Varie, 6 marzo 2002
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Reagan Ronald
• Tampico (Stati Uniti) 6 febbraio 1911, Bel Air (Stati Uniti) 5 giugno 2004. Presidente degli Stati Uniti dal 1981 al 1989. In gioventù era stato attore. Pur devastato (non nel fisico) dal morbo di Alzheimer, è il terzo presidente degli Stati Uniti ad aver vissuto più di novanta anni: prima di lui ci erano riusciti solo John Adams (nell’Ottocento) ed Herbert Hoover (nel Novecento). Un sondaggio su 78 storici l’ha definito il presidente «più sottovalutato della storia» • «Nel 1989 abbandonò Washington come c’era arrivato otto anni prima: con il metaforico cappello dell’asino in testa, ”simpatico” ma asino disse il leader democratico Clark Clifford, e in odore di scandalo. La Casa Bianca era stata inquisita per i finanziamenti clandestini ai ”contras”, i ribelli sandinisti in Nicaragua: il deficit dello Stato era enorme; l’Urss sembrava più pericolosa che mai; il progetto delle ”guerre stellari” era fallito. I media scrissero che si era confermato un peso piuma intellettuale, non aveva fatto il presidente, ne aveva recitato la parte secondo il copione di un gruppo di potenti ministri e consiglieri. L’ultimo decennio ha modificato questa percezione. L’America gli ha attribuito il crollo del muro di Berlino – avvenne otto mesi dopo la sua uscita di scena – e quello successivo dell’Urss. E ha individuato nella sua politica economica, dalla rivolta contro il fisco agli investimenti nel settore hi-tech, le fondamenta del ”miracolo” di cui godette Bill Clinton e del risanamento della pubblica finanza» (’Corriere della Sera”6/2/2001). «Notano gli storici della presidenza americana che nessun altro era stato longevo come ”RR”, mancato all’età quasi biblica di 93 anni. Gli ultimi dieci anni della sua esistenza, da quando nel 1994 annunciò il suo Alzheimer con l’ammirevole impudicizia di una nazione dove sulla salute dei simboli politici non si può mistificare né speculare, sono stati soltanto un lungo addio dal palcoscenico che tanto amava. Ma la sua agonia nel silenzio e dunque nel mistero, è stato il finale più coerente con una vita ancora tanto misteriosa quanto importante. Perché l’uomo che cambiò il corso della storia americana e il crollo di quel Muro che aveva invocato, è stato venerato e maledetto, amato con un’intensità quasi carnale e altrettanto sensualmente detestato da chi lo giudicava un pericoloso burattino esaltato dalla propria autorità, non era mai completamente uscito dall’ambiguità tra ”personaggio” e ”persona”. Un´’ambiguità sulla quale lui stesso aveva giocato, con quell’autoironia che sempre segnala intelligenza. Il titolo della sua prima autobiografia, che sembra anticipare sia l’ambivalenza del giudizio su di lui che lo smarrimento degli ultimi anni di vita, è infatti: Where is the rest of me?, dov’è il resto di me? Ronald Reagan era un bambinone, letteralmente. Aveva fatto molto soffrire la religiosissima madre, nascendo in una cittadina dell’Illinois, Tampico, al peso considerevole di cinque chili, presagio della sua statura da adulto, ben oltre il metro e novanta. Il suo cursus di modestissimi honorum fu quello di un figlio qualsiasi del Mid-West provinciale negli della Grande Depressione, con una madre devota e un padre alcolizzato, senza supporti tribali come i Roosevelt, i Kennedy o i Bush, senza gli eccellenti pedigree accademici di un Clinton e senza il prestigio marziale di un Eisenhower. Ma con un talento che ancora i tempi non riconoscevano in tutte la sua potenza, la capacità comunicativa, il ”carisma” si sarebbe detto più tardi, che lo facevano apparire sincero anche quando mentiva. In una sua celeberrima frase, lo aveva teorizzato lui stesso, spiegando a un giovane deputato repubblicano neo eletto, con la testa lievemente ripiegata e il suo sorriso vago: ”Figliolo, in politica la sincerità è tutto, se riesci a fingere di essere sincero, ce la farai sempre”. Finzione e sincerità, recitazione e convinzione finirono per intrecciarsi in lui inestricabilmente. L’uomo divenne il personaggio, e il personaggio l’uomo, facendo impazzire chi tentò per 90 anni di separare le due facce della stessa personalità. Reagan era sinceramente convinto di avere fatto il radiocronista di baseball, da giovane, quando in realtà leggeva i flash di agenzia con i punteggi e inventava le azioni, accompagnando le parole con i rumori registrati della folla e il ”pok” secco della mazza contro la pallina. S’inalberava quando gli avversari gli rimproveravano di avere ”marinato” la guerra e ricordava con orgoglio di avere raggiunto il grado di capitano nell’esercito, trascurando di aggiungere che il reparto nel quale aveva combattuto senza sparare un colpo era il Motion Picture Battalion, il battaglione di gente del cinema schierati a Hollywood per produrre film di propaganda. Ma di nuovo la self deprecation, la capacità di non prendersi sul serio, gli faceva perdonare tutto. Fu democratico populista, rooseveltiano, prima di convertirsi alla destra repubblicana maccartista, quando fu scelto come presidente del sindacato attori. Carte segrete dell’Fbi riesumate recentemente lo raccontano come un delatore, che additava colleghi nel mondo del cinema al cacciatore di rossi, al senatore McCarhty, ma di nuovo l’episodio tenero interviene per ammorbidire un periodo duro e vergognoso della sua vita. Proprio come presidente del sindacato intervenne per salvare una giovane attrice accusata di essere ”comunista” e prossima a perdere il lavoro. Si chiamava Nancy Davis e lui garantì per lei, forse con qualche ”conflitto di interessi” privati, perché Nancy divenne poco dopo la sua seconda moglie e futura First Lady, in una storia d’amore indiscussa e tenace, destinata a durare più di quarant´anni e trasformare la mediocre attricetta nella più feroce delle sue infermiere e della custodi del mito Reagan, davvero fino a quando morte non li ha separati. Era lei, quando ancora l’Alzheimer lasciava qualche spiraglio di luce nella nebbia, a ordinare agli agenti del servizio segreto di sparpagliare attorno alla piscina sacchi di foglie secche perché il marito le rastrellasse la sera. La beatificazione politica, che la vecchia destra repubblicana prodotta dal senatore Goldwater e rimasta poi orfana di veri leader fino a lui, è, come tutte le agiografie, eccessiva e sospetta, fino all’apoteosi dell’Uomo che Vinse la Guerra fredda praticamente da solo, dimenticando lo stato di avanzata putrefazione dell’’Impero del Male” (suo celebre slogan) e la spallata decisiva e involontaria che Mikhail Gorbaciov diede al cadavere sovietico. Negli ultimi anni, amici e fan hanno cercato di riscoprire un Reagan letterario e letterato, raccogliendo le lettere, gli scritti inediti, i billets doux, le note amorose a Nancy per cancellare anche l’ultimo biasimo sulla sua immagine, quella di non essere un uomo colto o raffinato. Il problema centrale di Dutch Reagan, strappato sia alla presunzione dell’intelligentsia sinistra che vede in ogni leader di destra uno zotico manovrato da poteri occulti, sia al fideismo ideologico della destra che cerca in Reagan la fonte della legittimità di Bush il Giovane, è in realtà lo stesso posto da ogni presidente americano, nella sua storia: ”Ronnie” fu l´agente del cambiamento dei depressi umori americani all’inizio degli anni 80 o ne fu il prodotto e la semplice maschera? Il sole tornò a splendere sugli Stati Uniti, secondo il suo celebre slogan (’ di nuovo mattino in America”) perché lui lo fece sorgere o Reagan fu soltanto il classico mago della pioggia che si vanta di avere fatto piovere perché ha danzato fino a quando è piovuto? E la risposta, come sempre nella storia americana, è oziosa. Un leader democratico e il suo tempo, negli Stati Uniti, sempre coincidono e si condizionano reciprocamente. Il Reagan che sognava di ”bombardare l’impero del male”, divenne il Reagan che propose a Gorbaciov di azzerare gli arsenali nucleari. Il Reagan che giurava implacabile fermezza verso i terroristi, fu quello che autorizzò segretamente trattative con gli iraniani di Khomeini, vendendo loro armi sofisticate. Se la sua fu ”rivoluzione”, come dicevano i fan rimpiangendolo inconsolabili, fu ”rivoluzione culturale”, partita da una California che lo aveva eletto governatore e si ribellò alla tirannide del ”tassa e spendi” ereditata dal New Deal di Roosevelt. Credette nel mito del ”meno tasse più introiti fiscali” che spalancò uno sbilancio nei conti federali che il suo successore, Bush il Vecchio e poi Clinton, dovettero colmare in fretta, pagando il prezzo politico. Ma sulla sua ”incoscienza fiscale”, sulla sua apparente leggerezza e sulle sue singolari manie (dopo l’attentato non faceva più nulla senza consultare le astrologhe) volava con grazia, con eleganza, con la grande fortuna che lo fece sopravvivere al proiettile di Hinckley, a tumori alla prostata, al naso e all’intestino, sempre sorridendo, come gli sibilava Nancy al suo fianco tirandolo per il fondo della giacca, ”smile, Ronnie, smile”. Sarà, e non solo da chi aveva votato per lui, rimpianto» (Vittorio Zucconi, ”la Repubblica” 6/6/2004). «Abolizione dei monopoli pubblici, privatizzazioni, deregulation, concorrenza: dall’America alla Cina, dall’Italia alla Russia, il mondo di oggi è segnato in maniera indelebile dall’eredità di Ronald Reagan. L’hanno chiamata ”Reaganomics” e nessun altro presidente - neppure Franklin Delano Roosevelt - ha avuto un simile onore: dare il proprio nome a una dottrina di politica economica. Quella che resterà per sempre come la ”rivoluzione reaganiana” è una riedizione del laissez-faire neoclassico, un iperliberismo nemico dell’intervento pubblico e della tassazione. Una filosofia semplice il cui slogan più celebre fu: ”Government is not the solution, it’s the problem”, lo Stato non è la soluzione, è il problema. Negli anni 70, mentre Reagan è governatore della California, il suo partito repubblicano è ancora su posizioni moderate. In politica economica i repubblicani non esitano ad applicare ricette ”socialdemocratiche”. Richard Nixon, dovendo fronteggiare la crisi energetica dopo la guerra del Kippur (1973-74) adotta misure di controllo dei prezzi e una politica dei redditi concordata con i sindacati per calmierare l’inflazione. Ma proprio in California sta maturando in quegli anni una rivoluzione ideologica che trova in Reagan il portavoce ideale. Sulla West Coast alcuni economisti emuli del premio Nobel Milton Friedman cominciano a teorizzare che il rilancio della crescita nei paesi industrializzati ha bisogno di una rinascita degli ”spiriti animali” del capitalismo. I meccanismi di mercato, secondo loro, sono la soluzione ideale di ogni problema. Applicando in tutti settori della società le regole della domanda e dell’offerta, la concorrenza e la trasparenza dei prezzi, l’Occidente potrà uscire dal lungo tunnel della crisi. L’economista Arthur Laffer disegna la ”teoria dell’offerta”, secondo cui i deficit pubblici sono desiderabili se nascono dalla riduzione della pressione fiscale: il calo delle tasse innesca un circolo virtuoso di sviluppo economico che alla fine, grazie all’aumento dei redditi e quindi delle imposte, risana automaticamente lo stesso deficit. In California quelle teorie vengono utilizzate per creare un movimento populista di massa, la rivolta anti-tasse del 1978: il referendum Proposition 13 organizzato da Howard Jarvis e Paul Ganns stravince e impone un tetto costituzionale al prelievo fiscale sui patrimoni. L’anno dopo Reagan decide di candidarsi alla Casa Bianca sfruttando l’ondata di protesta fiscale che ha avuto origine nella sua California. Sconfigge Jimmy Carter nel 1980 e porta così il vangelo neoliberista al governo della superpotenza mondiale. Con due profonde riforme fiscali, nel 1980 e poi nel 1986 (al suo secondo mandato) Reagan abbassa drasticamente le aliquote marginali americane. Altrettanto importante della rivoluzione fiscale c’è l’attacco frontale al potere dei sindacati: nell’agosto del 1981, di fronte a uno sciopero nazionale dei controllori di volo che paralizza il trasporto aereo negli Stati Uniti, Reagan interviene con una durezza senza precedenti: licenzia in tronco 11.000 controllori di volo e li fa sostituire da personale militare. il segnale di una svolta anche nel campo delle relazioni industriali, alla Casa Bianca c’è un governo che dichiara guerra al sindacato e accelera il declino degli iscritti alle Labor Unions. La Reaganomics non è solo una strategia di politica economica, è anche il tentativo - in larga parte riuscito - di cambiare la fisionomia della società americana e quindi di rifondare la ”costituzione materiale” degli Stati Uniti. Reagan promuove la diffusione del capitalismo popolare, della proprietà azionaria, di una cultura sociale darwiniana fondata sul valore della competizione, sulla legittimità del profitto e dell’arricchimento. un’offensiva formidabile per cancellare l’eredità di Roosevelt e Kennedy, al New Deal e alla Great Society, a mezzo secolo di Welfare e politiche redistributive. I risultati economici concreti di quella fase neoliberista sono molto meno positivi di quanto si creda. Di fronte ai maxideficit pubblici creati dalla riduzione delle aliquote (e dalle spese militari) Reagan è poi costretto a rialzare le tasse. La crescita americana nei tre mandati presidenziali di Reagan e Bush padre è del 2,8% annuo, mentre salirà al 3,7% annuo con la politica fiscale più virtuosa di Bill Clinton. Ma il mito neoliberista e l’egemonia culturale della Reaganomics resistono alla prova dei fatti: Bush figlio è l’ultimo erede di quella rivoluzione conservatrice» (Federico Rampini, ”la Repubblica” 6/6/2004). «Un attore che si portava dall’esperienza di governatore della California idee che anche alcuni suoi collaboratori consideravano semplicistiche: meno burocrazia, meno Stato e meno tasse per rilanciare l’economia. Un economista giovane e ambizioso, Arthur Laffer, considerato da molti suoi colleghi piu uno stregone che un accademico, che una sera in un bar disegnò su un tovagliolo di carta quella che sarebbe passata alla storia come la ”curva di Laffer”, la base ideologica della ”Reaganomics”: un aumento delle tasse produce un aumento delle entrate fiscali, ma oltre un certo livello il risultato diventa negativo per lo Stato perche la gente - oppressa da un fisco troppo esoso - smette di lavorare; un taglio delle tasse, avrà, all’opposto, l’effetto di sostenere l’economia non tanto e non solo ”mettendo più soldi nelle tasche dei cittadini”, ma incentivando la gente a lavorare e investire di più. A distanza di quasi 25 anni gli economisti ancora discutono dell’efficacia di quella ricetta [...] Una cosa è certa: Reagan ereditò un’America paralizzata dalla stagflazione, nella quale la ricetta economica keynesiana sembrava non funzionare più. La Reaganomics capovolse gli schemi: produsse un terremoto nella finanza pubblica (meno tasse ma pochi tagli alle spese, nonostante i buoni propositi, e quindi deficit alle stelle), modificò la distribuzione del reddito a favore dei ceti più abbienti (la riduzione del prelievo fiscale riguardò le imprese e i contribuenti più ricchi), mise alle corde i sindacati: l’agosto del 1981, quando Reagan decise di licenziare in massa i controllori di volo che avevano proclamato uno sciopero definito ”illegale” dalla Casa Bianca, rappresenta lo spartiacque nella storia delle relazioni industriali americane. Terapie dure e discutibili. Ma i risultati arrivarono, anche se non immediatamente e non solo per merito di Reagan: gli anni 70 avevano prodotto alta inflazione (si era arrivati fino al 20 per cento) e bassa crescita. Reagan e il governatore della Federal Reserve, Paul Volcker, scelsero la strada degli alti tassi d’interesse per abbattere l’inflazione e la riduzione delle tasse (l’aliquota più elevata dell’Irpef americana passò dal 70 al 28 per cento, mentre l’imposta sul reddito delle società scese dal 48 al 34 per cento) per stimolare l’economia. L’inflazione effettivamente crollò mentre il dollaro salì alle stelle. L’aumento dei tassi si trasmise ben presto alle altre economie che pagarono buona parte del conto del riequilibrio del sistema americano (diversamente da quanto accade oggi: il riaggiustamento degli Usa avviene con bassi tassi d’interesse e un dollaro debole). Ma la ripresa dell’economia tardò ad arrivare. Secondo alcuni perché il taglio delle tasse si rivelò uno strumento poco efficace, secondo altri perché si innescò un processo di ristrutturazione dell’industria americana talmente profondo che furono necessari molti anni per vederlo giungere a maturazione. I benefici li avrà, negli anni 90, Bill Clinton che si troverà a governare un Paese con un’economia in cui la produttività cresce a vista d’occhio e con essa le entrate fiscali: fino al punto di ritrovarsi tra le mani, senza quasi accorgersene, un enorme attivo di bilancio. L’unica, vera vittima della Reaganomics fu George Bush (padre) la cui presidenza fu caratterizzata da un periodo economico ancora depresso. Avendo ereditato da Reagan un grosso deficit, a un certo punto si senti in obbligo di tamponare le falle con un aumento dei tributi che, pure, si era impegnato a evitare. Gli americani non lo perdonarono» (’Corriere della Sera” 6/6/2004). «Figlio del Miwdest, attore e credente, Ronald Reagan è stato il presidente degli Stati Uniti che ha vinto la Guerra Fredda. Arrivato alla Casa Bianca nel 1980 sulla scia dello scontento degli americani per il democratico Jimmy Carter a causa delle lunghe file per la benzina e dell’incapacità di liberare gli ostaggi sequestrati a Teheran dai guardiani della rivoluzione, Reagan non tarda ad azzerare l’eredità del predecessore. Carter aveva consentito all’Urss di invadere l’Afghanistan ed a Khomeini di cacciare lo Scià. L’America appariva debole, vulnerabile, sulla difensiva per effetto non solo di Carter ma della strategia della distensione con l’Urss che risaliva a Richard Nixon e dalla fuga da Saigon. Reagan inverte bruscamente la rotta. Aumenta il bilancio della difesa e lancia l’Iniziativa di difesa strategica (Sdi) per sfidare militarmente l’Urss con la creazione nello spazio uno scudo anti-missile. Ai fatti seguono le parole. Definisce l’Unione Sovietica ”l’Impero del Male” e quando arriva a Berlino, parlando poco distante da dove lo aveva fatto John F. Kennedy, si rivolge direttamente al segretario generale del Pcus: ”Mr. Gorbaciov, tira giù questo muro”. ”Lancia le parole per far sì che combattano per noi”, dirà il premier britannico Margaret Thatcher, sua alleata di ferro. E le parole che pronuncia, la distinzione fra il ”male” del comunismo e il ”bene” della democrazia perforano la Cortina di Ferro. Il dissidente Nathan Sharanski, uscito dal gulag grazie alla scelta di Washington di scambiarlo con alcune spie, racconterà: ”Noi detenuti ci raccontavamo l’un l’altro i discorsi di Reagan”. Determinato a scardinare lo status quo della distensione che aveva consentito all’Urss di rafforzarsi Reagan incalza Mosca dove può: negoziati di ferro sul disarmo, aiuti economici e militari alle guerriglie anti-comuniste nell’Istmo e in Africa, sostegno morale e politico ai dissidenti nell’Est europeo. Si lascia alle spalle scandali e passi falsi: lo storno verso l’Iran di fondi destinati alla guerriglia sandinista del Nicaragua - divenuto l’Iran-Contras - avviene all’insaputa del Congresso, il ritiro delle truppe da Beirut nel 1984 diventa la prima vittoria dei terroristi-suicidi, la bibbia autografata inviata in segreto a Khomeini getta un’ombra sull’idealismo patriottico che lo distingue. Dietro la determinazione di Reagan non c’è solo l’esempio di Franklin Delano Roosevelt, a cui si richiama spesso, ma un rapporto nuovo fra politica-fede. In America gli anni di Reagan coincidono con l’emergere della ”Moral majority”: i cristiani credenti si affermano sulla scena della vita pubblica come mai prima. La loro bandiera è l’opposizione all’interruzione della gravidanza e Reagan non esita, sta dalla loro parte quando dichiara: ”L’aborto è sbagliato”. Il legame con la fede si rafforza sopravvivendo all’attentato di cui cade vittima Washington nel 1981. La coalizione repubblicana cambia i connotati, si allarga alla ”Bible Belt” - gli Stati del Sud dove più numerosi sono i cristiani rinati - e si nutre di un’idealismo democratico forte e dichiarato, iniziando a lasciarsi alle spalle incubi e complessi frutto della sconfitta subita in Vietnam. Nella sfida all’’Impero del Male” Reagan trova quello che sarà il suo più importante alleato in Karol Woityla, divenuto Giovanni Paolo II, e Usa e Vaticano allacciano le relazioni diplomatiche mentre la Chiesa cattolica si trasforma nella più fastidiosa spina nel fianco del Patto di Varsavia. Gli otto anni di Reagan alla Casa Bianca terminano 12 mesi prima della caduta del Muro di Berlino e tocca al suo vicepresidente George Bush diventare il testimone della dissoluzione dell’Urss. La sfida allo status quo è altrettanto dichiarata sul fronte interno. Ciò che Reagan contesta dell’eredità di Roosevelt è l’invadenza dello Stato nell’economia, nella vita pubblica. La politica delle drastiche riduzione fiscali che inaugura nasce dalla convinzione che ”il miglior governo è quello che governa meno”. La forza che muove la società viene dall’individuo, che la trasferisce alla propria comunità e quindi allo Stato e solo, in ultima istanza, al governo federale. Scommettere sul singolo, tagliare le imposte e sfidare i tabù sindacali - come avvenne con il braccio di ferro che piega i controllori di volo - pone le basi del maggior ciclo di espansione dalla fine della Seconda guerra mondiale che aiuta a piegare l’Urss, incapace di resistere alla sfida economica prima che militare. Questi i risultati di un uomo venuto dall’Illinois, nello sterminato Midwest, dove nasce a Tampico il 6 febbraio 1911 e studia a Eureka prima di diventare annunciatore radio, esperto di programmi sportivi e quindi, nel 1937, attore debuttando in Love is on the air. Lo schermo gli porta qualche soddisfazione ma la critica non lo premia più di tanto se non nel caso della sua pellicola più apprezzata, Knute Rockne: all American in cui veste i panni del protagonista, The Gipper. Crede nel cinema e durante la guerra contribuisce allo sforzo bellico confezionando pellicole per addestrare le forze armate. Democratico ma non troppo liberal riesce a farsi spazio a Hollywood e nel 1947 diventa presidente del Screen Actors Guild. La politica arriva negli anni Sessanta, quando passa nelle file del partito repubblicano e nel 1966 strappa a Edmund Brown il posto di governatore della California. Accanto ha Nancy Davies, attrice, sposata nel 1952 dopo aver divorziato nel 1949 dalla prima moglie Jane Wyman. La vita pubblica gli porta più soddisfazioni del grande schermo ed il successo ottenuto in California lo spinge nel 1976 ai primo tentativo presidenziale con i repubblicani. Fallisce ma il discorso dell’abbandono - che termina con un ”Tornerò” - è considerato l’inizio della rincorsa che gli farà battere Carter nel 1980 e travolgere Mondale nel 1984. In ritiro dal 1989 in California scopre di avere l’Alzheimer nel 1994 e ne informa l’America intera, uscendo di scena per una interminabile sofferenza nella quale ha avuto a fianco fino all’ultimo la moglie Nancy. Senza potersi rendere conto che 20 anni dopo del suo arrivo nell’Ufficio Ovale i repubblicani si sono affidati a George W. Bush, un presidente che si autodefinisce reaganiano, conta sul sostegno degli eredi politici della ”Moral Majority”, crede negli effetti benedifici dei tagli fiscali e che ha trovato dopo l’11 settembre 2001 nel terrorismo il nuovo ”Male” da sconfiggere» (Maurizio Molinari, ”La Stampa” 6/6/2004). «Quando i vari leader del mondo, a partire dall’inizio del 1981, fecero il pellegrinaggio che tutti i Capi di Governo compiono a Washington dopo un’elezione presidenziale americana, pochi conoscevano il neo-eletto Ronald Reagan che negli anni precedenti, come Governatore della California e come candidato alla Presidenza nel 1976, non aveva mostrato particolare interesse per gli affari internazionali. Molti di loro [...] ebbero l’impressione di una personalità senza molto spessore: quel suo pronunciare con estrema convinzione frasi che collaboratori scrivevano per lui su dei pezzi di carta, quei suoi aneddoti storici suggestivi e quasi sempre inesatti, quella cordialità bonaria, quella capacità di persuadere, la sua stessa fisionomia sorridente e senza un capello fuori posto facevano pensare più che a una persona in carne e ossa a un prodotto ben confezionato, a un best-seller ordinato su misura da un editore in base al gusto dei lettori. Reagan è stato invece - anche se i più se ne sono accorti con ritardo - un grande Presidente e un vero protagonista della scena mondiale. Non solo non è stato uno strumento nelle mani di chi lo circondava ma ha trascinato dietro a sé il complicato apparato decisionale americano su strade che questo era riluttante a percorrere. La sua visione del mondo era d’altronde fondata su pochi concetti ben chiari: la chiave di volta dell’equilibrio mondiale è il confronto tra Stati Uniti e Unione Societica, tra democrazia e comunismo; gli Stati Uniti hanno dalla loro la grande superiorità di una nazione giovane e sicura di sé; il conflitto con l’Urss deve essere vinto non con la forza delle armi, e in ogni caso non con quelle nucleari, ma con la forza di persuasione che gli americani traggono dalla loro indiscutibile superiorità. La certezza che comunicare bene sia alla base del successo non solo tra gli uomini ma anche tra gli Stati è sempre stata in lui fortissima: molti l’hanno presa per superficialità. Su questi concetti ha basato una linea politico-diplomatica complessa e, soprattutto nel nocciolo costituito dal negoziato sul disarmo, talvolta sconcertante. Fin dall’inizio della sua presidenza, Reagan ha marcato la fine del periodo della cosiddetta ”distensione” tra Est e Ovest anticipando subito in una conferenza stampa, in termini appena più velati, il celebre discorso del 1983 in cui definì l’Urss ”l’impero del male”, un’espressione che gli attirò molte critiche non solo tra gli europei, allarmati dalle possibili reazioni di Mosca a questo linguaggio, ma anche tra gli intellettuali del suo Paese. Reagan aveva però capito benissimo due cose: la prima, che per mobilitare gli americani occorre fare leva su concetti etici e non su analisi politiche; la seconda, che la fine della distensione non comportava affatto la fine del dialogo. Egli anzi lo intensificò con tutti i suoi vari interlocutori del Cremlino, da Cernienko a Gorbaciov, nella convinzione che avrebbe dimostrato loro l’inutilità di opporsi alla supremazia americana. Disgiungendo due termini - dialogo e pacificazione - che nella cultura dell’America post-Vietnam e dell’Europa di allora e di oggi sono ancora strettamente legati, Reagan fu realmente e provocatoriamente innovatore. La sua sincera e profonda repulsione per l’arma atomica e le sue ripetute proposte di disarmo nucleare gli consentirono poi di ribaltare di fronte all’opinione pubblica mondiale il monopolio del pacifismo, sino ad allora detenuto dallo schieramento comunista. La neutralizzazione dell’arma atomica gli consentiva inoltre di minare il concetto della mutua distruzione, il solo in base al quale l’Unione Sovietica poteva asserire di aver raggiunto una sostanziale parità. L’apice di questo processo spericolato si ebbe con lo straordinario vertice di Reykjavik, vera e propria commedia degli equivoci, in cui Reagan giunse a proporre a Gorbaciov un disarmo nucleare generale e controllato, cogliendo di sorpresa sia la sua delegazione, del tutto impreparata a una simile proposta, sia lo stesso Gorbaciov. Questi cercò di prendere tempo finché Reagan, sorprendendo ancora una volta tutti, abbandonò il negoziato, pago di aver confermato la sua immagine di apostolo di un mondo non nucleare. Il capolavoro politico di Reagan fu però l’Iniziativa di Difesa Strategica, o Sdi, o Guerre Stellari, come con vocabolo hollywoodiano venne chiamata da noi. La Sdi era, si ricorderà, un sistema di intercettazione spaziale dei missili balistici che direttamente minacciavano la sicurezza delle popolazioni delle due superpotenze. Non essendo mai stata realizzata, nessuno sa se e quanto la Sdi sarebbe stata efficace e qui sta forse la sua vera genialità. Certo essa fu per la scienza e l’industria degli Stati Uniti una poderosa sollecitazione e per l’Urss, e personalmente per Gorbaciov, una causa di sgomento e di consapevolezza di incolmabile inferiorità. Il declino e poi la crisi dell’Unione Sovietica alla fine degli Anni Ottanta hanno nella Sdi una sicura concausa. Se poi fu davvero Reagan a vincere la guerra fredda e a sconfiggere il comunismo o se il comunismo - come ogni ideologia centralistica - avesse già i germi della propria decadenza in una trasformazione della società che è tuttora in atto, lo dirà la storia. Se pure così fosse, resterebbe a Reagan il merito di aver magistralmente capitalizzato su questo fenomeno e di averlo compreso prima di ogni altro» (Boris Biancheri, ”La Stampa” 6/6/2004). «Perché la politica economica abbia successo, non è indispensabile che i governanti conoscano l’economia. necessario, invece, che essi sappiano trasformare il clima generale del Paese, affermare valori, indurre a determinati comportamenti coloro che, tutti i giorni, prendono decisioni economiche. Valutata con questo parametro, la politica economica del presidente Reagan si è rivelata straordinariamente efficace; ha però comportato costi e rischi assai elevati. A differenza del suo predecessore, Carter, uomo della gradualità e del compromesso, l’azione economica di Reagan fu caratterizzata dal decisionismo. Quando fu eletto, nel 1980, la crescita della produzione negli Stati Uniti era pressoché nulla, l’inflazione raggiungeva il 13 per cento e un americano su 15 era disoccupato. Il neo-Presidente non ebbe esitazioni nel dare il suo assenso a una radicale, rapida e brutale cura disintossicante: nel giro di due anni, la produzione era scesa fortemente, quasi un americano su 10 era disoccupato, i salari orari reali e il costo del lavoro avevano subito un brusco taglio, ma l’inflazione si era ridotta a poco più del 3 per cento. Dopo il 1982, la produzione riprese a salire e la disoccupazione a scendere (anche se i salari orari reali continuarono a ridursi per altri dieci anni) e da allora l’inflazione non ha più costituito un vero problema per gli Stati Uniti. Per realizzare questa politica, Reagan non esitò a porsi apertamente contro il mondo sindacale. Nei primi tempi della sua Presidenza, rispose a uno sciopero dei controllori di volo con il licenziamento di tutti gli scioperanti, nessuno dei quali fu più riassunto; il sindacalismo americano scomparve come grande forza organizzata a livello nazionale e questo spianò la via a una colossale ristrutturazione dell’industria, con il licenziamento di milioni di persone dalle grandi imprese (i quali trovarono generalmente un nuovo lavoro, ma a salari più bassi). In questo modo, Reagan non solo accentuò lo spostamento già in atto nella distribuzione dei redditi in senso antiegualitario, ma ne fornì anche una legittimazione: era sacrosanto che i ricchi diventassero più ricchi perché solo così si sarebbe riavviato il meccanismo della crescita. L’interesse privato dei ricchi veniva considerato coincidente con l’interesse pubblico e pertanto andava incoraggiato con la riduzione dell’azione dell’Antitrust, l’attenuazione dei vincoli ecologici e con agevolazioni fiscali: la riduzione delle aliquote fiscali per i redditi elevati avrebbe stimolato la crescita e quindi comportato maggiori introiti per lo Stato. questa l’essenza dell’impostazione economica di Reagan, la cosidetta reaganomics. Reagan fu quindi il presidente dei ricchi, che sostenne con aperto candore e dai quali fu a sua volta sostenuto con entusiasmo. In realtà, la detassazione non diede i risultati sperati, il deficit pubblico aumentò vistosamente, l’incidenza del debito pubblico sul prodotto lordo, pari a poco più del 20 per cento all’inizio della presidenza Reagan, era quasi raddoppiata alla fine. E questo perché i ricchi, più che investire, aumentarono i consumi. La voglia americana di consumo e la forza del dollaro, che rendeva poco competitive le merci americane, contribuì alla creazione di un parallelo deficit commerciale di enormi proporzioni. L’America di Reagan riuscì tuttavia a far ripartire la crescita perché, tassando poco i capitali e difendendo la ricchezza, gli Stati Uniti attiravano fondi da ogni parte del mondo i quali finanziavano così l’espansione americana. Mentre i suoi consiglieri proclamavano la morte dell’economia keynesiana, l’amministrazione Reagan realizzava forse la maggior manovra keynesiana della storia: espandeva l’economia gonfiando il deficit pubblico e il deficit estero. La lunga espansione reaganiana ha tutte le caratteristiche delle ”riprese drogate” europee, eccetto il tipico surriscaldamento inflazionistico. Reagan riuscì a evitare l’inflazione grazie a due fattori: l’afflusso di capitali dall’estero che, tenendo elevato il cambio del dollaro, riempiva i negozi americani di prodotti stranieri a buon mercato e la distruzione delle rigidità del lavoro, che consentiva di pagare bassi salari. Almeno la prima di queste condizioni non sarebbe stata realizzabile al di fuori degli Stati Uniti. A posteriori, la politica economica di Reagan non può non essere definita molto rischiosa, in quanto introdusse ulteriori elementi di disparità economico-sociale nella già dura società americana e di squilibrio finanziario nell’economia mondiale. Se gli anni di Reagan sono quelli in cui l’America riprende la via dello sviluppo (grazie a nuovi imprenditori come Bill Gates più che ai vecchi ricchi, che in quegli anni dissestarono le Savings & Loans, le casse di risparmio americane) sono anche quelli dei mendicanti che dormono in scatole di cartone sui marciapiedi dei grattacieli di Manhattan. Che le cose abbiano avuto un seguito complessivamente positivo è dovuto a sviluppi che lo stesso Reagan e i suoi collaboratori avevano previsto solo in piccola parte: le dimensioni del successo tecnologico americano, che aprì la strada a una crescita economica più sana negli anni di Bush e di Clinton e il collasso dell’Unione Sovietica che modificò il quadro mondiale. Nelle cose umane, però, come insegna Machiavelli, la ”fortuna” ha tanta importanza quanto la ”virtù”; e non c’è dubbio che Reagan sia stato un presidente molto fortunato» (Mario Deaglio, ”La Stampa” 6/6/2004).