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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

Biografia di Miuccia Prada

PRADA Miuccia Milano 10 maggio 1948. Stilista • «[...] buona borghesia, quella che gli inglesi chiamano old money people, liceo classico al Berchet, Scienze politiche prima all’università Cattolica poi alla Statale, laurea nel 1973. Negli anni Settanta [...] può concedersi ”una vita spericolata” (radical chic è il termine con il quale venivano bollati quelli come lei dai conservatori della cosiddetta ”Maggioranza silenziosa”). [...] ”Mi piacevano gli oggetti belli, gli abiti di Saint Laurent. Di fuori apparivo così, ma dentro bruciavo di passioni: la politica, il femminismo. Ho avuto la tessera del pci, sono diventata responsabile della Sezione femminile della zona Centro. Ero coraggiosa, o meglio; non me n’è mai importato niente, Andavo anche a distribuire volantini con il tailleur firmato”. Il denaro in casa Prada (Bianchi è il cognome del padre Gino, estraneo alle vicende aziendali: per un certo periodo produceva tosaerba per campi da golf) non manca mai. Nel 1958, però, muore nonno Mario, fondatore nel 1913 della ditta di pelletteria e accessori di lusso con negozio nell’Ottagono della Galleria Vittorio Emanuele; l’attività passa a Luisa, la madre di Miuccia; dopo una quindicina d’anni si sente odore di crisi. ”Da ricchi credo siamo passati a benestanti”, è il suo commento ironico. ”Ma io avevo tanti sogni per la testa. Volevo fare qualcosa di socialmente utile. Sognavo di recitare con Giorgio Strehler. La moda mi piaceva anche allora, da pazzi, ma soltanto pensare di lavorarci mi faceva star male. Stilista? Una cosa da donne, per quel certo tipo di donne; ancora oggi in fondo sento quel complesso”. Alla fine degli anni Settanta, la svolta. La madre si ritira. I tre figli, Alberto, Marina e Miuccia, si occupano dell’impresa. A Miuccia [...] un giorno salta in mente di fare una borsa di tessuto di nylon, leggerissima, chiusa da una cerniera. La mette in vetrina. Qualche giornalista di moda dotata di particolare fiuto nota quella ”stranezza”. Ricorda Irene Silvagni, a quel tempo collaboratrice della rivista americana Mademoiselle [...]: ”Era una specie di bisaccia, inizialmente senza il logo di metallo a triangolo rovesciato. Geniale: il primo anello di una catena di accessori che restano nella storia del costume”. Galeotta fu la borsa ma soprattutto quell’arrogante, determinato, abilissimo pellettiere di Arezzo che Miuccia incontra a una fiera, scoprendo che lui copia le borse ma le fa meglio di tutti. Anche Patrizio Bertelli in quell’incontro fa una scoperta: quella milanese alta poco più di un metro e 60, dall’aria intellettuale, niente trucco, un fare svagato, è una di prima classe da non lasciarsi sfuggire. Come partner di lavoro, inizialmente. Nove anni dopo, però la sposa e lei diventa in tutto la sua metà. Chi li conosce e li ferquenta per lavoro o per amicizia concorda: il fenomeno Prada è fatto di due parti uguali, fuse e convertite come per alchimia, in una lega nobile. ”Ho lavorato spinta da mio marito”, spiega Miuccia. ”Da principio non volevo creare una linea di calzature e non m’interessava entrare nel mercato del prêt-à-porter, ma ogni volta che mi tiravo indietro lui mi costringeva a fare ciò che voleva. una storia terribile, siamo tanto diversi, eppure una coppia ben assortita”. Le tappe per la costruzione dell’impero Prada si susseguono a ritmo impressionante: 1985 le scarpe, ”89 la prima collezione femminile, ”93 la fondazione Prada, ”94 gli abiti da uomo, nel ”97 Prada Sport [...] Ma Patrizio e Miuccia hanno anche trovato il tempo di metter su famiglia. Hanno due figli (Lorenzo [...] e Giulio [...]) e belle case [...] Amano mangiare bene (cucina lui: lei non ha né passione né talento) e parlare di amori comuni: l’arte prima di tutto, poi la musica [...] il cinema, ma anche sport, come lo sci, la vela [...] Tutt’e due detestano la mondanità e un po’ anche i giornalisti [...] Un modo di lavorare singolare. Raccontano i disegnatori che le sono stati accanto nei primissimi tempi: ci chiudevamo nella casa di Arezzo, musica sinfonica a tutto volume e insieme, una trentina, traducevamo in modelli le intuizioni, le idee, le parole di Miuccia [...] ”[...] Io non so disegnare, non ho una scrivania, un ufficio, non seguo un rituale. Ma ho un vero istinto per la moda, ormai mi sono fatta anche una cultura e so bene ciò che voglio e come ottenerlo, Il disegno è la parte meno importante, il modello non mi interessa, non provo i miei vestiti, se potessi non farei nemmeno le sfilate. Creo oggetti, che devono stare bene anche appesi, che si adattano a chi li indossa purché abbia uno spirito indipendente, più curiosità che narcisismo. Non è una moda per donne standard. E piace prima di tutto a me. Io mi sono sempre vestita come si sentivo dentro, senza guardarmi allo specchio, anche se dicevano che stavo da cane”. [...] la moda Prada ha collezionato una sequela di commenti critici. Sulla stampa italiana, soprattutto: abiti da bidella, tuniche sgualcite, costumini da Doris Day, bandoliere da posteggiatore, oggetti fatti da macchine da cucire impazzite, bustini che sembrano manicotti di pecora, capi incompiuti, cerebral kitsch, sandali Cadillac, tailleur di stoffa macerata, giacche suturate da cerotti, stampati orripilanti... ”Questo l’hanno scritto, ma dietro devono averne dette anche di peggio [...] Per anni molti mi hanno ignorata, sostenevano che faceva tutto schifo. Una giornalista tivù è arrivata a confessarmi che non riprende le mie sfilate perché sono noiose. Per farli contenti dovrei mttere in passerella il sedere di Naomi Campbell? Me ne sono sempre fregata, E adesso eccoli lì. vedono i nostri fatturati e fanni la fila per entrare...”. Nelle vetrine dilaga lo stile copiato dal suo. Per i vu’ cumprà un falso Prada resta un bestseller. Per alcuni concorrenti è un tormento l’imprevedibilità delle sue idee, una disperazione costatare che anche le più assurde possono attecchire. Insomma, un confronto inquietante [...]» (Myriam De Cesco, ”Specchio” 8/1/2000) • «[...] A Miuccia Prada il mondo della moda non perdona tante cose, oltre allo straordinario successo che di colpo piombò, alla fine degli anni ”80, tra i grandi stilisti affermati, sconvolgendo il tran tran sia del buon gusto che dell’eccentrico: per esempio la sua capacità di circondarsi di specialisti che non fanno parte del colorato salotto di ”divini” approvati, lanciati, protetti, esaltati, dalle potenti regine, soprattutto americane, della stampa del bel vivere mondano. Sono persone con cui deve sentire delle affinità intellettuali o emotive, quelle cui lei si affida: Germano Celant per l’arte, Marco Muller per il cinema, Rem Koolhaas per l’architettura. [...] Quando Miuccia Prada, assieme al marito Patrizio Bertelli, si insinuò silenziosa tra minimalisti e agghindatori con una moda che sia ai colleghi che alle vecchie giornaliste pareva orribile, il mondo giovane (e ricco) gridò al miracolo: finalmente qualcuno che proponeva vestiti che stando spesso malissimo, parevano tener conto di una misteriosa femminilità non omologata, in cui tante si riconoscevano. Gli stilisti più celebri non si capacitavano, stava succedendo qualcosa di imprevisto, di sfuggente: e tanto per adattarsi all’aria che tirava, ce ne furono che cominciarono a fare dei pradismi: sbagliando clamorosamente perché lei aveva già preso altre strade, ed erano quelle che rinnovavano il suo successo commerciale. La moda non ha le parole per raccontare il lavoro di Prada, che pure viene incensata a bocca aperta: ci vuole un intellettuale per descriverlo, e lo fa Quirino Conti dedicandole un capitolo del suo saggio Mai il mondo saprà e citando ciò che Gertrude Stein diceva di Picasso: ”Chi crea una cosa è costretto a farla brutta”. E allora, neoromantica la sua ricerca, musicale la sua visionarietà, caparbia e vertiginosa la sua determinazione di ”ridefinire una nuova, possibile tecnica di scrittura per la propria modernità”. Dissonante, dodecafonica, antitetica: ”Non solo rischia continuamente l’errore, ma quando lo riconosce non lo corregge, non ritocca il suo lavoro, ed è il suo sbaglio il nuovo”. Attorno alla coppia Bertelli si era formata in passato una rete di pettegolezzi e disconoscimenti, di crolli e disastri. E loro, sordi e muti verso queste storie aliene, continuavano a lavorare: affari, finanza e Coppa America per lui, per lei creatività e nel lavoro ”quell’aspirazione a ben fare, quell’ossessione a comportarmi bene che mi vengono dall’educazione cattolica e comunista”. Insieme la scelta di rivoluzionare i negozi, a New York o a Tokyo o a Los Angeles o ad Arezzo i nuovi uffici e depositi industriali, affidandoli per affinità intellettuale a un architetto sociologo e schivo che non ne aveva mai fatti come Rem Koolhaas o allo studio che ha creato la Tate Modern a Londra, Herzog & de Meuron: luoghi quasi vuoti, dove sulla merce prevale l’architettura, ”dove l’idea è attirare la gente con il mio prodotto per poi dargli altro, un po’ di cultura, di pensiero e quel famoso lusso di cui tanto si parla e che per me è rappresentato da uno spazio vuoto”. [...] ”Ma adesso sono in polemica col mondo dell´arte che sta perdendo ogni contenuto per ridursi alla sola estetica. Ho sempre visto uno scopo politico nell’arte, mi piaceva l’arte povera, l’arte concettuale, adesso di radicale c’è molto poco, siamo diventati decadenti. In più tutto è chiuso nei musei, nelle gallerie, e se certi concetti profondi restano accademia, non arrivano alla gente, non sono vicino alle nostre esigenze quotidiane, a cosa servono?”. è per questo che Miuccia Prada si è avvicinata al cinema, ”per capire cosa si può fare con uno strumento più accessibile, a larga diffusione, e in ritardo mi interessano i videoartisti perché questo mezzo può permettere la moltiplicazione dell’arte e la sua distribuzione di massa”. [...] La stilista che contro ogni immiserimento della immagine femminile si ostina a credere che la dignità delle donne passa anche attraverso una moda che ne rispetti l’intelligenza e il corpo, non è contenta della loro condizione odierna: ”Bisogna riprendere certi discorsi, sento una grande infelicità comune a tante donne: abbiamo abbandonato i nostri antichi valori, la pazienza, la comprensione, per non riuscire a raggiungere quelli maschili, per esempio il potere. Temo che le donne non abbiano ancora chiarito i loro obiettivi”. Per anni il suo lavoro le ha fatto sentire ”la frustrazione della frivolezza, dell’inutile e del privilegio”, ma da un po’ di tempo lo ha rivalutato ”perché, a parte i soldi che mi permette di guadagnare, è il solo che so fare e con grande passione”. Ma tutti questi interessi, il cinema l’arte, i convegni, come quello sulle carceri, il sostegno alla Cattedra Fondazione Prada di Filosofia estetica dell’Università San Raffaele, titolare Massimo Cacciari, servono a vendere più vestiti, più scarpe, più borse? ”Non ho bisogno dell’arte né della cultura né di alcun pretesto per vendere le mie borse. Io le vendo perché sono brava”» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 13/2/2005) • «Nel mio lavoro sono guidata soprattutto da un istinto. L’istinto non è una cosa irrazionale, è la sintesi dell’informazione che si ha nel proprio cervello. Vado a lavorare molto tardi la mattina e smetto alle sei di sera, alle sette al massimo […] Mi piace semplificare e sintetizzare, andare al nocciolo, capire il vero punto della questione. Una cosa non semplice. La semplicità è la cosa più difficile» (Alain Elkann, ”La Stampa” 30/3/1997) • «Sono sofisticata, non snob; cerco un rapporto complesso con l’estetica. Non m’interessa fare una donna sempre sexy perché una donna non ha voglia né tempo di essere sexy sette giorni su sette. Ci sono tanti stati d’animo da assecondare. Poi ognuno ha i suoi amuleti. Mettere qualche gioiello, mi tira su il morale» (Gian Luigi Paracchini, ”Corriere della Sera” 8/7/2002) • «Nel nostro negozio di New York, ogni stagione facciamo un’edizione ”vintage”, di nostre produzioni vecchie; non in un significato museale, nel senso di modelli che hanno importanza ancora oggi perché sono fuori produzione. Un’idea che è piaciuta moltissimo agli americani. Questi sono i negozi nel mondo che chiamiamo epicentri; sono speciali, sperimentali, realizzati da grandi architetti. Ed è anche un sistema di vendita particolare che, per esempio, di sera mostra anche film o altri eventi […] Di solito parlando di bellezza si pensa all’alta moda di Dior. Poi invece siamo passati ai blue-jeans, alla maglietta sporca. […] Fino a tre, quattro anni fa la mia attenzione per l’arte era di tipo storico-culturale: facevamo mostre di artisti della generazione degli anni 60. Da quando abbiamo avvicinato gli artisti contemporanei, dove non ci sono testi o studio cataloghi, abbiamo capito che si può conoscerli solo frequentandoli e coltivando i loro stessi interessi. Per me è una necessità di vita personale e reale» (Alain Elkann, ”La Stampa” 8/12/2002) • «Tutti i colleghi accorciano le gonne sino all’inguine e fan mostrare gambe e sederi? E lei le allunga sino a metà polpaccio oppure nasconde le gambe con affilati pantaloni. Gli altri scelgono tessuti aerei e spalancano i corpetti per mostrare un seno qua e uno là, idea vecchia come il cucco? E lei nasconde il corpo dentro tessuti pesanti e scuri, tagliati in uno stile da pudica signora parigina anni ”50. ”In fondo avevo femminilizzato la moda maschile, e adesso mi è venuta questa idea di indurire un po’ l’eccesso di femminilità artificiale che impera dovunque e che toglie alle donne ogni vera attrattiva”. […] Se deve fare una festa a Parigi sceglie la sede del Partito Comunista ”perché è un magnifico edificio di Niemeyer”, dice di essere immersa nelle contraddizioni e nei conflitti: perché se si diverte molto a creare una moda ultraraffinata, sente però di possedere quella che lei chiama ”la mia anima trash”. E se da una parte è molto attenta a non deludere il mercato, dall’altra è continuamente alla ricerca di ”un pensiero, quel pensiero che il nostro tempo ha perduto con tutte le ideologie e senza il quale il mondo diventa illeggibile”. Il suo rifugio, oltre alla famiglia, agli amici del tempo del liceo e dell’università (tesi di laurea in scienze politiche, Il Pci e la scuola), è la Fondazione Prada» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 28/2/2003) • Non le piace «quando toccano il tasto dell’"intellettuale comunista che fa i miliardi". Per il resto, molte cosiddette critiche per me sono complimenti. Per esempio hanno detto che non faccio vestiti sexy, che faccio abiti da suorina [...] ci rimango male quando i giornali di moda scrivono "Prada osava molto, ora un po’ meno". E’ quell’imperfetto che disturba. Quell’allusione a un eventuale calo di popolarità [...] Mi chiedono sempre: lei è stata comunista da giovane? Io rispondo che tutti, a quell’età, lo sono stati [...] L’unica cosa che non voglio si dica di me è l’età! [...] Facessi un altro lavoro, troverei accettabile esprimere opinioni politiche. Invece così mi imbarazza, mi imbarazza moltissimo. [...] Io sono orfana di pensiero. Io sono stata un’orfana del mondo cattolico prima, del comunismo poi. Ora sono un’orfana della sinistra - dove sono i punti di riferimento, i testi, gli strumenti? Ho letto un solo libro ultimamente che mi ha molto impressionato, perché offre una visione del mondo attuale. Impero, di Toni Negri [...] Quando parto per l’America sono sempre un po’ negativa, poi là mi diverto, discuto. Fra poco finisce che ho più amici là che qua. In un posto come New York la gente è attenta e sa di cosa parla. Arte, architettura, cinema, musica, moda: qualsiasi argomento. In un posto come Savannah, Georgia, dove sono stata di recente, invece sono rimasta colpita dell’innocenza assoluta: sembrano fermi a cent’anni fa [...] Tenevo all’Inter da ragazza, ma adesso ho un figlio milanista e il suo amore per il Milan è tale... [...] Suzy Menkes dell’ "Herald Tribune" scrive sempre che ero brava l’anno prima, mentre l’ultima collezione fa schifo [...] Ascolto poca musica. Genere classico-popolare, tipo Mina-Battisti-cori di montagna [...] Io credo nella "teoria del rotondo": un po’ di tutto, e tutto deve tornare. Ho amiche che hanno deciso che gli uomini sono tutti stronzi, rifiutano la bellezza, non si sposano, non hanno figli: dedicano la vita, che so, ai viaggi. Io preferisco fare tante cose male che una sola bene [...] Convivo tutt’ora con tutti i miei amichetti. Vivo in una famiglia allargata. Tutte le sere ho a casa chi dorme, chi mangia e chi guarda la tele [...] I miei figli mi vedono come un mobile: mi vogliono in casa, ma non devo disturbare. Mi piace, questo» (Beppe Severgnini, "Corriere della Sera" 6/6/2003) • «Miuccia Prada è come non te l’aspetti. Ti prepari all’impatto con un’icona del gusto, alla superbia delle sue scelte concettuali, al distacco del suo trionfo mondano e commerciale. E ti trovi di fronte una donna che ha l’aspetto e i modi di un’amica di famiglia. Provi allora a ricollocarla lassù, tra le idolatrie di questi nostri tempi senza bussola, per ristabilire la necessaria disparità. Ma lei si tiene giù, mestando tra i pensieri e le passioni, tra l’impulso di dire e il dovere di trattenere. E non rinuncia al vezzo di mostrarsi così com’è: una persona intatta nelle sue contraddizioni, una signora della moda che si tiene aggrappata con i denti alla ragazza che fu, continuando a tessere quel filo rosso che le farà un giorno - ne sembra sicura - ritrovare gli entusiasmi della giovinezza. Quando era una figlia della borghesia milanese che vendeva panini ai festival dell’Unità, sfilava in corteo per le vie della città e si laureava in Scienze politiche con una tesi su Il partito comunista italiano e la scuola. Quando si sarebbe offesa a morte se le avessero detto che avrebbe fatto la stilista. Una parola che ancora oggi trova detestabile. veramente così indimenticabile quella stagione? ”Sì, lo è. Averla vissuta mi ha dato una marcia e un rimpianto in più. Non voglio dire che la mia militanza fosse qualcosa di eccezionale perché allora essere di sinistra era più che normale. Solo uno scemo poteva attraversare il Sessantotto e non partecipare allo spirito del tempo”. Forse lei ci metteva qualche fervore in più. Persino D’Alema ricorda il suo impegno nella Federazione giovanile comunista. ”L’ho sentito dire. Ma secondo me D’Alema non si ricorda proprio niente. Non facevo cose memorabili, partecipavo come tutti al grande sogno di cambiare il mondo. E aspiravo a fare qualcosa di utile, come il politico e il medico missionario, non a confezionare vestitucci”. Vestitucci i suoi! Se la sentisse qualche fan di Prada... ”Parlo sul serio. Per una ragazza cresciuta nella grande contestazione femminista, lavorare nella moda era la cosa peggiore che potesse capitare. Io non ho mai deciso di diventare una stilista: mi sono semplicemente ritrovata a fare, mio malgrado, questo lavoro detestabile che mi piace moltissimo fare [...] Come si spiega un conflitto? Tra l’odio teorico e l’amore nella pratica c’è tutto il percorso della mia vita, che è poi una fuga continua da un’appartenenza che non condivido. Credo tuttavia che il mio successo nasca proprio da questo conflitto [...] Poiché detesto pensarmi in questo lavoro, ho evitato le tipiche scelte che rendono famosi: le uscite in passerella, le frequentazioni mondane, le interviste a iosa. Poiché amo fare questo lavoro, ci ho messo tutto l’impegno possibile. Una conciliazione degli opposti che mi ha guidato anche nelle scelte creative. Lo zainetto che mi ha reso celebre in fondo non è altro che una commistione di materiali industriali e di belle passamanerie, di nylon e di coccodrillo. D’altra parte, non mi piace il buon gusto, non mi piace il bello” [...] Il suo zainetto è al Moma di New York. Donne scicchissime adorano solo i suoi abiti. ” ancora un conflitto. La raffinatezza e il gusto mi sono facili, ma mi secca molto arrendermi al loro dominio. Quando lo faccio, vengono fuori collezioni che piacciono fin troppo, come quella cinese di un decennio fa, o quella anni Quaranta, molto femminile. Ma io accarezzo più volentieri la mia anima trash, perché ritengo che, dopo gli anni Sessanta, il buon gusto sia morto e sepolto. Io voglio analizzare il brutto. Lo fanno gli artisti, lo fanno i cineasti, perché non dovrebbe farlo chi crea moda?” [...] il sodalizio industriale con Patrizio Bertelli l’ha trattenuta con i piedi sulla terra. ”Sì, meno male che c’è il Bertelli. Senza di lui non avrei neppure cominciato”. Stiamo parlando di suo marito. Lo chiama spesso per cognome? ”Sempre, come si faceva a scuola. un vezzo che mi piace e che mi tengo [...] Il Bertelli ama il mare e l’avventura, io l’arte e il pensiero. Ognuno dei due accompagna con discrezione le passioni dell’altro [...] fino a qualche anno fa il mio interesse per l’arte contemporanea era un po’ scolastico, di tipo intellettuale. Poi ho cominciato a sentirlo come una necessità personale, quasi fisica. Mi piace imbattermi in nuovi talenti, come mi piace vedere l’ultimo bel film. Oggi per me l’arte è una cosa calda, non fredda [...]”» (Stefania Rossini, ”L’espresso” 13/2/2003).