Varie, 6 marzo 2002
ROMITI
ROMITI Cesare Roma 24 giugno 1923. Manager. Imprenditore. «Clone di Vittorio Valletta. Feroce cane da guardia e da difesa, mastino a coda tronca, dalle mandibole d’acciaio. Se ne stava lemme lemme a Mediobanca quando Enrico Cuccia lo spedì a Torino con una missione impossibile: raddrizzare la Fiat in cui invece di lavorare si faceva il salto della scocca, si sparacchiava alle gambe dei capireparto, si investiva poco e non si guadagnava punto. All’epoca Gianni, l’Agnelli che pensa, aveva fatto proprie le sciagurate previsioni del Mit secondo cui solo sette costruttori d’auto al mondo sarebbero rimasti in vita all’orizzonte del Duemila. E la stampa straniera guardava alla grande famiglia come si guarda a un eccentrico dandy. Cesare arrivò e disse: date a Cesare quel che è di Umberto. E la Fiat sopravvisse. Il mastino fece piazza pulita, sbatté fuori anarco-sindacalisti e fiancheggiatori dei brigatisti. Venne anche Enrico Berlinguer a piangere davanti ai cancelli di Mirafiori ma Romiti non lo fece entrare. Dopo vent’anni d’onesti servigi lascia l’impero, con in premio un forziere pieno e un feudo minore, si fa per dire, la Rizzoli-Corriere della Sera. Continua ad avere l’aria di persona informata dei fatti. Lo dicono in cuor suo innamorato della politica» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 31/10/1998). «Prima di andare alla Fiat e di diventare un pezzo di storia dell’industria italiana, aveva ”già fatto qualcosetta. Per dire, ero già stato amministratore delegato dell’Alitalia. Lo so, l’esperienza a Torino accanto all’Avvocato (venticinque anni: e che anni!) è stata così importante che pare io abbia fatto solo quello. Ma andai alla Fiat che avevo già passato la cinquantina”. Eppure di questa sua vita ”prima”, a leggere le biografie sui giornali, non è che si sappia molto: romano, figlio di un impiegato statale... ”Si chiamava Camillo, era figlio di un artigiano e lavorava alle Poste. Eravamo tre fratelli, io ero quello di mezzo. Abitavamo dalle parti di Santa Croce in Gerusalemme e stavamo piuttosto stretti. Non era una famiglia ricca. Anzi, diciamo pure che, con uno stipendio solo in casa, facevamo una vita dura. Di stenti”. Pollo solo alla domenica? ”Quando c’era. Dopo la morte di papà, che perdemmo nel 1941, quando io avevo 17 anni, mancò pure quello. Mamma non lavorava, vivevamo con la sua pensione di vedova. Eppure mi ricordo felice. Sì, sono stati gli anni più felici della mia vita”. Balilla? ”Balilla, certo. Eravamo tutti Balilla. Ho rivisto recentemente Una giornata particolare di Ettore Scola. Grandissimo film. Ecco, era la mia Roma. Si rideva con niente. Per andare a scuola mi facevo cinque chilometri a piedi, ridendo e giocando, senza prendere il tram perché costava. Non ricordo di essermi mai posto neppure il problema, del tram. Si camminava e basta. In allegria. Si camminava e si pedalava. L’anno prima di morire papà, una mattina, mi fece trovare una bicicletta in regalo. Nera. Non ricordo di aver più avuto un momento di felicità intenso come quello. Mai. Ci andai perfino in Abruzzo, con quella bici. Panini con la mortadella e marmellata in tavoletta. Ma ero pieno di progetti”. Quali? ”Ero indeciso fra tre idee. Il primo sogno, pensi un po’, era quello di fare il segretario comunale in un paese piccolissimo, il più piccolo possibile. Il secondo di fare il direttore d’orchestra: in realtà non sapevo molto di musica ma mi affascinava questa figura con la bacchetta che riesce a dirigere tanti uomini. Il terzo era fare il farista”. Con la ”f”? ”Guardiano del faro. Vado matto per i fari. Sono andato a vederne uno, a Giannutri, anche ultimamente. Ecco, questi erano i sogni. Come vede, non son riuscito a realizzarne uno”. Praticamente è un fallito... ”L’ ha detto: un fallito”. E come si è ritrovato a fare l’uomo forte della più grande impresa italiana? ”Cominciai come impiegato in un paio di banche. Poi andai a lavorare a Colleferro, alla Bombrini Parodi Delfino. Lì si compì la mia formazione manageriale, lì fui il promotore della fusione con la Snia Viscosa, lì diventai direttore generale finanziario. Da lì partii per arrivare a fare l’amministratore delegato all’Alitalia”. Nel frattempo si è sposato... ”Giovane. Molto giovane. E squattrinato. Mia moglie venne a vivere con mia madre e i miei fratelli. Il nostro primo ”lusso’ fu una Topolino. Di seconda mano. Fatti dieci chilometri cominciò a fumare e si piantò”. Mica male, come primo incontro con la Fiat! ”Un disastro”. Non mi dirà che fu per questo che tanti anni dopo... ”No. A Torino finii su consiglio di Cuccia. L’avevo conosciuto al momento della fusione con la Snia Viscosa. Personaggio affascinante. Unico. Apertissimo. Un azionista antifascista che aveva la moglie che si chiamava Idea Socialista e una cognata di nome Vittoria Proletaria. Un uomo intellettualmente interessato a tutto, che trattava coi grandi della finanza ma era pieno anche di amici di sinistra. Ricordo la curiosità con cui volle conoscere Valentino Parlato, che era amico mio”. Ecco: com’è che voi due diventaste amici? Il mastino della Fiat e il direttore del ”Manifesto”... ”Valentino venne a Torino durante quei famosi 35 giorni di sciopero del 1980. Praticamente si era proprio trasferito a Torino. Era convinto non solo che io avrei sbattuto il grugno su quello sciopero, non solo che la Fiat ne sarebbe uscita stravolta ma che nella scia di questa vittoria operaia sarebbe arrivato proprio il comunismo. Lo volli conoscere. Per capire come mai... Ci trovammo a pranzo con Guido Rossi. Scoprii un uomo intelligentissimo”. Le seccava l’accusa di essere un reazionario. ”Sì. Molto. Mi ha sempre seccato, quell’accusa. Non lo sono. Vengo da un certo tipo di famiglia. Un certo tipo di storia. Come posso essere un reazionario? Un conservatore? Come potevo esserlo anche allora?”. E si è convinto, Valentino? ”Si è convinto sì. Io semmai sono uno che vuole rovesciare l’ordine costituito”. Oddio: Romiti un rivoluzionario? ”Eh eh... Briccone... Sono uno che vuole cambiare, cambiare, cambiare... Ma lei sa com’era la Fiat quando arrivai? Le impiegate non potevano vestire di rosso, non potevano portare i pantaloni, non potevano mettere le scarpe a punta... Era una enorme azienda dove tutta la contabilità era ancora fatta a mano. Dove i conti erano stati tenuti per anni e anni, così voleva Valletta, dalle segretarie. Come la leggendaria ”Tota’ Bava”. Donne che sposavano l’azienda e spesso direttamente il capo, come appunto la moglie di Valletta, racconta Aldo Cazzullo ne I ragazzi di via Po. ”Esattamente. Quando arrivai trovai una situazione da mettersi le mani nei capelli. Valletta era morto da sei anni lasciando una liquidità enorme: enorme. Eppure, eravamo in novembre, non c’erano in cassa neanche i soldi per le tredicesime”. Sta scherzando? ”Ma manco per niente. In sei anni avevano fatto delle cose... Il fatto è che quella è un’ azienda che ha bisogno di un capo. Un capo vero. Ne avrò parlato mille volte con l’Avvocato, che ne era perfettamente cosciente: gli Agnelli sono bravissimi a regnare. Non a governare. Dissi: qui bisogna pagarle, le tredicesime. Mettiamo tutte insieme le banche con cui abbiamo a che fare e facciamoci dare i soldi. Mi ricordo il viaggio a Milano con il responsabile dei rapporti con le banche. Era affranto, inconsolabile: ”Noi, la Fiat, chieder soldi, che vergogna, che vergogna...’. C’ era da cambiar tutto, là dentro. E facemmo davvero la rivoluzione. Ma lei se li ricorda quegli anni?”. Abbastanza... ”La situazione era pesantissima, economicamente e politicamente. Rapporti sindacali tesissimi, infiltrazioni eversive, collegamenti diretti col terrorismo... Tanti anni dopo pare impossibile ma, a parte gli assassini terribili di Casalegno e Ghiglieno, spararono a sessanta dipendenti. Dico: sessanta dipendenti vittime di attentati! Era invivibile. Invivibile”. Finché non tentarono di rapire anche lei. ”A Roma. Mi andò bene che quella volta avevo cambiato programma. Quella sera mi dissi: qui si vede se ho i nervi saldi o no. Se dormo ce li ho, sennò no”. Dormì? ”Dormii. Quelli che mi volevano rapire, poi, parlarono”. Ci credo: diedero loro una tale spazzolata... ”Sì, ci furono polemiche forti. Il giudice aveva detto ai poliziotti: ”Ci vediamo lunedì’. In pratica lasciò loro un giorno e mezzo per i primi interrogatori. E da lì partì anche la liberazione di Dozier”. Mai avuto la curiosità di incontrarli, quei brigatisti? ”Me lo chiesero, qualche anno dopo, un incontro. Mi scrissero dal carcere. Volevano conoscermi. Dissi di no. Sbagliai. Oggi mi dispiace, di non aver accettato”. A proposito di errori, qual è stato il più grosso? ”Mah... Ne ho fatti talmente tanti... Una cosa di cui mi sono pentito, per esempio, è aver rinunciato per due volte di fare il presidente di Confindustria. ”Ma che ci va a fare...’ mi diceva l’Avvocato. Invece... Insomma, mi sono convinto che, in quegli anni, avrei potuto segnare una svolta. Si poteva incidere molto più che oggi”. La condanna per le tangenti? ”Quello fu il momento più amaro. Sul quale, un giorno, mi aprirò...”. Adesso no? ”Non è l’occasione giusta. una cosa troppo grave. Preferisco non parlarne così... Anche perché durante lo svolgimento del processo notai tante di quelle anomalie... Lasciamo stare. Ne riparleremo”. La cosa di cui va più fiero, invece, fu la famosa Marcia dei 40 mila, immagino. ”Certo. La soddisfazione più grande fu quella. Cambiò tutto. Nella prospettiva in cui era visto il mondo del lavoro, della fabbrica, della produzione. I ”miei’ una mano l’avevano data, nell’organizzare una manifestazione di protesta dei quadri in un cinema. Quello che successe dopo, invece, non ce l’aspettavamo proprio. Uscirono dal cinema e via via che camminavano diventarono migliaia”. Dica la verità: la fama di reazionario le dava fastidio, ma quella di mastino no... ”Beh, insomma... Tutto sommato, no”. E da ”capo” della Fiat che rapporti aveva con i giornali? ”Distaccati. Anche con La Stampa. Distanti”. Chiamava anche lei per lamentarsi? ”No, non mi pare proprio. Certo, capitava che dicessi: ma perché non avete controllato meglio, quella cosa? Non credo di essere stato mai prepotente”. Il Palazzo lo è spesso... ”Diciamo che la mia prospettiva, il mio modo di vedere un giornale è cambiato, standoci dentro. Ho capito meglio la delicatezza di certi meccanismi. Lo spirito di libertà... L’ obbligo di dare comunque sempre tutte le notizie. Chi è fuori non sempre ce l’ ha chiaro. Mi è rimasta impressa, per esempio, una telefonata di Spadolini”. Cioè? ”Un giorno mi chiamò per lamentarsi di un articolo. Voleva capire. Aveva idea di chissà quale retroscena. Voleva sapere se ”la famiglia era al corrente’... La famiglia! Ora, a parte questa idea da leggenda un po’ ridicola della famiglia Agnelli che stava come un’ombra dietro ogni cosa (una volta un giornale arrivò a scrivere che il governo non ricordo di chi nasceva con dodici ministri voluti dalla Fiat: dodici ministri! Dissi ai miei: è una scemenza ma guai a chi smentisce), quello che mi stupì è che anche uno come lui, che il direttore l’aveva fatto, cascasse nel vizietto di tutti”. Tutti? ”Tutti. Ho fatto l’editore con un governo di sinistra, lo faccio con uno di destra. La tentazione di fare un po’ i prepotenti è troppo forte. Poi, certo, c’è chi ha più potere e chi meno, però la tentazione... Insomma, ci provano”. Le pesa? ”Non è che mi pesa. Li ascolto. Se esagerano li mando a quel paese”. Tutti? ”Tutti”. L’ha fatto anche con Berlusconi? ”Anche”. Agnelli diceva: finché ci sono io... ”Lo dico anch’io. Più forte ancora: finché ci sono io il Corriere non si tocca”» (Gian Antonio Stella, ”Corriere della Sera” 22/6/2003). «Gli otto anni da imprenditori dei Romiti non possono essere facilmente catalogati come una storia di successo. Il capostipite Cesare ha ottenuto la quota in Gemina come liquidazione per i suoi 23 anni al timone della Fiat. E con il supporto di Cuccia e dei suoi alleati ha preso il controllo di Rcs (allora Hdp) e di Impregilo. In Hdp ha ”sistemato” il primogenito Maurizio, mentre il business delle costruzioni è stato affidato all’altro figlio Piergiorgio. Il primo, nei suoi anni di gestione, si è cavato poche soddisfazioni e ancor meno ne ha regalate ai suoi azionisti visto che con la disastrosa diversificazione nella moda ha bruciato oltre 500 milioni di euro di perdite. Unica consolazione – per lui, meno per i soci – la maxi-liquidazione da 16,7 milioni con cui è uscito di scena lo scorso anno. Piergiorgio invece ha pagato le difficoltà delle grandi opere e alla fine, venduta Impregilo a Gavio e Benetton, ha dovuto passare la mano. L’inizio della fine è stato però a giugno 2004 quando Gemina, a corto di liquidità, è stata costretta a cedere la quota in Rcs. Strappare il Corriere a Cesare Romiti è stato come tagliare i capelli a Sansone: il suo potere d’interdizione in quello che resta del salotto buono – dopo l’addio a Via Solferino – si è ridotto di molto. Così in pochi mesi le vecchie alleanze – in apparenza granitiche – si sono rivelate più fragili del previsto. E gli alleati dei tempi d’oro si sono trasformati nei cerimonieri della spoliazione della Miotir. Oggi ai Romiti – dopo l’addio agli aeroporti – resta ben poco. Un presunto potere d’interdizione – ma di minoranza – nella cassaforte ribattezzata con l’anagramma del cognome di famiglia. La poltrona di ad di Gemina affidata (per ora) a Piergiorgio. E in più la Pentar, la boutique finanziaria messa in piedi da Maurizio con l’ambizione di diventare una piccola Mediobanca. Peccato che adesso anche in Pentar, dove le quote più significative sono in portafoglio a Miotir e Gemina, il ruolo dei Romiti rischia di essere solo quello delle comparse» (Ettore Livini, ”la Repubblica” 17/11/2005).