6 marzo 2002
RITCHIE
James e Joseph. ”Avevano accumulato una fortuna sul mercato dei derivati finanziari. Il loro pallino è l’Afghanistan. Erano stati loro a finanziare il leader dell’opposizione ai talebani Abdul Haq, recentemente catturato e fucilato. Non si limitavano a fornirgli soldi, armi e campi di addestramento, e a fare lobbying alla Cia, al Congresso e alla Casa Bianca perché puntassero sul loro protetto. Il più giovane, James, 44 anni, si era unito a lui sul campo. Suo fratello Joseph, 54 anni, restava a Chicago a occuparsi d’affari, una ventina di aziende che operano nell’immobiliare, in Borsa e nel finanziamento di attività accademiche, messe in piedi dopo che avevano venduto bene, nel ’93, la Chicago Research and Trading Group, gioiello di famiglia che si occupava di derivati. Se James è vivo, lo deve al fatto che, quando Haq è stato catturato, si trovava a Peshawar. Grazie ai buoni uffici di Robert McFarlane, già consigliere per la Sicurezza nazionale di Reagan, e ora loro consulente, era riuscito a ottenere che la Cia inviasse un aereo a prelevare Haq. Non sono arrivati in tempo. Li considerano rompiscatole pasticcioni. Pare che il loro attivismo non sia ben visto dai professionisti a Langley e a Pennsylvania Avenue. Li considerano rompiscatole
pasticcioni. Non gli perdonano di aver forzato un’operazione il cui esito catastrofico getta un’ombra pesante sull’andamento della guerra. Non hanno ben capito perché, in che cosa consista il loro tornaconto. Dice di non averlo capito anche la loro mamma, l’ottantunenne Winifred Ritchie, che pure è in un certo senso responsabile della passione dei figli per l’Afghanistan (li aveva con-dotti con sé quando, tra il ’57 e il ’61, suo marito, Dwight, insegnava ingegneria civile a Kabul e aveva contribuito a costruire l’università; lei stessa, sino a non molto tempo fa, tornava spesso nella regione, a insegnare inglese ai profughi afghani in una scuola di Islamabad). ’Non siamo mai stati politicizzati. Non siamo islamici ma cristiani evan-gelici, ma abbiamo sempre fatto attenzione a non immischiarci in cose religiose a Kabul. Il contratto di mio marito prevedeva che ci astenessimo dal fare proselitismo. Perché i miei ragazzi si siano messi a fare tutto questo non lo so. Penso che lo facciano perché lo considerano un po’ come il loro paese. Amano l’Afghanistan’, dice. Non riesce a cavare un ragno dal buco nemmeno chi pone la questione ai diretti interessati. Insistono a dire che non hanno motivazioni segrete. Si ipotizza che vogliano fare affari quando e se tornerà a Kabul re Zahir, che avevano cominciato a corteggiare quando nessuno se lo filava. Ma non è detto. ’Fanno spesso cose buone, ma nessuno sembra sapere
perché. Difficile leggergli nel pensiero, ha detto Philip Smith, lobbista specializzato in cose afghane che lavora per loro” (’Il Foglio” 13/11/2001).