Varie, 6 marzo 2002
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Redford Robert
• Santa Monica (Stati Uniti) 18 agosto 1937. Attore. Regista. Ha vinto l’Oscar per Gente comune nel 1980. "Celebrato sex-appeal che fece scintille fin dai tempi di A piedi nudi nel parco, Butch Cassidy (lui era Sundance Kid: da qui il nome dato alla sua fondazione e al noto festival), La stangata, Tutti gli uomini del presidente [...] capelli ondulati tra il biondo e il rosso, occhiali rotondi da intellettuale, il sorriso enigmatico del Grande Gatsby, occhi furbi come nella Stangata, seducente come in Butch Cassidy: Redford è una leggenda vivente e insieme l’autarchico più glamour di Hollywood. Redford è infatti l’unico attore vivente ad avere non solo una stella sul marciapiede di Hollywood Blvd., ma anche un edificio istituzionale. La nuova sede della California del sud del Natural Reserve Defence Council, di cui Redford è membro dal 1975, è stata ufficialmente battezzata Robert Redford Building. [...] ”Con la recitazione ho un rapporto ambivalente, ma rimane sempre il mio primo amore a cui non resisto, come un amante bisognoso” [...] vive in un ranch sulle montagne vicino Park City (dove si svolge il Sundance Festival) insieme alla sua compagna, la pittrice tedesca Sibylle Szaggers. Californiano di Santa Monica, da giovane anche Redford aveva la passione per la pittura. Ma dopo l’inevitabile periodo parigino tornò in America per scoprire che gli interessava di più recitare. Lo strepitoso successo di Butch Cassidy del ’69 gli ha cambiato la vita. ” stata come un’arma a doppio taglio”, ricorda: ”Mi scritturavano perché dicevano che ero bello. Mi sembrava strano per due motivi: primo perché quando ero giovane e sconosciuto nessuno mi diceva che ero bello. Avevo i capelli lunghi e impossibili da pettinare, ero pieno di lentiggini. Nessuna donna mi fischiava dietro: quello venne dopo e ammetto che non mi dispiacque affatto. Secondo, capii che l’aspetto era diventato un ostacolo per le cose che volevo fare. Nessuno mi prendeva sul serio. Io, invece, avevo preso sul serio il mestiere d’attore”. C’è chi lo considera un Ghandi di Hollywood, ma non tutti lo adorano. ”Devo molto alla mia natura ribelle, indipendente. Mi piace stare fuori dal coro, dissentire. Soprattutto in politica”, dice Redford. Nel libro Down and Dirty Pictures: Miramax, Sundance and the Rise of Independent Film, Peter Biskind riconosce a Redford il merito d’aver inventato il cinema indipendente moderno. Ma critica quel suo stile manageriale che gli ha alienato molte persone del suo stesso staff, compresi cineasti come Steven Soderbergh. Anche Peter Bart, direttore dell’influente ”Daily Variety”, ironizza sui ”momenti alla Redford”, cioè su quell’atteggiamento enigmatico misto a un pizzico di arroganza che mantiene la gente a distanza. In realtà, Redford è molto meglio di come vorrebbero i suoi detrattori" (’L’Espresso” 10/6/2004). "La borghesia americana, conservatrice e solida, produce figli come questo. Ha un padre ragioniere che lo iscrive all’Università del Colorado, ma lui ha altre ambizioni (vuole diventare pittore) e quattrini per viaggiare. Tornato dall’Europa si appassiona al teatro, strizza l’occhio al cinema [...] e nel 1967 riesce a imporsi con quell’aguzza commedia di Neil Simon – Barefoot in the park – con cui aveva trionfato a Broadway [...] Due anni dopo il successo è ribadito e accresciuto grazie all’interpretazione del movimentato western di Goerge Roy Hill Butch Cassidy che offre agli spettatori un bel duetto Redford-Newman [...] Come interprete è sempre corretto e seducente (gli occhi azzurri, i capelli biondi, il sorriso disarmante), anche in melodrammi grevi come La mia Africa e in idozie come Proposta indecente" (Fernaldo Di Giammatteo, Dizionario del Cinema – Cento Grandi attori, Newton&Compton 1995). "Che ci crediate o no, durante la prima metà della sua vita [...] non era nulla di speciale. ”Lo giuro su Dio: da bambino non ero oggetto di attenzioni [...] Se le avessi ricevute avrei avuto un’infanzia un po’ più felice e una carriera scolastica migliore, soprattutto al liceo. Ma così, purtroppo, non è stato. Certo, non si può dire che fossi un brutto bambino, ma avevo le lentiggini, il ciuffo ribelle, i capelli rossi, e questo bastava perché non venissi preso a esempio di bellezza. C’era, è vero, chi mi trovava carino,; ma solo quando cominciai a fare l’attore le cose presero un’altra piega: solo allora la mia vita cambiò radicalmente [...] A me, sia come attore che come regista, interessa curare i dettagli, lavorarci sopra sino a quando l’insieme non assume la forma desiderata. Che mi trovi davanti o dietro la macchina da presa, quel che voglio è che il pubblico provi le stesse emozioni che provo io. Quando ci riesco ho raggiunto il mio scopo [...] Mi sono allontanato dallo star system perché non mi lasciava vivere. Non mi piace che tutti sappiano tutto di tutti. Un film è un mezzo per esprimersi, per raccontare una storia, non un pretesto per indagare nella vita privata di quell’attore o di quel regista" (Jenny Peters, ”Sette” 22/1998). "Ci sono stati tre eventi che hanno segnato per sempre la mia vita. Il primo è stato l’attacco a Pearl Harbor: ero un ragazzino, ma capivo che nulla sarebbe stato più come prima. Poi l’assassinio del Presidente Kennedy: stavo facendo una commedia a Broadway e non sapevo come avrei fatto a salire sul palcoscenico e far ridere la gente. Eppure quella notte la risata del pubblico era stata più forte che mai, ma era una risata isterica, dura. E ora questo. L’11 settembre ha cambiato qualcosa per sempre" (’la Repubblica”, 20/11/2001).