varie, 6 marzo 2002
ROSSI
ROSSI Paolo Monfalcone (Gorizia) 22 giugno 1953. Comico • «[...] passa per essere uno degli attori italiani più eversivi, anfetaminici e censurabili [...] taglia da kid intrepido e da story-teller peso Piuma [...] occhi buoni che se la ridono, e un qualcosa (a dispetto della nomea) di non-polemico e non-irruento nei toni. Come a dire che dignità e impegno non corrispondono a tatuaggi da kamikaze. Anzi. [...] attore scomodo e di culto per maree di giovani [...] ”[...] Slitto per indole dall´emozione alla riflessione, dalla comicità all’incazzatura, senza alternare coscientemente. Tutto è dipeso dagli inizi. Avevo qualcosa nel sangue. Mio nonno, di Corleone, era stato in una compagnia di Rosso di San Secondo, e dopo vari sperperi era finito nella Solvay di Monfalcone creando una filodrammatica pirandelliana. Mia zia calcava la scena, vinse un concorso italiano con uno sketch basato su vari dialetti collezionati in treno, le offrirono un contratto, ma la famiglia intimò: ’O ti sposi o reciti’, lei s’intimorì, fece la casalinga. Anch’io, con papà che stava alla Solvay come mio nonno, ero destinato a fare il perito chimico. Ma mi piaceva di più il mondo dello spettacolo. Visto dal basso. Ho cominciato facendo il tuttofare nella compagnia di Gianni e Cosetta Colla. Come manovratore di marionette, addetto alle scene, ai rumori di fondo, e anche come attore. La sera, per 2.500 lire, m’impegnavo in un teatro sperimentale, il Cth di Milano (la sigla stava per Centro teatrale dell’hinterland), una cantina di 70 posti in un condominio di Via Valassina dove regnava l’off e il politico, con pubblico che c’era e non c’era”. Il Paolo Rossi principiante era occupato in storie di Barbablù a base di omicidi e ladrocini, o faceva le luci in piccoli spettacoli a tema. Era il cosiddetto teatro di base o teatro delle case occupate degli anni ’70. Guadagnava la mattina con le marionette, il pomeriggio come favolista per bambini, la sera con l’avanguardia. ”Con un amico psicologo mettemmo in cantiere anche psicodrammi, reclutando Gigio Alberti che era stato mio collega in un corso di recitazione d’un attore del Living Theatre, e una biondona presa con un annuncio sui giornali. Volevamo proporre agli alunni delle scuole un lavoro, e un manager con forte nevrosi ci organizzò la vendita di biglietti in alcuni istituti (dal Manzoni al Carducci) per un collage di Prévert intitolato Il prevertimento. Dopo tre repliche chiudemmo. Ma non mi davo per vinto. Frequentai la scuola del Piccolo Teatro, i corsi mimo di Marise Flach. Lì venne a vedermi Dario Fo e mi prese nel cast dell’Histoire du soldat. Condusse un laboratorio per noi che eravamo una trentina di ragazzi. Ebbi più parti a rotazione. Con me c’erano Marco Columbro, Lucia Vasini”. Che è stata una compagna di vita da subito dopo, da quando furono assieme allo Stabile di Como, per fare commedia dell’arte. ”Con Lucia c’è stata una storia che, comprese le interruzioni, è durata 12 anni e da cui è nato un figlio, Davide [...] Io ho fatto teatro entrando dalla porta di servizio. Il lavoro dell’attore - me lo insegnò Checco Rissone a Como - prima che un’arte è un mestiere. Ti ci devi guadagnare da vivere. E il problema mi si pose, dopo una parentesi al Teatro Girolamo di Milano diretto da Umberto Simonetta, col Teatro Stabile di Trieste, dove fui scritturato con Vittorio Caprioli per Vita di Carl Valentin con regia di Pressburger. Mi fecero una promessa, non mantenuta. E così finii sottopagato. Cominciai a saltare un pasto al giorno, Caprioli se ne accorse, si indignò e mi portò sempre a pranzo con lui, pagando. Io gli rubai una cosa preziosa: la cattiveria nei camerini. Una volta mi disse ’Dai, stasera improvvisiamo’. Una sfida. M´andò bene, strappai un applauso. Mi chiamò nell’intervallo: ’Bravo, m’è piaciuto, da domani però questo lo faccio io’. E questa perfidia del dietro-le-quinte io l’ho applicata spesso: distraendo in tutti i modi Bisio in Comedians di Griffiths, facendo incespicare Hendel in un reading...”. Poi, come si sa, il marchio teatrale vero viene impresso sulla pelle di Paolo dal Teatro dell’Elfo e dal Derby, quasi contemporaneamente. ”All’Elfo una coincidenza di talenti straordinari introdusse uno stile nuovo. Al Derby c’era lo stimolo dato dal sovrapporsi di persona e personaggio. All’Elfo, nel 1983, per Nemico di classe di Williams, violentissimo testo di rottura in un’aula scolastica, Elio De Capitani volle liberarsi in una sola anteprima di colleghi e amici, che massacrarono lo spettacolo, mentre i critici fecero un osanna. Ma contò molto il passaparola e un clamore sollevato dalla polizia a Pordenone, con un fermo fino alle sette del mattino. Da allora sfondammo come i Six Pistols”. E c’è però l’altra faccia dello sfacciato Rossi. Al di là d´un successo sconfinato, all’epoca, con le donne (’Stipendio da camionista ma problemi da Mick Jagger”), cova in lui un senso atavico della famiglia. ”I ricordi corrono alle estati a Monfalcone. Tavolate coi vecchi, coi nipoti, coi fidanzati. Idee politiche divergenti all’interno dello stesso ceppo. Sensazioni, leggerezze, fragranze. E poi ci sono le ’mie’ famiglie. Dopo il lungo legame con Lucia Vasini c’è stato quello con la madre non teatrante di Georgia [...] e poi c’è stato per la prima volta il matrimonio, quello attuale con Nadia, eritrea (un destino, perché l’altro mio nonno ha vissuto per un certo periodo in Eritrea, e decantava la bellezza delle donne di lì), danzatrice, con cui ho avuto il terzo figlio, Shoan [...]”. Parla di questo accumulo di affetti con l’aria di un mohicano che a metà della vita ha attraversato epoche intere, ha consapevolezza del dare e dell’avere, ha pudori e orgogli. E oltre ai vincoli paterni che sono la sua creatività più indicibile, viene fuori che la figura della donna ha sempre svolto un ruolo essenziale anche nella sua sfera di uomo pubblico, di scena. ”Sono cresciuto tra donne. Nonne, zie e mamma. Sono creature diverse da noi uomini, e io ci tengo a sottolineare le differenze. Loro devono avere qualcosa di sconosciuto, di un altro pianeta, un mistero. Quando mi dicono tu-non-conosci-le-donne rispondo che è vero. Io ’non’ voglio conoscerle [...] Io ho sempre pensato che Arlecchino fosse un tramite fra i morti e i vivi. Se guardo una nuvola penso a mio nonno. Nei piatti lascio sempre qualcosa da mangiare: si fa per gli antenati. Più che parlare con Dio, prego e parlo con me, perché secondo me c’è Dio in ogni cosa, nel caffè, e anche in me per come sono stato concepito [...] I maestri più vicini a me sono Strehler, Cecchi, Fo, Gaber, Jannacci. E io a mio volta riverso qualcosa nei miei figli. Sono cresciuti dietro le quinte, dove c’è sempre educazione, disciplina. Io li aiuto con discrezione a trovare la loro strada, un lavoro dove non ti capiti di guardare l’orologio perché non vedi l’ora di tornare a casa [...] Avrei potuto essere più ricco come comico solista, ma mi va meglio così. Rammento l’imbarazzo quando portai a casa l’incasso della mia serata di cabaret: era lo stipendio di un mese di mio padre. Mi piace spenderlo, il denaro. Ho l’anima del giocatore [...] Io faccio teatro anche per quelli che non sempre vengono a teatro, e devi essere diretto, devi sapere che in sala ’è pure, magari in minoranza, chi è di destra, e devi saperti prendere in giro. Come ho appreso da Jannacci e Gaber”» (Rodolfo Di Giammarco, ”la Repubblica” 10/4/2005). «A me piace il tipo di risata che resta, che si ferma nell’anima. Voglio dire non sono il tipo di comico che punta alla risata che scivola via» (’la Repubblica”, 13/9/2002). «Difendo tutti i tipi di satira. Dico solo che per me la satira è un’elaborazione della realtà filtrata da una vena poetica. Una sentenza di tribunale può essere comica e graffiante se la legge un grande attore, come ci ha mostrato Fo con il suo spettacolo sul caso Sofri. La satira che piace a me è quella che legge la realtà e fa in modo che a ridere non siano solo quelli che la pensano come te [...] Per fare il tipo di teatro che ho cercato io fin dagli inizi dovevo fare una lunga strada. Fare esperienza, incontrare maestri come Fo, Carlo Cecchi, Jannacci, Strehler, lavorare con allievi come quelli della scuola Paolo Grassi a Milano. Tutte strade per trovare un mio modo di comunicare, un mio modo di camminare sulla soglia» (Anna Bandettini, ”la Repubblica” 25/7/2001). Vedi anche: Michele Farina, ”Sette” n. 48/1997.