Varie, 6 marzo 2002
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Prandelli Claudio
• Cesare Orzinuovi (Brescia) 19 agosto 1957. Allenatore. Dall’agosto 2010 ct della nazionale. Ex calciatore. Lanciato dall’Atalanta, dal 1979 al 1985 giocò con la Juventus vincendo tre scudetti (1980/81, 1981/82, 1983/84), una coppa dei Campioni (1984/85), una coppa delle Coppe (1983/84), una Supercoppa (1984), una coppa Italia (1982/83). Ha guidato anche Lecce, Venezia, Verona, Parma, Fiorentina. Nel 2004/2005 dovette rinunciare ad allenare la Roma (che l’aveva preso al posto di Capello) per la malattia della moglie • «[...] la capacità di migliorare il rendimento specifico dei giocatori sui quali ha deciso di puntare. sempre stato così, con Prandelli, fin da quando nel ”98, dopo la non felice avventura a Lecce, viene chiamato da Pastorello e Foschi per riportare il Verona in serie A. Operazione centrata al primo colpo e impreziosita da quanto riesce a fare nel campionato successivo: nono posto in A, 43 punti, un finale straordinario (quindici partite senza sconfitte). Già si intuisce che Prandelli è prima di tutto un bravo insegnante di calcio: promuove Frey titolare (viene dall’Inter, dove era il terzo portiere e parte da secondo); lancia Laursen e Brocchi; ripesca a gennaio Morfeo, che diventa decisivo; fa segnare nove gol a Cammarata, uno anche a San Siro nel 3-3 contro il Milan campione d’Italia. Indotto in tentazione dalle lusinghe di Zamparini, Prandelli accetta di ripartire dalla B. Ottiene la promozione con il Venezia nel 2001 e anche in questo caso non manca di valorizzare alcuni uomini importanti: Arturo Di Napoli, una specie di eterna promessa, segna 16 gol (uno in più di Maniero); Bazzani diventa una pedina fondamentale (35 presenze), come Bettarini (34 gare e cinque gol). Prandelli, bruciato dalla frenesia di Zamparini, compie il salto di qualità, dopo essere stato scelto dal Parma nel 2002. La squadra è buona, fa tremare la Juve nella finale di Supercoppa a Tripoli (1-2), però va assemblata con pazienza, attraverso il miglioramento dei singoli e del gruppo. Adriano ha vent’anni ed è alla seconda stagione di Italia, dopo essersi diviso nella prima fra Inter e Fiorentina: segna 15 gol e comincia a trovare una propria identità anche tattica. Gilardino è reduce da un anno non entusiasmante con il Verona e inizia la scalata. Prandelli ritrova Frey, fa esplodere Mutu (18 gol), lancia Matteo Ferrari e Bonera (32 presenze), valorizza il talento di Nakata (31 presenze e 4 gol). Alla fine, il Parma arriva quinto, piazzamento ripetuto nel 2004, quando Prandelli deve costruire due volte la squadra: la prima con Adriano al centro del mondo e dell’attacco; la seconda, dopo la partenza del brasiliano per l’Inter (gennaio 2004), con Gilardino protagonista, che esplode in maniera definitiva, arrivando a segnare 23 gol in 34 partite. [...] La capacità di far lievitare i talenti ha una doppia origine. Prandelli è stato uno degli allievi prediletti del Trapattoni rampante, in sei anni di Juve (dal ”79 all’85): da lui ha imparato a dialogare con i giocatori, a coinvolgerli nel progetto, a responsabilizzarli, ma anche a svolgere con loro allenamenti personalizzati, per migliorarne le qualità tecniche. I dieci anni trascorsi al settore giovanile dell’Atalanta, sotto la supervisione di Mino Favini, hanno fatto il resto, esaltando le capacità pedagogiche del tecnico [...]» (Fabio Monti, ”Corriere della Sera” 20/9/2005) • «A Verona, dopo la promozione, mi chiesero quello che ogni allenatore vorrebbe: andiamo in giro per l’Italia e cerchiamo di giocare. L’assillo del gioco non è minore dell’assillo della vittoria, anche perché è più difficile da trasmettere. [...] Per me non è da presuntuosi pensare così. Al contrario è presuntuoso chi va in campo credendo di poter rompere tutte le trame offensive avversarie e poi sperare di vincere. [...] Il gioco è un’idea e la possibilità di variarla. Ogni situazione implica che ciascun giocatore debba avere una risposta alle domande che si pongono naturali. Per tutto questo devi lavorare sui concetti, sui principi e sui tempi di gioco. I primi due elementi sono teorici, importanti ma teorici; il terzo è pratico. In questi anni, il calcio è stato molto esasperato: squadre corte, pressing, contropressing. Se non hai tempi di gioco, concetti e principi sono da buttare. [...] Chi ha palla deve avere due o tre soluzioni. Se ci si muove nei tempi sbagliati il possesso palla diventa inutile. [...] La qualità del grande giocatore è indispensabile per il bel gioco. Indispensabile, ripeto. Però il grande giocatore deve sapere che la cooperazione è decisiva nel momento in cui le sue qualità non riescono a emergere. [...] Imposto la partita sugli esterni. Prendiamo Zidane per capirci e l’uno contro uno. Però trovi l’avversario che ti raddoppia sistematicamente, Zidane in quella situazione non riesce a saltare l’avversario e io cosa faccio, non gioco più? Eh no, no, non esiste. Io mi devo organizzare e dire: benissimo, Zidane mi fa l’uno contro uno; mi salta l’avversario e segna un grande gol? Stupendo. Locatelli ne fa fuori tre e segna? Meraviglioso. Tuttavia non lo fa sempre, non può accadere sempre. [...] Nessuna costrizione o violenza. Perché se obblighi il grande giocatore a ricercare lo schema, allora sì lo ingabbi. Ma se all’organizzazione di base aggiungi la sua abilità o l’abilità del reparto, ecco che allora raggiungiamo il punto da cui siamo partiti: il gioco, il bel gioco, quello che cerco e sempre cercherò”» (Giancarlo Padovan, ”Corriere della Sera” 26/1/2001).