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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

Ratzinger Joseph

• Marktl (Germania) 16 aprile 1927. Papa. Eletto il 19 aprile 2005, ha preso il nome di Benedetto XVI. Il padre, commissario della gendarmeria, proveniva da una antica famiglia di agricoltori della Bassa Baviera. Sacerdote dal 29 giugno ’51, studiò filosofia e teologia all’università di Monaco. Partecipò al Concilio Vaticano II come consulente teologico dell’Arcivescovo di Colonia, Frings. Il 24 marzo ’77 Paolo VI lo nominava Arcivescovo di München und Freising. Il 28 maggio successivo riceve la consacrazione episcopale. Da Paolo VI creato Cardinale nel Concistoro del 27 giugno ’77, il 25 novembre ’81 diventa Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, scelto da Giovanni Paolo II • «Per anni è stato perseguitato dal nomignolo di Panzerkardinal, e invece Joseph Ratzinger nel suo intimo è timido, pieno di senso dell’umorismo e portato ad una gioiosità mite che gli viene dal carattere bavarese. Guai a confondere i figli della Baviera con i prussiani. Il bavarese ha nell’animo qualcosa di melodico e di cattolicamente misericordioso che i germogli di Prussia non hanno. Duro, comunque, Joseph Ratzinger lo è stato nel suo mestiere di Guardiano dell’Ortodossia. Su questo non si discute e d’altronde, come ammette suo fratello, Joseph non ama la lotta e gli costa combattere, ma quando prende una decisione non deflette. Da Marktl am Inn, il villaggio bavarese dove è nato il 16 aprile 1927 (il giorno di sabato santo, tra turbini di neve) il cammino per arrivare a Roma e al trono di Pietro è stato lungo. E soprattutto inaspettato. C’è all’origine della sua storia una cattolicissima famiglia bavarese. Una madre molto affettiva, un fratello che si farà prete e diventerà direttore dei celeberrimi Piccoli Cantori di Ratisbona, una sorella a lui molto cara. Il padre è gendarme. Ma non ci si immagini un personaggio autoritario che impone il marchio al figlio. Commissario di gendarmeria di provincia, è certamente severo, ma gli ripugna il regime nazista, guarda con ammirazione alla Francia e preferisce lo spirito della piccola patria bavarese alla freddezza prussiana e alla satanica fame di potere hitleriana. Ratzinger ricorda ancora il brivido che passò in famiglia quando Hitler entrò in guerra. Dalla sua infanzia il nuovo Pontefice si porta l’amore per la musica. Mozart, confessa apertamente, ha il potere di commuoverlo e anche di immergerlo nel dramma dell’esistenza umana. E fra le sue letture giovanili spicca il Lupo della steppa di Hesse, che lo colpì soprattutto perché il nichilismo del protagonista lo fece presto riflettere sul fatto che l’esaltazione dell’io, condotta all’estremo, finisce per capovolgersi nella sua distruzione. Fra i suoi lati meno conosciuti c’è anche il gusto della poesia. Sì, ne ha composte più d’una. Liriche dedicate alla natura, alle feste religiose, forse un po’ sentimentali, ma rivelatrici della sua sensibilità. Resta della sua giovinezza l’esperienza militare a sedici, diciassette anni quando fu aggregato ad una batteria contraerea (ma non gli toccava di sparare) e la visione dei bombardieri alleati che piombavano su Monaco. Finché arriva, come una liberazione, il crollo della Germania nazista, che per lui significa per breve tempo l’internamento in un campo di prigionia americano. La Baviera è importante nelle radici di Joseph Ratzinger. Significa una religiosità popolare viva e piena di colore, di musica, di architetture barocche, di pellegrinaggi fra i campi, di preghiera intensa, di edicole di santi ai crocevia e di madonne misericordiose come nel sud. Se Karol Wojtyla da giovane sognava di fare l’eremita, Joseph Ratzinger avrebbe preferito fare per sempre il professore e il teologo. Libero docente di teologia all’età di trentadue anni, insegna Dogmatica e Teologia a Frisinga, passando poi a Bonn, Muenster e Tubinga. Lezioni e libri sarebbero stato il suo destino se nel 1962 l’arcivescovo di Colonia cardinale Frings non l’avesse portato con sé a Roma come consulente per il concilio Vaticano II. È la stagione ”rivoluzionaria” di Ratzinger. Hans Küng è suo maestro, Karl Rahner suo compagno di impegno. I due appartengono alla prima linea della teologia critica e fanno parte di quel drappello internazionale di teologi, che forniscono all’episcopato tedesco, francese, belga e olandese (che in Italia trova un’eco negli arcivescovi Montini e Lercaro) le munizioni intellettuali e dottrinali per rovesciare l’impostazione conservatrice dei documenti conciliari preparatori, redatti dalla Curia vaticana, e spingere il concilio nel mare aperto delle riforme. Sono gli anni in cui rimprovererà alla gerarchia ecclesiastica di agire con ”le redini tirate e con troppe leggi”. Qualche anno dopo Ratzinger frenerà. Spaventato dal riformismo radicale dei teologi innovatori, e anche sotto lo shock dell’estremismo studentesco cristiano del ’68, che nelle università tedesche attacca violentemente la religione come puntello delle ingiustizie capitaliste. Il prete professore non dimenticherà mai l’effetto sconvolgente prodotto dalla vista di un volantino, che proclama ”Maledetto Gesù”. Risale a quegli anni la diffidenza radicata verso ogni forma di marxismo. Gli anni Settanta lo vedono molto critico nei confronti di ciò che chiama ”lo spirito negativo del concilio”, i cambiamenti che non condivide, gli esiti di ”declino” che gli pare di intravedere nella vita della Chiesa. Ratzinger critica la decisione di abolire la messa tridentina e la riforma liturgica che mette l’altare al centro dell´assemblea con il sacerdote rivolto ai fedeli. Nel vecchio modello, spiega, tutti guardavano verso Cristo, il sole che sorge. Adesso, protesta, la mensa eucaristica è incentrata sul prete e la gente. In questo clima di contrapposizione al movimento postconciliare Ratzinger fonda insieme al famoso teologo de Lubac e con l’appoggio di don Giussani leader di Comunione e liberazione la rivista Communio, contraltare alla rivista dei riformatori Concilium. Piace a Paolo VI questo teologo, protagonista del concilio e avversario delle sue derive più radicali. Così papa Montini, a sorpresa, lo promuove alla cattedra vescovile di Monaco di Baviera e gli impone la berretta cardinalizia. È il 1977. Un anno dopo Ratzinger sarà tra i grandi elettori, che fanno pontefice l’arcivescovo di Cracovia Karol Wojtyla. Alla vigilia del conclave il cardinale teologo mette in guardia in una lunga intervista dal pericolo che marxismo nella sua versione eurocomunista possa in qualche modo influenzare le scelte della Chiesa. Tre anni dopo Giovanni Paolo II lo chiama in Vaticano all’incarico più importante - dopo quello di Papa - nella Curia romana: capo dell’ex Sant´Uffizio ovvero, (secondo la nuova terminologia) prefetto della congregazione per la dottrina della Fede. Tra Wojtyla e Ratzinger si crea un legame fortissimo, un rapporto di stima e di affetto profondo al punto che negli ultimi anni Giovanni Paolo II respingerà sistematicamente le richieste di Ratzinger di ritirarsi in pensione. Per Giovanni Paolo II il prefetto della congregazione per la dottrina della Fede è il baluardo della dottrina di cui può fidarsi senza esitazione. Wojtyla viaggia e inventa gesti profetici, e intanto in Vaticano il porporato tedesco gli sgombra il campo di tutti i teologi critici: da Schillebeeckxs a Boff, a Curran, a tanti altri allontanati dalle cattedre delle università cattoliche o privati del diritto di pubblicare libri e tenere conferenze. Nel corso degli anni il cardinale combatte sistematicamente la teologia della liberazione, accusandola di subordinazione al marxismo, sferra un duro attacco ai regimi dell’Est definendoli ”vergogna del nostro tempo”, pronuncia tutti i veti che Giovanni Paolo II ritiene necessari per mantenere l’ordine nella Chiesa cattolica. No al sacerdozio delle donne, no ai preti sposati, no ad un ruolo eccessivo dei laici nella gestione delle comunità cristiane, no alle coppie omosessuali. Per papa Wojtyla, che usa un linguaggio meno aggressivo, il cardinale è un partner perfetto nella grande partita contro il socialismo reale e, in America latina, contro i movimenti cristiani rivoluzionari o semplicemente di sinistra. Sul piano interno Ratzinger realizza per il pontefice polacco l’obiettivo di restaurare una severa linea dottrinale attraverso la redazione di un Catechismo universale, destinato a servire per imprimatur papale come base di qualsiasi catechismo nazionale. Qualunque cosa facciano gli episcopati del mondo in campo dottrinale, catechetico o liturgico, interviene a controllare il prefetto della congregazione per la dottrina della Fede. Suscita scalpore negli anni Novanta il suo documento - debitamente approvato da papa Wojtyla - che esalta la primazia della funziona salvifica di Cristo su ogni altra religione e la superiorità della Chiesa cattolica - in quanto custode della pienezza e della purezza della fede - rispetto alle altre Chiese cristiane. Dominus Jesus si chiama il testo e la sua pubblicazione provocherà seri disturbi nelle relazioni ecumeniche. Eppure, con il procedere del tempo, Joseph Ratzinger diventa un interlocutore sempre più interessante anche per il mondo laico. La sua volontà di instaurare un dialogo tra fede e ragione senza cancellazioni di identità suscita rispetto e attenzione tra gli intellettuali laici. Il suo approccio alla crisi del cristianesimo nella società contemporanea non è mai banale e la riflessione sulla marginalizzazione della fede nella società secolarizzata non è mai priva di spunti anche autocritici. Lucida e fine è la sua sensibilità verso le culture nazionali, specie quelle extra-europee, nell’era della globalizzazione. Non gli sfugge che il livellamento occidentalizzante può provocare frustrazioni, radicalismi, persino scoppi di terrorismo in varie parti del mondo proprio perché non si attiene al rispetto delle persone e delle tradizioni nazionali. Negli ultimi anni il tema che lo prende di più è quello del rapporto tra identità e dialogo, difesa della cristianità e rapporto con la società contemporanea in un contesto in cui il relativismo minaccia di distruggere qualsiasi tavola di valori. Giuste o sbagliate che possano rivelarsi le sue risposte, il suo slancio religioso e il suo vigore intellettuale hanno affascinato, turbato e convinto il primo conclave del terzo millennio. Al momento di decidere è a lui che i cardinali di tutto il mondo hanno affidato il timone della barca di Pietro» (Marco Politi, ”la Repubblica” 20/4/2005).«[...] Da piccolo, quando tutti noi sogniamo di fare il giardiniere, il pompiere o il pilota, lui s’immaginava un futuro da imbianchino. Invece poi fu la vocazione di prete, divenne teologo conciliare nelle fila dei riformisti più ribelli, ma subito dopo sterzò fra gli allarmisti frenatori e fu scelto da Paolo VI come arcivescovo di Monaco, finchè approdò con Karol Wojtyla alla guida della Congregazione per la dottrina della fede, l’ex Sant’Uffizio. Anno del Signore 1981: da allora è sempre rimasto al timone, vigilando sulla ”dottrina della fede”, ispezionando e condannando, spargendo veti e istruzioni. Braccio destro di totale fiducia di Giovanni Paolo II. [...] occhi azzurri da cui emana uno sguardo timido, sorriso appena accennato, ciuffo bianco sotto la mozzetta rossa, pronuncia scandita che rivela volontà inflessibile. Ha processato fior fiore di teologi critici e combattuto la teologia della liberazione, ha detto no al sacerdozio delle donne, condannato irrevocabilmente l’omosessualità, negato il carattere pieno di Chiesa alle confessioni protestanti, vietato la comunione ai divorziati risposati, respinto un ruolo attivo dei laici nella guida della comunità dei fedeli. E tuttavia rifiuta l’immagine arcigna. ”Io non sono il Grande Inquisitore né mi sento una Cassandra, quando esamino i fattori negativi nella Chiesa”, ama dire di sé stesso. Semmai, insiste, si sente vicino ad una religiosità ”colorata, barocca, mozartiana” come quella della sua natia Baviera. Però ammette (succede tra mura ben protette) di andare talvolta in ”collera” per le cose che non vanno. [...]» (Marco Politi, ”la Repubblica” 16/1/2005). «’La bontà implica anche la capacità di dire no”. Non avesse già un suo motto sotto lo stemma cardinalizio (”cooperatores veritatis”) vita, opere e carattere di Joseph Ratzinger potrebbero sintetizzarsi così. Spiega il cardinale: ”Una bontà che lascia correre in tutto non fa bene all’altro”. L’uomo non ha mai ”lasciato correre”. Le sue posizioni sono sempre nette come lo sguardo azzurro e il taglio dei capelli candidi. Forse perché il Prefetto per la Congregazione per la dottrina della fede non ha avuto inizi facili e ha preteso molto da se stesso. Nasce il 16 aprile 1927 in una famiglia di agricoltori della Bassa Baviera, certo non ricchi. Suo padre è commissario di gendarmeria e per un breve periodo le difficoltà economiche fanno del genitore il suo insegnante. Un rapporto padre figlio che segna un’esistenza: la chiave dei ”no” magari è lì. Joseph diventa sacerdote nel 1951, si laurea in teologia a Frisinga, poi insegna a Bonn, quindi a Münster e a Tubinga, negli anni bollenti intorno al ’68. Uno dei suoi colleghi professori si chiama Hans Küng, che nel 1979 verrà privato del diritto di insegnare ”per conto della Chiesa”. Tra i due i rapporti sono buoni. Poi precipitano. Nel 2000, quando il cardinale firmerà il documento ”Dominus Jesus” in cui sosterrà che ”solo nella Chiesa cattolica c’è la salvezza eterna” suscitando l’ira degli evangelici, Küng dirà: ”La dichiarazione dell’ex Sant’Uffizio è un miscuglio di arretratezza medievale e mania di grandezza” . Tra gli allievi di Ratzinger a Tubinga c’è invece il brasiliano Leonardo Boff: anni dopo l’insegnante romperà clamorosamente con l’allievo, diventato capofila di una teologia della liberazione che il Prefetto intende stroncare. Nel 1962 approda a Roma come consulente teologico del cardinal Frings al Concilio Vaticano II e diventa, a 35 anni, quasi una star del settore. Nel 1969 è ordinario di Dogmatica a Ratisbona, nel 1977 arrivano da Paolo VI il cardinalato e la guida della diocesi di Monaco. Ma è Giovanni Paolo II a trasformarlo, nel 1981, nell’uomo chiave dell’ortodossia e della teologia. A fare di lui il ”cardinal no” dell’immaginario collettivo. I no sono innumerevoli, dal 1981 a oggi. No al sacerdozio delle donne. No al matrimonio dei preti. No all’omosessualità. Dice: ”Io non sono il Grande Inquisitore né mi sento una Cassandra”. Infatti ama argomentare e difendere i suoi no sempre nel nome di quella che per lui è la verità citata nel motto cardinalizio. Prendiamo quel no al comunismo, pronunciato nel 1984, quando la caduta del muro di Berlino è ancora lontanissima: ”Una vergogna del nostro tempo, i regimi comunisti arrivati al potere in nome della liberazione dell’uomo”. Mezzo Est minaccia di rompere i rapporti diplomatici con la Santa Sede, il Segretario di Stato Agostino Casaroli quasi si dimette. Poi tutto rientra, Ratzinger si assume in toto la paternità delle sue affermazioni. Anni dopo arriverà un no anche al capitalismo selvaggio del dopo comunismo, in perfetta linea con Giovanni Paolo II: ”Il crollo del comunismo non certifica automaticamente la bontà del capitalismo. Occorre combinare la libertà del mercato col senso di responsabilità dell’uno verso l’altro”. Tesi ripetuta, a scanso di equivoci, in più di un’occasione pubblica. Sul no al sacerdozio femminile ecco un passo del documento firmato nel luglio 2002, quando un vescovo scismatico ordina sette ”sacerdotesse” su una motonave sul Danubio: ”Simulazione di un sacramento, invalida e nulla, costituisce un grave delitto contro la divina costituzione della Chiesa”. L’omosessualità è ”disordine oggettivo” : la Chiesa deve ”accogliere con rispetto, compassione e delicatezza” le persone omosessuali ma - attenzione! - ”richiamandole a vivere in castità”. Per questo nel 2003 il cardinale chiede a tutti i parlamentari cattolici del mondo di non votare leggi favorevoli alle nozze di coppie gay: ”Concedere il suffragio del proprio voto a un testo legislativo così nocivo per il bene comune della società è un atto gravemente im morale”. Al cardinale non piace molto nemmeno il rock. Così spiega in un suo saggio nel febbraio 2001: ” espressione di passioni elementari, che nei grandi raduni di musica hanno assunto caratteri culturali, cioè di controculto, che si oppone al culto cristiano”. Ratzinger si preoccupa immensamente, soprattutto negli ultimi anni, della Chiesa (’una barca che fa acqua”) . Ecco il drammatico passaggio del commento all’ultima Via Crucis del Venerdì Santo che un Wojtyla ormai morente gli affida: ”Quanta sporcizia c’è nella Chiesa e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a lui. Quanta superbia, quanta autosufficienza”. Lo ripete nella veglia pasquale: ”Svegliamoci dal nostro cristianesimo stanco, privo di slancio”. Parte della crisi, per Ratzinger, si deve all’eccesso di ”creatività” di alcuni sacerdoti che trasformano le messe in show. Il suo disamore per la riforma liturgica di Paolo VI è noto: ”Si fece a pezzi l’edificio antico e se ne costruì un altro, sia pure con materiale dell’antico... Riforma intrapresa troppo frettolosamente e spesso limitata all’esteriorità”. Anche qui c’è una ragione ben precisa: il sacerdote, nel nuovo rito, guarda i fedeli. In questo modo ”la comunità non è più rivolta verso il sole che sorge, cioè verso Cristo, ma si chiude in se stessa”. E anche la croce, ora posta di solito su un lato, dovrebbe ”trovarsi al centro dell’altare ed essere il punto cui si rivolgono lo sguardo tanto del sacerdote che della comunità orante”. La forma è sostanza, insomma, per Ratzinger. Soprattutto quando c’è di mezzo una Chiesa che ”fa acqua”. C’è poi il Ratzinger dialogante, per esempio col mondo laico. [...] Ugualmente c’è il Prefetto pronto ad ammettere gli errori storici: ”I roghi degli eretici sono una colpa che ci fa pensare e deve guidarci al pentimento”, l’Olocausto ebbe ”una certa insufficiente resistenza da parte di cristiani per colpa dell’eredità antigiudaica presente nell’anima di non pochi”. Negli ultimi tempi il cardinale mette in discussione anche l’eccessivo verticismo dell’organizzazione del papato: ”Si può pensare a forum sovraregionali, a livello continentale, che si facciano carico di funzioni svolte da Roma”. La personalità ratzingeriana è dunque fortissima. E la gente avverte istintivamente il suo carisma. [...]» (Paolo Conti, ”Corriere della Sera” 4/4/2005). «[...] prefetto della congregazione per la dottrina della fede, supremo custode del dogma. [...] esercita un potere che non ha precedenti nella storia. Prima di lui i capi del Sant’Uffizio rispondevano a quesiti su singoli casi dottrinali, inquisivano i teologi fuori linea. Ratzinger fa questo e molto di più. Emette documenti dottrinali che spettano di regola al papa. Scrive encicliche, cioè lettere circolari ai vescovi di tutto il mondo, altra tipica prerogativa papale [...] Il pronunciamento dogmatico più clamoroso a firma di Ratzinger è stata la dichiarazione ”Dominus Iesus” del 6 agosto 2000, sulla fede in Cristo come unica, insostituibile via di salvezza per ciascun uomo. Scatenò una tempesta di critiche anche da parte di cardinali e arcivescovi di gran nome, da Carlo Maria Martini a Edward Cassidy, da Karl Lehmann a Walter Kasper, convinti che il papa sarebbe poi intervenuto a smussare e mediare. Avvenne il contrario. Giovanni Paolo II coprì integralmente Ratzinger con la sua autorità. Disse che la ”Dominus Iesus” era stata da lui ”voluta e approvata in forma speciale”. Da allora il potere di Ratzinger è stato in costante crescendo. Quando nel 2002 compì 75 anni, invece che congedarlo il papa lo riconfermò senza limiti di tempo. Non solo. [...]» (Sandro Magister, ”L’espresso” 28/10/2004). «Molto citato, poco conosciuto, passerà certamente alla storia come uno dei più acuti uomini di Chiesa della cerchia di papa Wojtyla, che lo volle giovanissimo (ad appena cinquattaquattro anni) nel posto-chiave della curia vaticana: la congregazione per la Dottrina della fede. Nominato nel 1981, egli ha accompagnato e continua ad accompagnare Giovanni Paolo II per tutto il suo lungo regno, diventandone l’altra faccia. Se Karol è mediatico, Joseph è schivo, dove il primo è profetico, il secondo è metodico, mentre all’(apparente) irruenza del pontefice corrisponde la freddezza (apparente) del porporato. Nel suo intimo il cardinale tedesco è invece una persona delicata, arguta, che ama suonare il pianoforte, come racconta bene Andrea Tornielli nella sua biografia attenta e precisa: Ratzinger, custode della fede. Epiteti logori come Panzerkardinal non gli rendono affatto giustizia. Più illuminante è il suo motto episcopale ”Cooperatores veritatis”, collaboratori della verità, che ne delinea l’aspirazione a farsi - come poi è accaduto - difensore dell’identità di Santa Romana Chiesa. A questa battaglia si è dedicato senza risparmiarsi, fino allo scontro con altre personalità o movimenti impegnati ad affermare identità e ”verità” diverse. Certamente il suo impegno è stato essenziale per tracciare i contorni e fissare i paletti della Chiesa che Giovanni Paolo II aveva in mente. Andrea Tornielli documenta esaurientemente come colpo su colpo il cardinale abbia combattuto tutto ciò che Wojtyla considerava pericoloso: l’accordo-compromesso fra anglicani e cattolici del 1982, la possibile riabilitazione della massoneria, i teologi politici come Leonardo Boff o dissenzienti in tema di etica sessuale come Charles Curran. In questa difesa dell’identità cattolica tradizionale si iscrivono anche i suoi tanti no: all’omosessualità, alla distribuzione della comunione ai divorziati risposati, ai consultori cattolici che danno certificati utilizzabili per l´aborto, alle donne prete. Resistere per lui non ha mai rappresentato un problema. ”Per me la bontà implica anche la capacità di dire no, perché una bontà che lascia correre in tutto, non fa bene all’altro”, ha dichiarato recentemente. Identità - per il cardinale e il suo Papa - implica necessariamente autorità e qui, lo ammette lui stesso, il suo mestiere di controllore della dottrina diventa difficile, ”perché il concetto di autorità quasi non esiste più”. Fondamentale per il tornante del pontificato wojtyliano (il crollo del comunismo) è stata la sua collaborazione con Giovanni Paolo II nel combattere la Teologia della liberazione. ”Con il Papa abbiamo cercato la strada giusta”, ha raccontato alla Radio vaticana il giorno del suo compleanno. Eppure, ora che questa ”eresia” appare debellata, l’episcopato latino-americano, moderati compresi, è sconvolto dalla brutalità con cui il liberismo selvaggio tiene centinaia di milioni di diseredati nella fossa della povertà. Di lui si conosce il rigore e troppo poco l’anticonformismo: l’insofferenza per le burocrazie ecclesiastiche, il fastidio per il sovraffollamento degli appuntamenti giubilari, il rifiuto verso il carrierismo dei vescovi. Tagliente è la sua critica alle liturgie-spettacolo. ”La liturgia non è uno show - afferma - è del tutto contraddittorio introdurvi delle pantomime in forma di danza, che spesso finiscono poi negli applausi”. Là dove irrompe l’applauso, conclude severamente, ”si è di fronte al segno sicuro che si è del tutto perduta l’essenza della liturgia, sostituita da una sorta di intrattenimento a sfondo religioso”. Pensata come polemica contro certi parroci modernisti, la stoccata finisce per colpire gli show pacchiani di tante messe papali» (Marco Politi, ”la Repubblica” 18/4/2002). «[...] nasce a Marktl am Inn, nella diocesi di Passau, da una famiglia solidamente cattolica. La guerra lo coglie poco più che adolescente, e lo obbliga comunque a vestire, sia pure per poco, l’uniforme; lo mandano a fare il servente in una batteria contraerea, e poi lo mettono a lavorare ai telefoni di un centralino. Una breve parentesi, e poi riprende a studiare: filosofia e teologia nell’università di Monaco, e alla scuola superiore di Frisinga. Nasce la vocazione, e il 29 giugno del 1951 avviene l’ordinazione sacerdotale. una carriera evidentemente accademica, la sua: nel ’53 ottiene il dottorato, e quattro anni più tardi è chiamato ad insegnare. Un vero e proprio ”cursus honorum” universitario: Frisinga, Bonn, Munster, Tubinga e Ratisbona. A Tubinga conosce Hans Küng, protagonista con lui in anni recenti di polemiche infuocate, e ha come allievo Leonardo Boff, il religioso francescano di cui diverrà ”giudice” in un famoso processo alla Congregazione per la Dottrina della Fede nel 1984. Ma torniamo alla fine degli Anni 50, e all’inizio degli Anni 60: stanno maturando tempi, uomini e idee per il Concilio Vaticano II, e troviamo il professor Ratzinger consulente teologico del cardinale Frings. il 1962, Joseph Ratzinger ha trentacinque anni, ed appare come uno dei ”maître a penser” di punta della nuova stagione della Chiesa, aperto al vento nuovo che sta soffiando sulla barca di Pietro. Si fa notare, eccome; e infatti nel 1969 arriva la nomina a ordinario di Teologia Dogmatica a Ratisbona; e qualche anno più tardi, nel 1977, Paolo VI lo pone alla guida della diocesi di Monaco, una diocesi che porta con sé per tradizione la ”berretta” cardinalizia. Sono questi gli anni cruciali della maturazione e dello sviluppo di Joseph Ratzinge  ovvio che la difesa dell’ortodossia, nel corso degli Anni 80, ne fa il bersaglio preferito di ogni possibile ”sinistra”, cattolica e non, un’eredità che si porta ancora adesso fra le pareti della Sistina, come l’ultima risacca di un’onda lunga, molto lunga. ”Una vergogna del nostro tempo, i regimi comunisti arrivati al potere in nome della liberazione dell’uomo”, disse nel 1984; vent’anni più tardi abbiamo sentito persone che allora si scandalizzarono esprimere, sostanzialmente gli stessi concetti. Ma tant’è, ”pas tout verité est bonne a dire”, affermano i francesi, e soprattutto bisogna scegliere bene i tempi, per lanciare strali. Ratzinger, all’opportunità dei tempi, non ha mai molto pensato. Così ha criticato a più riprese le innovazioni liturgiche, o almeno alcune, del Concilio. Fra queste, il fatto che durante la messa fedeli e sacerdote siano rivolti l’uno verso l’altra. Così ”la comunità non è più rivolta verso il sole che sorge, cioè verso Cristo, ma si chiude in se stessa”. Nei riti orientali non è così, e a ragione. La lista delle cose politically uncorrect pronunciate dal cardinale è lunghissima. [...]» (Marco Tosatti, ”La Stampa” 16/4/2005).