Varie, 6 marzo 2002
RANIERI Claudio
RANIERI Claudio Roma 20 ottobre 1951. Allenatore di calcio. Dalla 4ª giornata del campionato 2011/2012 all’Inter. Dalla 3ª giornata del campionato 2009/2010 alla 26ª del 2010/2011 sulla panchina della Roma • Ex calciatore. Ha giocato in serie A con Roma, Catanzaro, Catania (164 presenze, 4 gol). Allenatore. In Italia ha guidato Napoli, Fiorentina, Parma, Juventus, in Spagna Valencia e Atletico Madrid, in Inghilterra il Chelsea • «Quando il suo ex allenatore Gianni Di Marzio lo vide così impeccabile in panchina, incravattato dentro e fuori, così british in anticipo sul destino londinese e così diverso dal terzinaccio feroce che lui ricordava in campo, gli disse: “Claudio, sembri in una puntata di Dallas!”. L’altro sorrise appena, per non spettinarsi. E da quel giorno non si è spettinato mai. Eppure il vento ha fischiato tanto, attorno a Claudio Ranieri. Uno troppo buono? Mica vero. In molti anni di onorata, rispettosa e rispettata carriera, è riuscito a dissentire e talvolta a litigare con personaggi come Galliani, Maradona, Ferlaino, Cecchi Gori figlio, Gaucci, Jesus Gil y Gil buonanima, Mourinho, Trezeguet (vabbè) ma senza mai offendere, senza lasciarsi trascinare in quella melma cialtrona che è spesso la dialettica del calcio. Potremmo chiamarlo stile. Per arrivare alla Roma partendo da Roma, quartiere Testaccio, oratorio di piazza San Saba, ci ha messo una vita più cinque minuti (anche se c’era stato da giocatore, però di passaggio, solo sei presenze). E in quei cinque minuti ha detto: “È un sogno che si avvera, sono onorato e convinto di poter fare e dare il meglio”. Nessun allenatore italiano ha viaggiato tanto, nessuno ha allenato all’estero più di lui: otto anni. Spagna, Inghilterra, Valencia, Madrid, Londra, luoghi e mondi che aprono la mente. Josè Mourinho lo prendeva in giro per la scarsa conoscenza dell’inglese e gli dava del settantenne bollito; e Ranieri calmo, impeccabile: “Mourinho è un grande allenatore e un grande comunicatore”, prendi e porta a casa. Dopo avere lavorato ottimamente a Napoli e Firenze, e dopo essere andato al Chelsea negli anni sbagliati (cioè prima di Abramovich che ne sfruttò il lavoro per poi cacciarlo: fu Ranieri a volere Lampard), sembrava fuori dal giro e ormai pronto per quelle tristissime trasmissioni tivù dove guardano gli altri giocare e delirano. Ma una chiamata al Parma gli rovesciò il destino: il pettinato miracolò gli emiliani e attirò a sé la nuova Juventus. In teoria, il massimo. In pratica, Tiago e Almiron, Andrade e Poulsen. Buona la prima stagione (terzo posto), un disastro la seconda con sette risultati negativi di fila e un record mondiale: farsi cacciare dal club bianconero che non lo faceva con nessuno da quarant’anni. Gli inglesi lo chiamavano “tinkerman”, che vuol dire pasticcione ma anche colui che aggiusta, uno che con un rocchetto di spago e tre chiodi arrugginiti fa ripartire una Ferrari. Lo canzonavano, ma quando se ne andò lo trattarono come un grande, e lo stesso i tifosi. Però lui è uno che non infiamma mai, forse perché non s’infiamma. Fa sempre bene, mai benissimo. Gestisce, non inventa. Tuttavia non è spocchioso, è gentile, sa stare al mondo, non crede di essere un genio. Pochi tituli, ma la medaglia d’oro delle persone perbene. [...]» (Maurizio Crosetti, “la Repubblica” 2/9/2009) • «Al Chelsea, inteso come società, fanno di tutto per dimenticarlo. I quattro anni di Claudio Ranieri a Stamford Bridge sembrano essere stati cancellati dal Minculpop anglo-russo. A Chelsea invece, inteso come quartiere, l’allenatore romano ha lasciato un grande ricordo. E non solo lì. L’Inghilterra, ha davvero “accolto Ranieri nel proprio cuore”, come dissero alla Bbc. E il grande affetto degli inglesi per l’allenatore del Valencia è dimostrato dal successo di vendita della sua autobiografia, Proud Man Walking, con l’aggettivo “proud”, orgoglioso, a sostituire “dead”, morto, titolo di un film abbinato a Ranieri da uno dei tabloid durante il suo ultimo anno a Stamford Bridge, quando dal primo giorno sembrava che dovesse arrivare qualcuno al suo posto. [...] Dopo un inizio burrascoso l’ex tecnico della Fiorentina era riuscito a costruire un rapporto positivo anche con i giornalisti inglesi, non sempre teneri e mai facili da gestire. Figurarsi i tifosi. Persino quelli rivali sono caduti, colpiti dallo charme e dalla simpatia del tecnico: “Quest’estate ti licenziano”, gli cantavano i tifosi ospiti a Stamford Bridge, posizionati proprio dietro le panchine. La prima volta Ranieri si girò e sorridendo disse: “A maggio, non quest’estate”. Applausi a scena aperta. In Proud Man Wlaking, scritto in collaborazione con Massimo Marianella, l’allenatore ripercorre in un diario scandito dalle partite la sua quarta e ultima stagione al Chelsea. Dalla telefonata ricevuta in macchina sulla via del ritorno a Londra da Roma: “Investitori russi hanno comprato il Chelsea”, giugno 2003, a quella dell’amico Vincenzo Morabito che gli annunciava il licenziamento, circa un anno dopo. [...]» (Filippo Maria Ricci, “Corriere della Sera” 31/1/2005). «In Spagna si pensa quasi solo allo spettacolo, perfino troppo: la supremazia nel possesso palla è considerata già una vittoria. In Inghilterra l’attaccamento alla squadra è tale che il calciatore dà tutto: sa che, comunque vada, verrà applaudito. [...] Da noi si sta 6 giorni con l’ansia della partita: oddio, se perdiamo, ci spaccano la macchina e va già bene se ci fanno solo un processo pubblico. Come fa uno a giocare tranquillo? I miei giocatori dicono spesso: in Italia? Per carità. Non si fa il tifo per, ma sempre contro [...]» (Enrico Currò, “la Repubblica” 13/4/2002). «[...] In Italia novanta minuti servono a dividere gli allenatori in fenomeni e brocchi. Perdi una partita e ti senti dire che è il momento di andare a casa; vinci una settimana dopo e sei il padrone del mondo. Così non si va da nessuna parte […] La differenza non è il calcio, è la gente che sta intorno. […] In Spagna col gioco si insegue lo spettacolo, l’applauso del pubblico e le vittorie. In Italia dopo che hai vinto 4-1, la prima domanda che ti senti rivolgere è perché la squadra si è distratta sul 4-0. È un campionato che domenica dopo domenica è stato ucciso dal tatticismo, dall’assurda idea che sia importante prima distruggere e poi creare» (Gianluca Moresco, “la Repubblica” 11/7/2002).