Varie, 6 marzo 2002
PROIETTI
PROIETTI Gigi Roma 2 novembre 1940. Attore • «La sua forza è nella capacità di tenere la scena, nell’abilità di legare a sé il pubblico, occhi negli occhi, respiro con il respiro. Gigi Proietti è uno degli ultimi grandi mattatori italiani. Dopo Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman, non esiste un altro che come lui sappia far ridere e un momento dopo piangere, in grado di cantare, ballare, recitare, al teatro come al cinema o in televisione. [...] Proietti il vulcanico, il poliedrico, l’eclettico, così straripante che la sua unica mancanza è proprio il concetto di limite. Proietti sempre sospeso tra colto e popolare, Kean e Petrolini, Cyrano e il Maresciallo Rocca. ”Ecco, il mio teatro, che cos’è? Non è un recital, ma una serie di pezzi mescolati... frammenti messi insieme senza soluzione di continuità per mischiare i vari generi cercando di avvicinare l’alto col basso... alla ricerca di un linguaggio nuovo e diverso per cercare di avvicinarsi alla velocità del pensiero”. Una velocità che dà quasi le vertigini, un cambiamento di registro spiazzante e continuo, tra battute, silenzi [...] Cifra fondamentale della sua comicità è il romanesco, una scelta precisa difesa con orgoglio di appartenenza, oltre gli stereotipi. ”Mi chiedono perché non parlo l’italiano, ”parla più in italiano’ mi dicono. Non è che io non possa, non voglio, perché se io vorrei, ma sì vorrei, ahoo... certo anche il romanesco, quello bello, il vero dialetto romano, non è più quello di una volta... e poi ci sono le canzoni romane. Sono tutte tristi, tutte malinconiche e piene di disgrazie. strano perché i romani, forse coprendo i loro sentimenti, quando parlano sono sempre un po’ graffianti, un po’ ironici, quando cantano invece sono tristi, ma tristi tristi”. Il fatto è che Proietti è meglio sentirlo che spiegarlo. Non per nulla ha fatto sua un’invocazione brechtiana: ”Signore preservami dai contenuti, salvami dal significato, fulminami all’istante qualora fossi preso dalla tentazione del messaggio”» (Raffaella Silipo, ”La Stampa” 3/6/2004). «Facevo l’università, Legge, da fuori corso, e intanto guadagnavo lavorando la notte in un complessino. Alla fine del 1963 mi chiamò Cobelli che metteva in piedi con Maria Monti un kabarett alla tedesca e aveva bisogno di uno che suonasse e cantasse. Debuttai all´Arlecchino, l´attuale Teatro Flaiano, con testi di Flaiano, Arbasino e Vollaro, e rimanemmo tre mesi. Poi Cobelli mi chiamò per un´estiva, gli Uccelli di Aristofane. A fare l´Upupa eravamo candidati io e Piera Degli Esposti. La spuntai. Una botta di fortuna. Piovvero altre offerte. Ci fu il periodo del teatro impegnato, Nella giungla della città di Brecht, Dio Kurt di Moravia, Coriolano, Operetta di Gombrowicz, finché nel ”69/70 arrivò Alleluja brava gente di G&G. Una sterzata che mise in allarme la critica ma... [...] Ma allora io presi coscienza che il pubblico andava a teatro anche in massa. E cercai di mettere insieme gli estremi, sperimentai un teatro popolare con A me gli occhi, please. Rispettando comunque i fondamentali del teatro, che poi ho trasmesso nel mio Laboratorio [...] Dico che l´attore è una forza vitale. Quando vedo spettacoli perfetti di Wilson m´accorgo che lui dirige interpreti straordinari [...] Non è che non mi piaccia Shakespeare o Bernhard, e non è che non abbia fatto Kean, Liolà o Cirano. [...] Ma un Re Lear prima o poi lo vorrei affrontare, con una regia giusta. Intanto m´è piaciuto dividere con 80 mila romani il Don Giovanni [...] mi annoio nei luoghi pubblici. Oscar Wilde disse ”A rivederla signora, ho passato una serata meravigliosa, ma non era questa”. Ho rapporti più disinvolti con le mie figlie» (Rodolfo Di Giammarco, ”la Repubblica” 9/4/2004). «Per mettere a punto certe espressioni ci ho messo ore e anni di tempo. Dilato, asciugo, sfumo, rielaboro. La mia faccia è un grafico senza niente lasciato al caso. Calibro tutto perché mi veda bene anche lo spettatore dell’ultima fila. Devo parlare col corpo, col viso, con gli occhi. […] Mi sento un artigiano […] Ho avuto inizi lunghissimi, ero antipatico per la mia pignoleria, studiavo i fiati sentendo Charlie Parker perché sono nato jazzofilo, avevo in odio il genere dialettale e popolaresco, facevo Gombrowicz, Moravia o la sperimentazione di Quartucci, poi mi chiamarono però a sostituire Modugno in Alleluja brava gente, m’accorsi che si poteva parlare a 1600 persone tutte assieme e allora mi misi in testa di fare un teatro d’autore e d’attore che arrivasse a molti: ci riuscii al Teatro Tenda con A me gli occhi, please, e lavorai anche con Carmelo Bene al Sistina. Ma la televisione non funzionò: dicevano che ero bravo ma non ”bucavo”, non passavo. Sempre perché ero antipatico. E forse avevano ragione. Non a caso Eduardo scelse per un suo seminario il tema della Simpatia. M’è rimasta una scarsa confidenza con la telecamera, con la cinepresa: per curiosità ho fatto film con Citti, Brass, Bolognini, Monicelli e anche con Tavernier o Altman. Diverso è il fenomeno di Febbre di cavallo... […] Il film di Steno ebbe un esito normale. Dopo una quindicina d’anni la pellicola fu però riesumata dalle tv private, e diventò un cult-movie, tale da far nascere molti fan club […] Mi diverte, lo spostamento di prospettive del cinema. Bisogna interiorizzare, come si fa dal vivo in un teatro-studio. una condizione in cui se stai fermo e hai un pensiero nella testa, tutto arriva prima. A me piacerebbe rendere essenziale un cinema del racconto …] Per strada, a Roma, mi chiamano Mandrake, Avvocato, Maresciallo o Toto […] Sto selezionando un gruppo di giovani, e non è facile. Purtroppo il giudizio sarebbe-bravo-ma-gli-mancano-i-fondamentali ha una sua fondatezza. Guardano troppo i cliché televisivi. E dire che io la mia popolarità la devo solo, in origine, al teatro. […] A lungo ho trascurato il mio privato, cercando di convertirlo in attività pubblica, cercando di trasformare gli amici in collaboratori, leggendo qualcosa e immaginando solo spettacoli. Sono stato un maniaco. Ma adesso mi concedo tempi mentali diversi. Ho rammarico per viaggi non fatti. Sconto una fragilità e una timidezza che nascondo molto. Fisicamente do l’impressione d´essere sicuro, e lo sono quando tratto con gli altri, ma per me ho paure terribili» (Rodolfo Di Giammarco, ”la Repubblica” 11/11/2002).