varie, 6 marzo 2002
ROSSI
ROSSI Paolo Prato 23 settembre 1956. Ex calciatore. Campione del mondo nel 1982 (capocannoniere del torneo), Pallone d’Oro nello stesso anno. Cresciuto nella Juventus, lanciato dal Vicenza (capocannoniere nel 1977 in B e nel 1978 in A, doppietta ripetuta solo trent’anni dopo da Alessandro Del Piero), poi al Perugia (squalificato per il calcioscommesse), con i bianconeri vinse gli scudetti del 1982 e 1984, la coppa dei Campioni del 1985, la coppa dell Coppe del 1984 ecc. Ha gicato anche con Milan e Verona. Adesso commentatore su Sky • «Pallido e fragile, tre menischi fra i sedici e i diciannove anni, la sua carriera è un romanzo. Allodi lo scopre quindicenne e lo acquista per una dozzina di milioni di lire. Tirocinio a Como, con Bagnoli, poi il boom a Vicenza, con Gibì Fabbri. Nel 1978, Rossi trascina il Lanerossi al secondo posto dietro alla ”sua” Juve. Riscattato da Farina (alle buste, due miliardi e rotti contro gli 800 milioni di Boniperti), girato al Perugia, viene coinvolto nello scandalo del calcio-scommesse e squalificato per due anni. Finalmente, la Juve lo riacquista e comincia tutta un’altra storia. Scudetti, coppe e, soprattutto, il titolo mondiale del 1982 con la Nazionale di Bearzot, che già se l’era portato in Argentina. Tripletta storica al Brasile e sei gol in tutto. Dall’Alaska alla Patagonia per tutti è Paolorossi, Pablito. Un intuito straordinario, sempre al posto giusto nel momento giusto. Sembra Zorro. In campionato, con i bianconeri, 83 presenze e 24 reti; 2 scudetti (1982, 1984), 1 Coppa Italia (1983), 1 Coppa delle Coppe (1984), 1 Supercoppa d’Europa (1985) e la tragica Coppa dei Campioni dell’Heysel (1985). Pallone d’oro 1982, 48 presenze e 20 reti in azzurro» (’La Stampa” 2/2/2004). «Non ero un fenomeno atletico, non ero nemmeno un fuoriclasse, ma ero uno che ha messo le sue qualità al servizio della volontà […] Non ho scheletri nell’armadio, mi sono fatto di anni di squalifica per lo scandalo delle scommesse senza colpe […] Sono il centravanti che fece tre gol ai brasiliani. Sono anche altre cose, ma essenzialmente quella. Mi rivedo con la maglia azzurra numero 20 e mi fa piacere perché la nazionale unisce mentre le squadre di club dividono. A volte passano anni senza che mi arrivino telefonate speciali, ma quando mancano due mesi al mondiale comincia a squillare il telefono. E tutti mi chiedono del Brasile» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 25/4/2002). «Nel ”78 in Argentina diventò ”Pablito”, un nomignolo al quale quattro anni dopo in Spagna s’aggiunse la definizione di ”hombre del partido”, l’uomo-partita. Merito dei tre gol rifilati al Brasile, prologo al titolo di capocannoniere nel Mondiale vinto dall’Italia. Abbandonato il calcio a poco più di 31 anni (’Colpa di un martoriato ginocchio sinistro”), oggi Paolo Rossi vive e lavora a Vicenza, la città che lo ha adottato nel ”76, quando lui proveniva da tre stagioni nel settore giovanile della Juventus, da altrettanti menischi asportati e da uno spezzone di campionato nel Como. Ex fidanzato d’Italia, il goleador pallido e smunto che piaceva anche alle nonne, conserva un’inossidabile popolarità. ”C’è ancora gente che per strada mi saluta, mi ferma e mi chiede l’autografo. Persino molti bambini, che all’epoca del Mondiale ”82 non erano nemmeno nati. Chissà, forse hanno sentito parlare di me dai genitori o mi hanno visto in qualche spezzone televisivo. Se una volta la popolarità era spesso stressante, oggi essere riconosciuto mi dà una sensazione gradevole. [...] Quando ho smesso di giocare, ho deciso di staccare completamente la spina, dedicandomi al mestiere di immobiliarista. In seguito mi è balenato talvolta il desiderio di un incarico particolare legato al pallone, qualcosa di piacevole e poco impegnativo, tipo quello che fa Gigi Riva in nazionale. [...] Quello alla Juve, professionalmente, è stato il periodo più bello della mia carriera. C’era molta umanità da parte delle società e tanti campioni in squadra. Ho avuto la fortuna di giocare con Platini, uno straordinario fuoriclasse, sicuramente il compagno più bravo che mi sia capitato di affiancare. Raramente una generazione ha comunque fornito tanti campioni come quelli di cui disponeva la Juve nella prima metà degli Anni 80. Oltre a Platini, c’erano Scirea e Tardelli, Gentile e Cabrini, Bettega e Boniek”. Una sola stagione a Perugia, invece, macchiata alla fine dallo scandalo delle scommesse. ”Ancora adesso, a distanza di oltre vent’anni, mi chiedo come abbia fatto qualcuno a coinvolgermi in una vicenda alla quale ero totalmente estraneo. Mi sono ritrovato addosso due anni di squalifica senza aver commesso nulla. A parte quell’episodio, Perugia è stata un’esperienza piacevole. Sapevo di esserci capitato soltanto di passaggio, quasi in leasing. Però ho avuto la fortuna di incontrare un presidente squisito come D’Attoma ed un ottimo allenatore come Castagner”. Nel 1985 il suo divorzio dalla Juve fece clamore, scatenando una girandola di ipotesi maliziose, compresa quella di uno scarso feeling con i tifosi bianconeri. ”Mica vero. Avevo semplicemente voglia di cambiare aria, anche se il posto ideale per giocare a calcio è proprio Torino, che ha i vantaggi della grande città mescolati a un’atmosfera tranquilla, che lascia vivere in pace anche i campioni più popolari. Con la Juve avevo vinto tanto e cercavo nuovi stimoli ed esperienze diverse. Purtroppo il ginocchio sinistro cominciò a fare i capricci e al Milan resi meno di quanto avrei voluto”. L’allenatore che ricorda con maggiore affetto? ”Bearzot, il più bravo e completo che mi sia successo di conoscere. Era preparato, umano, colto, corretto. Un personaggio eccezionale, col quale feci in fretta a stabilire un grande rapporto”. Che cosa non gli piace del calcio di oggi? ”La frenesia del gioco, che penalizza lo spettacolo. I calciatori tecnicamente bravi fanno più fatica a emergere. Ma evidentemente indietro non si può tornare”. Invidia i compensi stratosferici che circolano attualmente nel calcio? ”No, ogni epoca ha le sue regole e le sue implicazioni. Anche noi, del resto, guadagnavamo bene, magari faticando di più a strappare un ritocco all’ingaggio. Ricordo che nel 1982, di ritorno dal Mondiale, dovetti sudare per convincere Boniperti ad aumentare del dieci per cento i 125 milioni del mio stipendio annuo”» (Mario Gherarducci, ”Corriere della Sera” 24/5/2001).