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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

Riefenstahl Leni

• Berlino (Germania) 22 agosto 1902, Pocking (Germania) 8 settembre 2003. Fotografa, regista, ballerina. Nel ’23, in seguito alla rottura di un menisco, interrompe la sua carriera. Tre anni dopo interpreta il suo primo film, La montagna sacra. Il film decisivo per la sua carriera è La bella maledetta, da lei diretto e interpretato nel 1932. Hitler lo vede e le chiede di girare dei film per il partito nazista. Nel ’34 gira il Trionfo della volontà, documentario sul congresso nazionalsocialista di Norimberga. Nel ’36 gira Olympia, il suo capolavoro dedicato alle Olimpiadi di Berlino. Dal ’45 al ’48 viene internata in vari campi di prigionia. Nel ’62 parte per il Sudan dove «scopre» la tribù dei Nuba, ai quali ha dedicato una serie di celebri reportage fotografici. «Per gli ammiratori, come il genio hollywoodiano George Lucas, era “la regista più moderna di tutti i tempi”, i critici quali Fritz J.Raddatz la liquidavano quale “la servile cortigiana di Hitler”. Leni Riefenstahl, [...] la grande regista che con i documentari sul congresso del Partito nazista, sulla Wehrmacht e sulle Olimpiadi di Berlino raggiunse la vetta di una perfezione estetica ancora imitata a Hollywood, ma toccò l´abisso della complicità oggettiva con il Terzo Reich e del silenzio sull´Olocausto. [...] Fino all´ultimo, è voluta restare fedele alla sua immagine di artista rigorosa e donna d´acciaio. Sognava di ristabilirsi e girare un documentario su Capri. “Ma era incapace di provare dolore e compatire il dolore altrui”, la accusò Margarete Mitscherlich. Da giovane fu una delle più affascinanti attrici di quell´industria cinematografica tedesca che negli studi Defa a Babelsberg, tra l´autunno della Repubblica di Weimar e la presa del potere hitleriana, sognava di diventare la Hollywood europea. Era bellissima, brava, geniale: insieme vamp, intellettuale e donna emancipata. Gli splendidi occhi verdi, il perfetto volto quasi preraffaelita illuminato da gelidi sorrisi, il fisico da indossatrice, sedussero il pubblico e i gerarchi. Fu una delle donne che più affascinò Hitler, come Winifried Wagner. Senza prove si sospettò un suo flirt con lui. “La sua fu una carriera tedesca”, afferma Juergen Trimborn, suo biografo. Cominciò da eroina dei fumettoni di Arnold Franck: da La montagna sacra a Tempeste sul monte Bianco. Drammi e buoni sentimenti sullo sfondo puro delle Alpi bavaresi, cari alla borghesia tedesca che stanca dell´inflazione e della guerra civile sposò il Nuovo Ordine dell´uomo forte. Forse anche lei volle chiudere gli occhi insieme al suo pubblico. Certo è che Hitler, fu rapido ad appropriarsi del suo talento. “Credo”, ricorda il critico cinematografico Rainer Rother, “che Leni, almeno all´inizio, non ebbe un problema a tradurre in arte la rappresentazione di sé che i nazisti volevano darsi; non nascose di aver provato, allora, simpatia per Hitler”. Era l´alba della dittatura, i Lager già si riempivano. Grandi intellettuali, da Kurt Tucholski a Carl von Ossietzky, cadevano vittima della repressione. Leni ebbe l´offerta di girare documentari per il regime, “afferrò entusiasta la grande chance”, afferma Rother, “ma al contrario di altri, non girò mai pellicole antisemite”. Leni non invitò mai nessuno ad additare quelli con la stella gialla col cappotto, né a boicottare i loro negozi, né ad arricchirsi con i loro beni espropriati. Ma si schierò, eccome. La vittoria della fede, dedicato nel 1933 all´ascesa di Hitler, e poi, due anni dopo, Il trionfo della volontà, il documentario sul congresso della Nsdap nella mastodontica sala dei congressi di Norimberga, furono i suoi primi successi. Le adunate delle camicie brune, le parate degli atletici giovani ariani al canto dello Horst Wessels Lied, fiaccole, aquile e svastiche al vento, furono riprese da Leni con perfezione estetica allora ineguagliata. “Volli fare solo un documentario, senza commenti”, si difese più tardi. E uno splendido documentario no comment fu anche Il giorno della libertà: la nostra Wehrmacht, dedicato all´esercito che avrebbe poi marciato in Spagna, in Polonia e in Francia. “Rimpiango di aver conosciuto Hitler, fu la mia rovina dopo la guerra”, disse. Ma l´apice della sua carriera coincise con le Olimpiadi di Berlino, apoteosi del Fuehrer. Era il 1936, venne Olympia, il perfetto kolossal in due episodi, La festa dei popoli e La festa della bellezza. La perfezione dei corpi in movimento, la gara, l´adunata: i miti estetici del nazismo trovarono un´espressione alle cui tecniche - riprese dal basso, l´obiettivo che rincorre l´atleta - il cinema si ispira ancora oggi. E in almeno una scena contraddisse il razzismo: mostrò anche l´atleta nero americano vittorioso Jesse Owens. L´estetismo può far premio sui contenuti, fu la sua linea di difesa dopo il 1945. Eppure fu una scelta di campo: con chi restava a Berlino, come lo scultore Arno Breker o lo scenografo Gustaf Gruendgens, come i collaboratori dell´architetto del regime, Albert Speer, o il grande attore Heinz Ruehmann. Contro i pochi che scelsero la fuga, da Thomas Mann a Bertolt Brecht a Marlene Dietrich. Fu davvero una scelta dettata solo dall´estetismo, come quello con cui Ernst Juenger descriveva le città francesi in fiamme osservate dallo champagne del suo calice, o fu un faustiano patto col demonio? Dopo la guerra, Leni si difese da ogni accusa. Vinse 50 cause per diffamazione contro i suoi detrattori. “Quale crimine ho mai commesso? Di cosa devo pentirmi?”, si chiese nella sua autobiografia. Si lamentò dicendosi emarginata dalla democrazia. Anche se Time Magazine la elogiò come “una delle cento massime personalità dell´arte contemporanea”. E anche se i suoi bellissimi libri fotografici sul popolo africano dei Nuba - centinaia di istantanee dei perfetti danzatori nudi, con la Leica ancora impugnata a mano ben ferma - fanno rivivere tuttora il suo raffinato culto della bellezza corporea. Alle olimpiadi di Monaco del ´72 riuscì ad accreditarsi come fotoreporter, ma sotto pseudonimo. Da Bonn a Londra a New York, le sue mostre fotografiche erano sempre successi trionfali. La libertà fu generosa anche con lei che in gioventù non vi aveva creduto» (Andrea Tarquini, “la Repubblica” 10/9/2003). «Scoprì il cinema, stregata dalle Dolomiti, guardando La montagna del destino di Arnold Fanck. Partì subito per il lago di Carezza. Conobbe il protagonista, Luis Trenker. Il cinema la catturò. Divenne attrice. Seppe aprirsi la strada. Conosceva l’arte della seduzione. Era ambiziosa, dura, coraggiosa. Imparò a sciare e a scalare. Salì sulle Torri del Vajolet e su quelle del Sella, sul Crozzon di Brenta e sul Catinaccio, perfino sugli iceberg. Invano Josef von Sternberg le propose la parte di protagonista nel film L’angelo azzurro, che poi lanciò Marlene Dietrich. Il ruolo di attrice le stava stretto. Divenne regista. Non aveva ancora 30 anni, quando Hitler la chiamò. Divenne amica e confidente di Hitler. Scrisse: “ Hitler mi desiderava come donna” . Le mandava rose rosse e lillà. Era il suo amante? Se lo era, non era solo. C’erano anche il tennista Otto Froitzheim, l’attore Luis Trenker, l’operatore Schneeberger, il campione di sci Walter Praeger, l’olimpionico di decathlon Glenn Morris fino a Peter Jacob che sposò il 21 marzo ’44. Perfino Goebbels la mise contro un muro e cercò di baciarla. Di certo era intima di Hitler che le fece il testimone di nozze. Poteva entrare nei suoi nascondigli segreti, come il Nido dell’Aquila, da cui anche i generali erano banditi. Aveva accesso ai suoi segreti: a lei Hitler rivelò la tragedia d’amore della nipote Geli, suicida quando trovò nella tasca della sua giacca la prova della relazione con Eva Braun. Hitler le commissionò 4 opere di propaganda: La vittoria della fede, 1933; Trionfo della volontà, il capolavoro, 1935; il film sulla Wehrmacht Giorno della libertà, 1935, e quello sui Giochi Olimpici di Berlino, Olympia, ultimato nel 1938 e presentato nel giorno del compleanno di Hitler Film che hanno influenzato i tedeschi più del Mein Kampf e hanno mostrato al mondo il potere di seduzione dell’immagine. A parte Konskie, Leni restò fuori dalla scena della guerra. Preferì andare a Salamanca a filmare la carica di 600 tori o ritirarsi tra i monti delle Alpi. Quando i tedeschi occuparono Parigi, inviò a Hitler questo telegramma: “E’ con una gioia indescrivibile che abbiamo vissuto grazie a Voi, mio Führer, la più grandevittoria della Germania, che è anche la vostra vittoria: l’entrata delle truppe tedesche a Parigi”. La guerra le regalò anche dolore: perse il fratello Rudi. Quando finì fu arrestata dagli americani nella sua villa di Kitzbuehel. Conobbe il carcere di Salisburgo, il campo di Bärenkeller, gli interrogatori. Ebbe due processi, nel 1948 e nel ’52. Alla fine fu assolta. Allora scoprì la fotografia, l’Africa e l’oceano. Ricomparve sulla scena dei Giochi a Monaco, 36 anni dopo Berlino: con un cambio di campodisinvolto faceva la fotografa per il Sunday Times. [...] Le immagini straordinarie di Leni Riefenstahl vivono. C’è da chiedersi se siano un documento storico o una tentazione» (Claudio Gregori, “La Gazzetta dello Sport” 10/9/2003). «Di vite, in oltre 100 anni, ne ha vissute almeno tre. Tutte smoderatamente esagerate, così come esagerati erano il suo talento, il suo narcisismo, la sua ambizione. “Ho sempre voluto essere la migliore”, aveva detto nel 2002, durante una delle tante interviste rilasciate per il suo compleanno centenario. Eppure, dalla Repubblica di Weimar alle Isole Maldive, fu solo il passaggio da Norimberga a marchiare per sempre Leni Riefenstahl e a far si, che il vero, grande progetto della sua terza vita, iniziata dopo il 1945, fosse quello, disperato e a lungo inutile, di riscrivere la propria biografia, di riconquistare l’innocenza perduta filmando il Terzo Reich e mettendo il suo genio insuperabile al servizio del mito hitleriano. “Non sono mai stata tesserata al partito e non mi sono mai sentita attratta dall’ideologia nazional-socialista. Non sono stata io a far politica, è la politica che è venuta da me”, ripeteva a chiunque sollevasse l’argomento. [...] Eppure, tutte le più autorevoli ricerche d’archivio dimostrano che lei e Goebbels lavorarono molto bene insieme. Quale fu il vero rapporto con Hitler? Furono amanti, come vuole il pettegolezzo? Nella più recente biografia sulla regista, lo storico tedesco Juergen Trimborn rivela che, per lungo tempo, Leni fu la sola ad avere la chiave dell’appartamento privato di Hitler e che, fino alla metà degli anni ’30, andava più volte la settimana a visitarlo di sera, quasi sempre dopo le 11. Trimborn, con prove convincenti, smentisce anche la leggenda, diffusa dalla Riefenstahl, che Hitler volesse farne la sua amante e che lei si fosse rifiutata. Al contrario, sarebbe stata Leni a proporsi al dittatore, ricevendone il diniego. Un soggetto, questo, molto amato dalla cerchia ristretta del Führer. Di tutte quelle da lei invocate, la svolta più credibile nel suo atteggiamento nei confronti del nazismo, fu quella del 1939, quando si recò sul fronte polacco, per il progetto di un film di guerra. “Vidi un paesaggio di morte, fui testimone del massacro di civili ebrei polacchi da parte dei soldati tedeschi. Il film non l’ho mai girato. Da quel momento ho saputo e ho cominciato a dissociarmi sempre più dal regime”. Eppure, ancora nel 1940, avrebbe girato un film romantico, Tiefland, usando come comparse rom e sinti, presi dai campi di concentramento. La regista ha sempre smentito di essere stata a parte della loro provenienza, ma la controversia l’ha inseguita. [...] L’ultimo innamoramento fu quello degli abissi, più di tre decenni di immersioni, cominciate ultrasettantenne e poi convogliate nel suo ultimo capolavoro, Impressioni sottomarine. Forse la dimostrazione più convincente che Leni Riefenstahl, più che col Diavolo, patteggiò con Narciso» (Paolo Valentino, “Corriere della Sera” 10/9/2003). «Era sapientissima nell’uso del montaggio, alternando sequenze veloci ad altre tranquille, il grandioso al semplice, seguendo con altri intenti gli insegnamenti dei “padri padroni” sovietici del mezzo, Eisenstein e Vertov. Nei suoi film, da una parte vive l’inquadratura singola del particolare e dall’altra la ripresa in campo lungo, come se la cinepresa fosse presente ovunque, qualcosa di extra storico e quasi soprannaturale. Dal punto di vista tecnico la regista, che aveva esordito con la leggenda mitologica della Bella maledetta nel 1932, in collaborazione col teorico marxista Bèla Balàzs, attingeva a molti stili cominciando dall’espressionismo, senza dimenticare la luminosità dell’inquadratura e le sfumature psicologiche della luce. Usava teleobiettivi e filtri ed osava le riprese audaci dall’aereo, controluce o molto angolate, esasperando il valore emotivo del cinema. Non solo ai determinanti fini di una pura bellezza estetica risolta in armonia di forme (non dimentichiamoci che era stata anche danzatrice), ma anche come diretta forma di propaganda della politica nazista e dei suoi comandamenti idealistico-estetici. Ecco le riprese delle grandi adunate (nel Trionfo della volontà, dominato dalle macabre scenografie di Albert Speer, il gigantismo dell’uomo cosmico storico), dove la sua adesione alla dittatura si esprime nel potere forte dello stato che si incarna nella collettività. Ed ecco in Olympia, il richiamo al potere mitologico dell’antica Grecia (si parte con le statue classiche e si finisce con le pose plastiche degli “atleti-dei” delle Olimpiadi), un discorso storico-sportivo in cui si inserisce senza colpo ferire quello sulla superiorità della razza ariana: fu infatti Goebbels a farla cadere in disgrazia quando Leni osò mostrare la vittoria di un atleta di colore, Jesse Owens» (Maurizio Porro, “Corriere della Sera” 10/9/2003). «Fede e bellezza potrebbe essere il titolo (preso a prestito da Niccolò Tommaseo) di un libro su Leni Riefenstahl [...]. Nel senso che tutta la sua opera, di attrice, cineasta, fotografa, e forse anche la sua vita, si è svolta all’insegna di questo binomio: fede nell’ordine, nella disciplina, poi nel nazismo; gusto della bellezza in tutte le sue forme. Fin da quando, probabilmente, giovane allieva di una scuola di danza, poi ballerina d’un certo successo, volle imporsi tanto per la bellezza femminile (ed ebbe non pochi ammiratori ed amanti), quanto per la serietà, il rigore, la determinazione con cui volle perseguire un progetto artistico che si intrecciò, nel corso degli anni, con un progetto politico (sebbene non dichiarato). [...] Figlia di un uomo d’affari della buona borghesia tedesca, fu subito attratta dall’arte, dalla poesia, dalla bellezza, dallo sport, come ricordò con compiacimento in molte interviste e nella sua monumentale autobiografia uscita 15 anni fa. Un amore ricambiato che la fece conoscere, ventenne, negli ambienti artistici berlinesi. Ma fu soprattutto la danza, quasi una sintesi di pittura, scultura, musica, teatro, che evidenziava il corpo in movimento rivelandone la grazia, a segnare la sua strada, prima che un incidente le impedisse di continuare una brillante carriera appena cominciata. E allora fu lo sport, lo sci e l’alpinismo, a conquistarla, e infine il cinema, il cinema di montagna di Arnold Fanck, a imporla come attrice, forse un po’ inespressiva, poco duttile, ma indubbiamente affascinante, bella della bellezza della gioventù sana, sportiva, appassionata. Erano gli anni Venti, in una Germania afflitta dalla depressione economica e dai conflitti politici e sociali. Un cinema come quello di Fanck, con attori-alpinisti come Leni Riefenstahl e Luis Trenker, non poteva che piacere ad un pubblico stanco e preoccupato, incerto del domani e in gravi difficoltà economiche, che poteva acquietarsi ammirando gli spazi innevati, le cime inviolate, i paesaggi alpini. Di qui il successo di film quali La montagna dell’amore (1926) e La tragedia di Pizzo Palù (1929), Tempeste sul Monte Bianco (1930) e S.O.S. Iceberg (1933) e altri, in cui la Riefenstahl tratteggiava il personaggio, alquanto ripetitivo, della giovane donna coraggiosa alle prese con la natura selvaggia, bella e incontaminata ma anche pericolosa. Ma Leni, ormai sulla trentina, non si accontentava di stare davanti alla macchina da presa. Il suo interesse per il cinema significava anche coglierne dall’interno le possibilità espressive, impararne la tecnica, utilizzarne l’impatto spettacolare per comporre quell’inno alla bellezza, alla poesia visiva, all’esaltazione del corpo umano, del volto, dei gesti, che la danza prima, la recitazione e lo sport poi, le avevano instillato. Nel 1932, su un soggetto di Bela Balázs, dirige e interpreta La bella maledetta, una leggenda ambientata nel Tirolo meridionale, che tende a fondere l’incanto paesaggistico dei luoghi con la storia di una misteriosa “luce azzurra” (il titolo originale del film è Das blaue Licht) che si sprigiona in alta montagna, dove vive, solitaria e “maledetta” la bella Junta. Un film raffinato, estetizzante, pretenzioso, che segna non soltanto il passaggio della Riefenstahl dietro la macchina da presa, regista attenta e meticolosa, ma anche la manifestazione di un’idea di bellezza che ritroveremo nei suoi documentari nazisti, nel grande film sulle Olimpiadi di Berlino del 1936, e infine nelle straordinarie fotografie, in bianco e nero e a colori, che ella realizzò, soprattutto in Africa, negli ultimi quarant’anni della sua vita. Una bellezza che prescindeva in larga misura dal contesto storico e ambientale in cui collocava i suoi personaggi (reali o di finzione), nel senso che ne astraeva il contenuto per esaltarne la forma. Una bellezza che privilegiava il corpo o il paesaggio, a scapito il più delle volte della realtà, nella sua complessa sfaccettatura. Di qui il fascino che il suo cinema (e forse anche la sua persona) esercitò su Hitler, il quale, una volta giunto al potere nel 1933, la volle sua documentarista ufficiale. E di questa amicizia fra il dittatore e la bella regista molto si disse e si scrisse, e la stessa Riefenstahl, nell’autobiografia e altrove, ne parlò diffusamente. Così nel 1933 le fu commissionato il documentario sul congresso del partito nazionalsocialista a Norimberga, Sieg des Glaubens, la Vittoria della Fede, che fu presto tolto dalla circolazione e sostituito col successivo Triumph des Willens, Il trionfo della Volontà, in cui una normale manifestazione politica annuale, il congresso del partito, diventa il grandioso spettacolo di un evento straordinario, l’esaltazione del Führer e del nazismo, la rappresentazione magniloquente ed esteticamente affascinante, fra parate di giovani, sfilate di militari, entusiasmo della folla plaudente, e soprattutto discorsi esaltati ed esaltanti di Hitler, della potenza di una ideologia che fece della politica un’estetica (come aveva detto Walter Benjamin). Fu veramente il trionfo della “fede” e della “bellezza”, e la consacrazione della Riefenstahl come la regista del regime. Ella se ne compiacque, e si avvantaggiò di quel risultato e della protezione di Hitler, anche contro il potentissimo ministro della Propaganda Joseph Goebbels. Nel 1936 fu incaricata di realizzare il documentario sulle Olimpiadi berlinesi, e il risultato fu strepitoso. Leni dispose di tutti i mezzi tecnici e finanziari di cui aveva bisogno e di tutto il tempo che le occorreva. Il film, diviso in due parti, uscì solo nel 1938, due anni dopo, e fu un successo mondiale. Olympia vinse premi ovunque, affascinò il pubblico, non fu solo il resoconto dei giochi olimpici, ma il monumento cinematografico allo sport, allo sforzo dell’atleta, alla bellezza del corpo umano, alla religione laica della superiorità dell’uomo sulle stesse leggi naturali che, nata nell’antichità, il nazismo aveva riscoperto in tutta la sua magnificenza ed esaltato. La Riefenstahl divenne, più che per i film precedenti, poco visti fuori della Germania, la più grande e nota documentarista del tempo. Ma documentarista, in senso stretto, ella non fu mai. I suoi film, come in seguito i suoi splendidi albi fotografici e il suo ultimo straordinario libro di fotografie Afrika, uscito l’anno scorso per i tipi di Taschen, non sono semplici documenti (come la stessa Riefenstahl sosteneva che fossero, per difendersi dall’accusa di nazismo per Triumph des Willens), ma “opere d’arte”, in cui la poetica dell’artista si manifesta appieno. Immagini sapientemente create e selezionate, montate secondo un progetto estetico preciso, che riflettono una visione del mondo, come si può vedere anche in Tiefland, dall’opera di Eugen D’Albert, iniziato nel 1940, terminato nel 1954. Visione del mondo che, pur non essendo nazista, si identifica per molti aspetti con quell’ideologia. E per questo la Riefenstahl subì, dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, più di un processo. Processi forse ingiusti, ma che si basavano su dati di fatto (probabilmente insignificanti da un punto di vista giuridico): che ella subì il fascino del nazismo e contribuì coi suoi film ad esaltarne propagandisticamente la potenza» (Gianni Rondolino, “La Stampa” 10/9/2003). «Con il Terzo Reich e in particolare con Adolf Hitler, girò i più bei film della propaganda nazista, dal Trionfo della volontà, impressionante documentario sul congresso di Norimberga del 1934, al celeberrimo Olympia, la pellicola sui Giochi di Berlino del 1936, che probabilmente ha “inventato” la moderna cinematografia sportiva. Non nasconde di avere subito il fascino “ipnotico” del dittatore, ma di avere avuto i primi dubbi già dal 1937, quando Hitler cominciò ad esternare le sue farneticazioni a proposito dell’“arte degenerata”. “Mio Dio, mi sono detta non può essere vero che pensi queste cose, se si sbaglia in politica così come si sbaglia nell’arte, che Dio abbia pietà di noi”. In ogni caso, assicura di non avere mai avuto in testa l’idea di una “estetizzazione della politica”, quella che invece Walter Benjamin rimproverò alle sue opere. A proposito di Olympia, per esempio, sostiene di essere stata “affascinata dall’idea olimpica della pace” e di avere voluto “rappresentarla in un film in modo convincente”. Del resto rivela anche che il suo lavoro per Hitler subì molti tentativi di boicottaggio: da parte di Goebbels, il responsabile della propaganda che non tollerava di essere tagliato fuori dal suo rapporto diretto con il capo; dalle stesse file del partito nazionalsocialista e infine dalla Wehrmacht, l’esercito del Reich, che non si considerava ‘sufficientemente rappresentata” nelle sue pellicole» (Paolo Valentino, “Corriere della Sera” 7/1/2002). «Molto ammirata e molto biasimata: fra questi due aspetti estremi si bilancia la sua lunga e avventurosa vita d’artista […] Ha fatto i primi passi nel mondo dell’arte nella scuola di danza di Mary Wigman: per quanto tempo sarebbe rimasta fedele “alla più effimera di tutte le arti” se un incidente non l’avesse costretta, già a 21 anni, a cambiare professione? “La mia risposta è molto semplice: sarei rimasta volentieri anima e corpo una ballerina. Fra tutte le cose che ho intrapreso nella mia vita di artista, danzare è quella che mi ha maggiormente affascinato e appagato”. Dal profondo dei suoi sogni di danzatrice è riuscita ad arrivare subito al vertice della carriera cinematografica con il suo primo ruolo di attrice nel film di Arnold Fanck La montagna dell’amore (1926). Presto però puntò più in alto: volle creare lei stessa i contenuti e la loro struttura estetica e questo le riuscì splendidamente con il film La luce azzurra (1932) che segnò il suo debutto di regista. Ancor prima che Hitler diventasse cancelliere del Reich, lei volle conoscerlo di persona. Durante una passeggiata sulla spiaggia del Mare del Nord, ci fu una lunga conversazione gravida di conseguenze. Cosa la ha affascinata di questo uomo ancora prima della sua presa di potere? “Ho incontrato per la prima volta Hitler nel 1932 a Berlino, nel Palazzo dello Sport. Questa era la prima manifestazione politica a cui partecipavo. Rimasi senza parole vedendo quale enorme potere ipnotico Hitler esercitava sugli spettatori: era come un ipnotizzatore che incantava tutti trascinandoli nella sua sfera. Era inquietante, e la scintilla cadde anche su di me. Si trattava di quella sorta di irradiazione eccitante che non veniva solo da lui ma anche dal legame che univa l’oratore al pubblico. Ciò mi ha sconvolto profondamente molto profondamente direi , senza però che mi facessi problemi sul valore di tutto ciò. Mi domandavo che razza di uomo fosse uno che riusciva ad avere un simile effetto, che natura avesse veramente. Mi aveva incuriosito, ne volevo sapere di più su di lui, e allora mi venne l’idea di conoscerlo personalmente. Con una buona dose di ingenuità mandai una lettera alla “Braune Haus” di Monaco chiedendo un appuntamento. Mi volevo fare un’idea personale su cosa è la commedia, cosa è il teatro, cosa è la realtà. Ma non pensavo di essere degnata di una risposta; e invece questa venne, e anche molto presto”. Perché la risposta arrivò prima del previsto? “Per un caso. Quando il suo aiutante Bruckner gli portò la posta, Hitler rimase molto sorpreso dalla mia lettera perché appena due giorni prima aveva detto al suo aiutante che la cosa più bella che avesse mai visto era la danza di Leni Riefenstahl nel film La montagna dell’amore”. Definirebbe “fatale” il fatto che Hitler, durante la passeggiata sulla spiaggia del Mare del Nord, l’abbia ammirata anche come donna consapevole del suo valore e abbia definito la sua danza nel film La montagna dell’amore come la cosa più bella che avesse mai visto? “Sì. Il mio film La luce azzurra lo doveva aver impressionato, anche perché era fatto da una donna. Questo me lo ha detto personalmente”. Complimentandosi con lei, arrivò a prometterle che, non appena diventato cancelliere, l’avrebbe incaricata di girare i film per lui? “Sì. Con mia grande sorpresa mi disse proprio questo durante quella conversazione; e allora io, colpita, reagii dicendogli: ‘No, mein Führer, questo non lo farò, io so fare solo quello che cresce nel mio animo, solo quello per cui provo attrazione; film su commissione non li so fare’. Questa fu la mia risposta. Dato che rifiutavo la sua proposta, Hitler disse che un giorno, quando fossi stata più matura, avrei compreso meglio le sue idee”. Ha girato i film delle adunate di partito di Hitler: nel 1933 La vittoria della fede e nel 1934 Il trionfo della volontà. È riuscita a rendere interessante il documentario attraverso una nuova estetica, dandogli una valenza emozionale. Walter Benjamin definì questa operazione l’estetizzazione della politica. È stato intenzionale o casuale da parte sua aver reso popolare l’estetica negativa del nazionalsocialismo con l’aiuto dell’estetica positiva del film? “La risposta è molto difficile: non è possibile rispondere in due parole, concisamente. Le cose erano molto diverse. Piuttosto devo dire che, dopo la Luce azzurra, avevo il desiderio di girare solo film che mi affascinavano, realizzare progetti come Penthesilea o Michael Kohlhaas che mi appagavano. A film sulla politica o sulla scienza non solo non ero interessata, ma nettamente contraria. Lei può comprendere la mia disperazione quando Hitler mi chiese di fare film per lui. I primi lavori che mi propose erano su temi nazisti del tipo SA Brand o Il giovane hitleriano Quex: erano film che poi furono realizzati da altri”. Ma alla fine ci furono ben tre film girati da lei sui congressi di partito, o no? “La cosa fantastica e anche per me incomprensibile fu che dopo molti attacchi, ottenni di girare un solo film sui congressi di partito: era quello sul congresso di Norimberga del 1933, all’insegna del motto di partito “Vittoria della fede”. Hitler ne aveva dato incarico a Goebbels, il Ministero della Propaganda mi doveva aiutare. Ma già allora Goebbels mi odiava per varie ragioni e non obbedì all’ordine di Hitler. Tra i due ci furono grossi contrasti per questo. Quando Hitler poi mi ricevette per domandarmi a che punto ero con i preparativi a Norimberga, non avevo ancora la più pallida idea di quel che dovevo fare, visto che nessuno mi aveva informato; allora chiamò Goebbels e, in mia presenza, gli fece una bella strigliata. Sono quasi caduta per terra, fu una scenata feroce”. Dopo i suoi film si è dovuto ridefinire il concetto di montaggio. Ha imparato dai maestri russi? Ha imparato da Eisenstein, Wertow o dalla ricetta di Pudowkin secondo la quale l’uomo filmato non è altro che semplice materiale grezzo utile alla successiva composizione creata dal montaggio? “La devo deludere: niente influssi sui miei film. Ho visto i film russi molto tardi o non li ho visti proprio. Certo, ho ammirato Eisenstein, ma non vi ho trovato nessun riferimento al mio lavoro”. Jean Cocteau disse nel 1952: “Come potrei non essere il Suo ammiratore, dato che Lei è il genio della cinematografia?”. Susan Sontag ha osservato che “la potenza dell’opera di Leni Riefenstahl stava nella continuità delle sue idee estetiche”. Perfino Mick Jagger è un suo ammiratore. lei si vede davvero come “la vittima innocente di una cospirazione del silenzio” in Germania, come scrive il Cahiers du Cinema? “Sì, è così. Non ho mai capito perché qui in Germania mi hanno così attaccato ed evitato: è proprio il contrario di quanto le stesse persone avevano fatto nei miei riguardi prima della fine della guerra. Erano le stesse persone che prima della guerra scrivevano entusiaste del Trionfo della volontà o mi davano premi. Dopo la guerra hanno demonizzato i miei film definendoli stregonerie. Hanno visto i miei film con occhiali estremamente politicizzati. Dopo la guerra la gente era come paralizzata dagli orrori vissuti, questo è ben comprensibile”. E lei che ha pensato dopo la guerra? “Anch’io ero come paralizzata e ho visto le cose con occhiali completamente diversi, in un altro colore. Allora tutto apparve orribile. Prima non sapevamo nulla dei lager di Hitler, eravamo ancora spensierati, vedevamo solo l’opera positiva di Hitler. Ma quando fu reso noto tutto l’orrore compiuto nel nome del Führer e del suo partito, eravamo inorriditi, profondamente inorriditi. È stato un cambiamento enorme”» (Hilmar Hoffmann, “la Repubblica” 8/1/2002).