Varie, 6 marzo 2002
RIVERA Gianni
RIVERA Gianni Valle San Bartolomeo (Alessandria) 18 agosto 1943. Ex calciatore. Con il Milan vinse tre scudetti (1961/62, 1967/68, 1978/79), due coppe dei Campioni (1962/63, 1968/69), una coppa Intercontinentale (1969), due coppe delle Coppe (1967/68, 1972/73), quattro coppe Italia (1966/67, 1971/72, 1972/73, 1976/77). In nazionale 70 presenze e 14 reti. Campione d’Europa nel 1968, vicecampione del mondo nel 1970. Pallone d’oro 1969, secondo nel 1963, settimo nel 1965, nono nel 1964 e nel 1968, è stato probabilmente il miglior calciatore italiano del dopoguerra. Intrapresa la carriera politica, nel 1987 fu eletto alla Camera dei Deputati, dal 1998 al 2001 fu sottosegretario alla Difesa. Dall’agosto 2010 presidente del settore scolastico e giovanile della Figc • «Secondo molti è stato il migliore calciatore italiano: di certo, uno dei più rappresentativi e di maggior talento, tanto amato quanto (a volte ingiustamente) criticato. Campione precocissimo, ha forse avuto il “torto” di bruciare le tappe più importanti della carriera di un calciatore: prima partita in serie A a quindici anni, prima maglia olimpica a 17, primo scudetto, convocazione in nazionale maggiore e primo mondiale a 19. Non aveva ancora compiuto vent’anni che già aveva alzato al cielo la coppa dei Campioni. E avrebbe giocato per altri sedici anni, arrivando a conquistare il terzo e ultimo scudetto proprio alla vigilia del suo ritiro. La sua classe purissima, la sua intelligenza tattica, la sua visione di gioco, i suoi tocchi leggeri e i suoi passaggi smarcanti ne hanno fatto una leggenda clacistica: a dispetto della sua presunta fragilità fisica, che Gianni Brera bollò annoverandolo nella categoria dei cosiddetti “abatini”» (M.B., Enciclopedia dello Sport, Treccani 2002) • «Ho avuto la fortuna di fare per mestiere quello che mi divertiva di più, cioè giocare a pallone. [...] Ricordo che era la penultima giornata di campionato, che da una settimana l’Alessandria s’era messa in salvo e che l’allenatore Pedroni decise di lanciarmi contro l’Inter. Ricordo pure di non essermi emozionato perché l’emozione non ha mai fatto parte del mio carattere, nemmeno da ragazzino [...] Abatino è una definizione che Gianni Brera affibbiò a me, Mazzola e Bulgarelli. Loro due se ne infischiarono, mentre io risposi, innescando una polemica. Andò a finire che l’unico abatino rimasi io, ma il termine non mi ha mai infastidito [...] Avrei potuto e dovuto vincere molto di più. In parte fu colpa nostra, ma in parte dipese da scelte politiche nella stanza dei bottoni [...] Più che un barricadero, comunque, ero uno che cercava di ragionare e riteneva di poter esprimere le proprie opinioni perché, oltre ai piedi, possedeva una testa, nel senso del cervello. Quando l’ho fatto, ero consapevole di dover affrontare tutte le conseguenze [...] la pressione di una "cupola" di giornalisti dell’epoca che mi vedevano come il fumo negli occhi. [...] Dicevano che fossi poco mobile. [...] Con Mazzola ci sono sempre stati rispetto e stima reciproca, mai amicizia, perché all’epoca era impensabile che i capitani di Milan e Inter si frequentassero. In Nazionale, però, legavamo benissimo perché possedevamo caratteristiche diverse [...] Dopo il ritiro ho passato i primi due anni quasi in trance prima di abituarmi a un’altra vita. Mi hanno aiutato il tennis, qualche partitella fra amici e poi il matrimonio e i figli [...] Ho smesso di giocare da quasi un quarto di secolo, eppure ci sono ragazzini di nove o dieci anni che per strada mi riconoscono e mi fermano per chiedermi l’autografo. Io resto stupito, ma ne sono contento» (Mario Gherarducci, “Corriere della Sera” 15/8/2003) • «Se tornassi indietro, rifarei tutto. Quando dissi certe cose feci dei ragionamenti basandomi su fatti precisi, e non su un mio mal di pancia. Forse l’unica presa di posizione che potevo evitare fu quella con Buticchi. Dopo qualche anno ci siamo chiariti, ma allora se non avessi reagito in quel modo avrei lasciato il Milan, e a me spiaceva troppo lasciare ilMilan [...] L’unico rimpianto è quello di non giocare più, perché io avrei giocato sempre, per tutta la vita e non avrei mai smesso. Per me giocare era il massimo, perché sono sempre sceso in campo con la stessa passione e lo stesso entusiasmo, all’oratorio e nelle finali di coppa dei Campioni e ancora oggi quando posso dare due calci al pallone sono felice [...] Mi porto dentro i ricordi di vent’anni meravigliosi. La vittoria di Wembley è stata particolare perché quella era la prima coppa dei Campioni vinta da una squadra italiana, ma il successo che mi ha dato più gioia è stato il primo scudetto perché avevo 18 anni. Ricordo il giorno in cui arrivò Dino Sani dal Brasile. La domenica dopo con lui battemmo la Juve 5-1 e tutti capimmo che potevamo diventare campioni d’Italia [...] Pelé: il numero uno in assoluto, a livello tecnico e umano, davanti a Maradona. Purtroppo non sono mai riuscito a giocare con lui, nemmeno un minuto. Stavo per farcela in Belgio, in occasione dell’ addio di Van Himst, ma quella sera lui giocò il primo tempo e io il secondo. Evidentemente era destino che ci sfiorassimo soltanto [...] L’uomo che mi manca di più è Rocco. A volte mi manca fisicamente, perché con lui avevo un rapporto straordinario. Spesso mi accorgo che uso le sue frasi, penso a quello che potrebbe dire lui e mi vengono in mente tutte le sue espressioni. Rocco per me è stato unodi famiglia, tanto è vero che sono sempre in contatto coi suoi figli, Bruno e Tito [...] Mi sento un tifoso del Milan finoa quando i risultati non vengono sfruttati dal suo presidente a titolo personale» (Alberto Cerruti, “La Gazzetta dello Sport” 15/8/2003) • «L’Alessandria mi cedette al Milan nel 1960. Volevano darmi tre milioni a stagione, firmai per nove. Nel 1979, al passo d’addio, viaggiavo sulla settantina, lira più lira meno [...] Da piccolo ero gracile e timido. Piano, piano ho messo su ciccia e artigli. Devo molto a mio padre, Teresio. Faceva il ferroviere, votava socialista. Mi ha insegnato ad anteporre gli ideali alle ideologie [...] Nel ’68, con Sergio Campana, Giacomo Bulgarelli, Sandro Mazzola e altri fondammo il sindacato calciatori. Ecco, gli eccessi sessantottini non li ho mai capiti. E pure i traumi di Tangentopoli mi hanno lasciato perplesso. Avrei preferito sbaragliare la vecchia politica con metodi meno cruenti. Per esempio, a colpi di referendum. Sarebbe bastato cambiare il sistema elettorale: ci siamo arenati a metà strada, non più proporzionale, non ancora maggioritario secco [...] Ho sempre invidiato la forza e la pazienza di Gandhi [...] Una persona come Padre Eligio mi ha insegnato molto. Ma più che un idolo, lo considero un esempio. Mondo X, il volontariato, Telefono amico, mi hanno segnato e coinvolto. Sono rimasto in contatto, do una mano [...] Il Paron rimane di un’altra categoria. E non solo perché, alle Olimpiadi di Roma, ci portava il vino, proibitissimo, dentro le bottigliette di Coca-Cola. Mi manca “fisicamente” [....] Ho accompagnato il Milan in cima al mondo da capitano e in B da dirigente. Non ho mai offerto l’altra guancia, ho pagato di persona, con fior di squalifiche. Vorrei trapiantare un cuore, uno qualunque, in questo sport senz’anima» (“La Stampa” 14/8/2003) • «“Io non mi sono mai stupito dell´eccezionalità delle cose che sapevo fare, avevo questo dono e l´importante era non sprecarlo. D´altra parte non mi sono mai emozionato in vita mia, ero sempre sicuro di quello che facevo”. Rivera è stato precoce, ma anche continuo, ha vinto il titolo dei cannonieri a 30 anni, uno scudetto a 35. Quando ha esordito in serie A non aveva ancora 16 anni. L´apparizione del suo genio avvenne ai primi di giugno del ´59, in un Alessandria-Inter, penultima giornata del penultimo campionato che l´Alessandria avrebbe disputato in serie A. Dall´altra parte c´era Aristide Guarneri, poco più grande di lui, con cui avrebbe fatto tanta strada in nazionale. “Ricordo poco di lui, un ragazzo gracile, che toccava bene la palla”. Meazza, quando lo vide, lo paragonò a se stesso. Gracilino. Ma certo, aveva meno di sedici anni in tempi in cui non si "costruiva" il corpo. “Ma io correvo, a calcio se non si corre non si può giocare”. L´anno dopo, ancora con la maglia dell´Alessandria, segnò al Vomero un gol in slalom, saltando un paio di difensori del Napoli, e “appena dentro l´area calciai di destro e presi in contropiede Bugatti. Pedroni che era il centromediano, il capitano e l´allenatore, venne ad abbracciarmi piangendo”. Certo i dribbling non li aveva fatti da fermo, ma intanto si portava dietro quell´etichetta di minorato fisico. Glielo riconosce adesso anche Giovanni Lodetti, quello che, si diceva allora, correva per lui. “Non era vero che non corresse: più semplicemente, al Milan avevamo capito che era comunque meglio farlo rimanere lucido evitandogli di spomparsi”. Giocò le prime partite con il numero 9 sulla schiena, poi fu subito 10. L´Alessandria l´aveva offerto alla Juventus, ma era stato respinto appunto perché "gracilino". Il Milan capì invece chi era quell´impassibile figlio di un contadino e lo prese per 90 milioni, cifra per allora di una certa consistenza. Fu subito titolare dalla prima giornata, nella stagione ´60-´61, con il 10 sulle spalle. E´ stato il leader di un gruppo di giocatori che negli anni ´60 rinnovò il calcio italiano, la generazione che arrivò immeritatamente quarta alle Olimpiadi di Roma. L´Italia che non si era qualificata ai Mondiali ´58, che viveva solo di Charles e Sivori, rinasceva con lui e Bulgarelli. Il primo scudetto, a 19 anni (“Il ricordo più bello, una gioia particolare, ero giovane”), la Coppa dei Campioni a 20 anni, quando il "gracilino" strappò il pallone a centrocampo e lanciò due volte Altafini in contropiede contro il Benfica, a 21 anni capitano della nazionale (“ma perché si era infortunato Salvadore”), e poi a 26 la grande vittoria sull´Ajax, la seconda Coppa dei Campioni, con la famosa azione del quarto gol. Rivera tentò di saltare il portiere e si allargò il pallone, troppo. Allora si fermò e mise a mezz´aria una palla sul palo lontano sulla quale si avventò Prati, che aveva capito tutto partendo cinque secondi e cinquanta metri prima. A vederla, stupisce ancora il tocco perfetto con il quale Rivera mette il pallone lì dove non c´è nessuno. [...] Aldo Maldera raccontò una volta che Rivera gli disse: quando ho la palla, anche se io non ti guardo scatta e io te la faccio trovare davanti. Maldera magnificava la precisione di quei passaggi. Ma è vera questa storia? “È vera, ma nel senso che accadeva. Ma non ce lo siamo mai detto. È l´intesa che hai con i compagni che fa accadere queste cose”. Il miglior talento del calcio italiano ha avuto anche molti nemici. “C´era una cupola che decideva, tra giornali e federazione, gente per di più con una mentalità ’federale´, nel senso del Ventennio. Una minoranza che aveva il potere e i suoi servi sciocchi. Tutti i guai nascevano da lì. E il Milan allora non aveva peso politico, non aveva rapporti con questa struttura”. Nella semifinale contro la Germania fu il protagonista del minuto più eccitante della partita più eccitante di tutti i mondiali azzurri. Era vicino al palo, avrebbe dovuto impattare il colpo di testa di Mueller. “Credevo che andasse fuori, cercai di deviarla con l´anca. Non mi venne neanche in mente di deviarla con il braccio”. Fu 3-3. Ma poco più di sessanta secondi dopo, il riscatto e l´Italia in finale, quando sul cross di Boninsegna scelse di prendere in contropiede Maier. “Ebbi la visione del portiere che si spostava e si tuffava. Anche se poi non si era ancora spostato e stava per prenderla! Più che una visione è stata una premonizione”. E fu 4-3. Quella finale Rivera non la giocò, la cupola gli concesse solo sei minuti all´Azteca, un affronto al talento e al buon senso. “Ma Valcareggi non aveva colpa, non è che sapesse cosa doveva fare. Cercava di restare a galla”» (Corrado Sannucci, “la Repubblica” 18/8/2003).