Varie, 6 marzo 2002
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Roth Philip
• Newark (Stati Uniti) 19 marzo 1933. Scrittore • «[...] L’opera di Philip Roth si può dividere in due grandi periodi. Il primo periodo, che comprende tra gli altri Lamento di Portnoy, Professore di desiderio, Lo scrittore fantasma, si conclude con I fatti (1989). il periodo che possiamo definire di Roth Figlio (e anche marito), quello che ruota attorno alla propria condizione filiale e quindi ai temi della ribellione verso i familiari, della formazione di un uomo. Il secondo periodo inizia cono un libro stupendo e doloroso, mai tradotto in Italia, e la cosa stupisce, che si intitola (ed è un titolo magnifico ed emblematico di questa ulteriore parte della prodzione narrativa di Roth) Patrimony, il nudo racconto della morte del padre dello scrittore. Da quel momento in poi nasce, sulle ceneri del primo, il secondo Roth, quello di una serie di romanzi, micidiale come una combinazione di colpi di boxe, che vanno dal superbo Teatro di Sabbath al magistrale Pastorale americana, ed è questo il periodo del Padre, libri in cui Roth non parla più di se stesso, della sua vita vera e presunta, ma diventa l’ascoltatore di storie di altri, lo scrittore (saggio e solenne) della storia americana del dopoguerra. [...]» (Antonio D’Orrico, ”Sette” n. 38/2001). «Non ditegli che in Europa e in Italia è considerato uno dei massimi scrittori ebrei viventi. ”La cosa mi irrita enormemente - spiega l’autore di capolavori quali Il lamento di Portnoy, Pastorale americana e Lo scrittore fantasma -. Preferirei essere giudicato uno dei più importanti scrittori americani viventi”. Dopo aver combattuto per decenni contro l’establishment ebraico americano (secondo cui la comicità senza freni dei suoi protagonisti ebrei - volgari, ansiosi, libertini e venali - rafforza i peggiori stereotipi antisemiti) il 69enne Roth è sensibilissimo a quest’argomento. [...] Ciò è assurdo. Come assurdo è definire Don DeLillo ”uno scrittore italo-americano”, John Updike un ”autore cristiano-americano” o Saul Bellow uno ”scrittore ebreo-americano” [...] ”Le mie radici sono americane. Il Paese ha solo 226 anni ma la mia famiglia vi ci abita da 112. Bellow, Mailer, Malamud, Doctorow e io non siamo affatto emigranti e non aspiriamo a essere altro che scrittori americani. Non perché siamo ”assimilazionisti” ma perché in America siamo nati, cresciuti, invecchiati. Parliamo tutti l’inglese-americano. Da bambino riuscivo a leggere un ebraico elementare, quando a 13 anni ho dovuto fare il Bar Mitzvah. Da allora non ho più messo piede in una sinagoga [...] Quando iniziai a leggere, a 16 anni, ero bramoso di conoscere il resto dell’America. Visto che ero un ragazzino del New Jersey e ignoravo come si viveva nel Mid West, comprai i libri di Sherwood Anderson, Theodore Dreiser e Sinclair Lewis. Il luogo più esotico e remoto del mondo per me allora era Chicago. Intuii subito che il regionalismo costituisce le fondamenta della nostra letteratura e che tutte le altre distinzioni - di razza, ceto, religione - sono riconducibili a quella matrice [...] Ho vissuto in Italia un anno, nel ’59. Avevo vinto una borsa di studio della Fondazione Guggenheim e quando mi chiesero dove volevo andare scelsi l’Italia. Da bambino ero terrorizzato da Mussolini e la sua figura ha accompagnato nel sottofondo tutta la mia infanzia. Più tardi ero rimasto stregato dai film del neorealismo e da scrittori come Moravia, Silone, Svevo, Calvino, Carlo Levi, Pavese e, più tardi, Primo Levi, un amico il cui suicidio mi ha addolorato immensamente. Vivevo a Roma, in Via Giulia. Un bel giorno i soldi finirono e dovetti rientrare. Peccato. Mi sarebbe davvero piaciuto restare qualche altro anno. Chissà che cosa sarebbe stato della mia vita in Italia» (’Corriere della Sera” 24/3/2002).