dopo, ho scoperto di essere in un rapporto molto stretto con un personaggio che, guarda caso, non mi era congeniale: Natascia nelle Tre sorelle di Anton Cechov”. Non amava la figura di quella cognata, non voleva farla. Si aspettava che Otomar Kreica, il regista cecoslovacco, le affidasse la parte di una delle tre sorelle, Ol’ga, Masa, Irina: le sembrava che le spettasse. ”Non averne avuta nessuna mi ha provocato un forte trauma, anche se l’interpretazione di Natascia mi ha procurato ampi riconoscimenti”. Si è resa conto, sulla scena, di ”usare”, forse per disperazione, se stessa totalmente, compresa l’incapacità di amare quel ruolo: ”Ce l’ho fatta attingendo in tutta la mia esperienza di donna, facendo diventare Natascia la mia carne, il mio sangue. E mi è tornata in mente la generosa lezione di Giorgio: la generosità è la sua grandissima dote. Il ricordo della conversazione di 10 anni prima è diventato eclatante”. Ripassandosi, come di tanto in tanto facciamo tutti, si è accorta che aveva già trasfuso quegli insegnamenti in alcuni personaggi, negli anni precedenti. Ma non ne aveva preso coscienza. ”Mi si è aperto davanti un mondo straordinario. Gli effetti sono continui”. Quando le sollecitazioni sono così forti, come lo era stata la sollecitazione di Albertazzi, si possono avere esiti assolutamente contrari: ”Il rischio di una involuzione è un rischio concreto. Durante le repliche successive di Il fu Mattia Pascal sono entrata anche in crisi, la prima, perché mi metto sempre in discussione”, racconta. Elisabetta Pozzi rivendica, divagando, di essere stata anche in disaccordo, negli anni, con il suo maestro: ”Per esempio, non riesco a condividere le sue idee politiche. Quando l’ho conosciuto era radicale, e non potevo non partecipare alle sue battaglie civili. Non sono stata capace di stare dietro ad altri atteggiamenti, anche se riconosco la sua coerenza”. Sul teatro, invece, non può che essere d’accordo con lui. ”Di quel colloquio abbiamo parlato molto spesso. [...] Ho avuto altri incontri che mi hanno profondamente toccato e, in qualche misura, cambiato: Carmelo Bene, Walter Le Moli, Luca Ronconi, Peter Stein. Ma quella conversazione con Giorgio resta la lezione”» (Luigi Vaccari, ”Il Messaggero” 17/7/2003) • «Io ho avuto la sensazione di perdermi quando tante volte, dai 15 anni in poi, ma anche oltre i 30, ho perso il controllo delle mie azioni, non sapendo più a cosa attaccarmi, considerando la vita una trappola, arrivando a pensare che l´unica consolazione fosse la morte. Forse dovevo toccare gli estremi, i capricci folli della psiche, per essere poi in grado di riconquistarmi con entusiasmo negli ultimi anni [...] Io col lavoro cerco da sempre di liberarmi di me. A volte mi do fastidio. Quando non m´annoio di me. l´essere umano Elisabetta che mi stanca. Però mi rendo conto che devo accettarmi, che non posso cambiare. Mi fanno male le mancanze delle persone che ho amato. M´è molto servito calarmi nei panni di Sonia in Zio Vanja di Cechov. Capire cos´è una vita privata faticosa, non aiutata. [...] Razionalmente sono agnostica. Ma poi non riesco a non credere. Credo che una certa spiritualità vada alimentata. Faccio di tutto per ascoltare quello che accade dentro di me. E sto cercando di recuperare la generosità interiore di quando ero piccola [...] Gli artisti non possono più perseguire i fini politici degli anni ´70. Ben vengano i modelli coscienziosi di Paolini, Baliani o Celestini, o di Grillo, o di Lella Costa, ma per la maggior parte degli altri oggi serve soprattutto un livello altissimo di qualità. insopportabile che ci si lamenti. Ad esempio ognuno dovrebbe prendersi carico di 3-4 persone giovani all´anno. Io ho cominciato a farlo a Parma [...] Ho fatto incontri fortunati. Ho tentato una via autonoma. E con l´Adelchi accanto a Carmelo Bene ho conosciuto Daniele D´Angelo, musicista diventato mio marito. Condividendo l´idea di una fusione di linguaggi, sperimentiamo assieme vari tracciati congiunti di testi e musica. L´intento è di far volare le parole [...] Faccio 100 addominali al giorno per avere un fiato adatto ad almeno un´ora e mezzo di spettacolo» (Rodolfo Di Giammarco, ”la Repubblica” 27/7/2003).