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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

Rowling Joanne

• Kathleen Bristol (Gran Bretagna) 31 luglio 1965. Scrittrice scozzese diventata in poco tempo una delle donne più ricche d’Inghilterra. Autrice della saga di Harry Potter. «Colei che, inventando la saga dell’ orfanello con la cicatrice a saetta sulla fronte, è diventata la scrittrice più celebre e amata del mondo. Londra Una giovane donna sottile [...] capelli ossigenati, lunghi e lisci alla Donatella Versace attorno a un viso che ricorda, per un velo di durezza, un’altra celebrità femmina, Margaret Thatcher» (Natalia Aspesi, ”la Repubblica” 27/6/2003). «Il mio fidanzato si era trasferito a Manchester e voleva che lo raggiungessi. Harry Potter è comparso per la prima volta durante un viaggio di ritorno Manchester-Londra, dopo un fine settimana passato a cercare casa. Non avevo mai provato un’emozione simile. Ho capito immediatamente che scrivere quella storia sarebbe stato un vero piacere. Non sapevo ancora che si sarebbe trattato di un libro per ragazzi: sapevo soltanto che ci sarebbe stato il ragazzino, Harry. Durante quel viaggio mi è venuta anche l’idea di Ron, Nick-Quasi-Senza-Testa, Hagrid e Pix. Ma ero lì, con l’idea della mia vita, e non avevo nemmeno una penna che funzionasse! Proprio io, che non vado mai da nessuna parte senza una matita e un blocco per gli appunti. Così, anziché cercare di trascriverle, sono stata costretta a far vivere tutte quelle idee nella mia testa. Credo sia stata un’ottima cosa. Ero assalita da una folla di dettagli: se non fossero sopravvissuti a quel viaggio sarebbe stato forse perché non ne valeva la pena. La scuola di magia di Hogwarts è stata la prima cosa su cui mi sono concentrata. Immaginavo un posto dove regnasse l’ordine ma si nascondessero pericoli immensi, dove le doti dei bambini superassero di gran lunga quelle dei loro professori. Logicamente doveva essere un luogo isolato, e l’ho subito immaginato da qualche parte della Scozia. Credo si sia trattato di un omaggio inconscio al luogo dove si sposarono i miei genitori. Quella sera sono quindi tornata a casa e ho cominciato a scrivere tutto su un blocchetto. Ho fatto l’elenco di tutti i temi da toccare, dovevano essere sette. Prima mi sono venuti i personaggi, poi è stato ne cessario trovare dei nomi che si adattassero perfettamente. Gilderoy Allock è un buon esempio. Scorrendo il Dictionary of Phrase and Fable - una miniera quando si è in cerca di cognomi - mi sono imbattuta in Gilderoy, un elegante brigante scozzese. Esattamente ciò che volevo […] Il punto nodale era scoprire perché Harry fosse dov’era e perché i suoi genitori fossero morti. Tutto inventato, naturalmente, ma avevo l’impressione di fare una vera e propria ricerca. Alla fine del viaggio in treno mi era chiaro che sarebbe stata una serie di sette libri. Mi ci sono voluti cinque anni per organizzare il tutto, per stabilire il piano di ogni singolo libro. So che cosa succede e che cosa succederà in quel determinato momento, e ogni volta ho l’impressione di intrattenermi con vecchi amici. Il professor Lupin, che compare nel terzo volume, è uno dei miei personaggi preferiti. un uomo ferito, letteralmente e metaforicamente. Credo sia importante per i bambini sapere che ci sono adulti che hanno i loro stessi problemi, che devono affrontare determinate prove. Il fatto che si trasformi in lupo mannaro è un modo per parlare delle reazioni della gente di fronte alle malattie o agli handicap. Di ciascuno dei miei personaggi ho scritto una storia pressoché completa. Se ci mettessi tutti i dettagli, ogni libro avrebbe le dimensioni dell’Enciclopedia Britannica; ma devo pur sempre tener conto che i lettori non ne sanno quanto me. Sirius Black è un buon esempio. Ho scritto tutta la storia della sua infanzia. I lettori non hanno bisogno di conoscerla, io sì. Devo saperne più di loro perché sono io che sviluppo i personaggi di pagina in pagina. Il gioco del Quidditch l’ho inventato dopo una lite furibonda con l’amico di Manchester. Sono uscita di casa come una furia, sono andata al pub e ho inventato il Quidditch […] Mi sono stabilita a Manchester e ho lavorato per la locale Camera di commercio. Per poco, però, perché mi sono fatta licenziare in fretta. Allora sono andata a lavorare all’università, ma non ero affatto soddisfatta. Mia madre era morta circa un mese prima del mio arrivo a Manchester. Poi ci hanno svaligiato la casa, rubando tutto ciò che mia madre mi aveva lasciato. Sono stati tutti estremamente gentili e amichevoli, ma ho comunque deciso di andarmene. Insegnare inglese a Parigi era stato molto piacevole, e mi sono chiesta se non fosse una buona idea tornare all’estero, riprendere a insegnare, portare con me il manoscritto, stare al sole. Così ho deciso di andare a Oporto, in Portogallo, a insegnare inglese a studenti fra gli 8 e i 62 anni. Nel giro di sei mesi avevo incontrato colui che sarebbe diventato mio marito. Faceva il giornalista. Ci siamo sposati e l’anno successivo è nata Jessica, poco prima del mio ventottesimo compleanno. stato sicuramente il momento migliore della mia vita. All’epoca avevo terminato i primi tre capitoli di Harry Potter e la pietra filosofale, che sarebbero usciti più o meno tali e quali quando il libro è stato pubblicato. Il resto della storia era ancora solo abbozzato […] Il mio matrimonio non funzionava e mi sono detta che le cose sarebbero state più facili se fossi tornata in Gran Bretagna. Non ero certa di poter conservare il posto e, ovviamente, i corsi durante le vacanze estive venivano sospesi. L’idea di trovarmi senza un lavoro in quella fase mi preoccupava, soprattutto ora che avevo una bambina piccola. A Natale sono andata a trovare mia sorella a Edimburgo e ho pensato che sarei stata contenta di vivere lì. E così è stato. Le uniche persone che conoscevo a Edimburgo erano mia sorella e la sua migliore amica. La maggior parte dei miei amici stava a Londra, ma sentivo che Edimburgo era il genere di città dove volevo che mia figlia crescesse. Ho fatto in fretta nuove amicizie. Forse erano le mie origini scozzesi che riaffioravano […] Avevo deciso di riprendere a insegnare. Prima però mi occorreva un diploma. Avrei avuto bisogno di un anno, e sapevo che se non avessi fatto il possibile per finire immediatamente il primo libro non l’avrei mai più fatto. stato uno sforzo immane. Mettevo Jessica nel passeggino, la portavo al parco e cercavo di sfinirla. Quando si addormentava mi precipitavo in un caffè a scrivere. Nei caffè dove andavo non sempre apprezzavano che mi installassi lì delle ore senza consumare quasi nulla. Mio cognato aveva appena aperto un suo locale, il Nicolson’s. stata una vera fortuna. Stavo attenta a non andarci quando c’era troppa gente, e il personale si mostrava molto gentile. Scherzavo sempre a proposito di ciò che avrei fatto per loro il giorno che il mio libro fosse stato pubblicato e avesse venduto bene. Allora non pensavo affatto che un giorno sarei riuscita a pubblicarlo. così che ho terminato il primo volume da Nicolson’s. Il manoscritto l’ho poi ba ttuto a macchina. Avevo letto sul Writer’s and Artist’s Year Book che la lunghezza giusta di un libro per ragazzi è quarantamila parole. Il mio ne aveva novantamila! Per cercare di dissimulare la cosa avevo scritto il testo con interlinea uno, ma non ci è cascato nessuno. Ho dovuto ribattere tutto con interlinea due. Nei fine settimana andavo con circospezione all’università per poter usare i computer, e lì scrivevo con Jessica ai miei piedi, assorbita nei suoi puzzle. Il primo agente a cui ho inviato il manoscritto me l’ha rimandato indietro. Il primo editore a cui l’ho spedito me l’ha rimandato indietro. Allora ho ricominciato da capo. Il secondo agente, Christopher Little, ha accettato di occuparsene. La lettera che mi ha scritto è una delle più simpatiche che abbia mai ricevuto. passato un anno prima che si trovasse un editore; ma quando Bloomsbury ha accettato di pubblicarlo è stato sicuramente il secondo momento migliore della mia vita dopo la nascita di Jessica. L’anno successivo, nel luglio 1997, usciva il libro. Ho girato tutto il giorno con una copia sotto braccio. Quando l’ho visto per la prima volta in una libreria mi è venuta una voglia matta di fargli una dedica. stato un momento straordinario. Jessica era in grado di decifrare soltanto due parole: ”Harry” e ”Potter”, e le urlava a tutti i librai. Ero certa che mi sospettassero di averla spinta a farlo […] L’editore si mostrava molto incoraggiante e mi diceva che si vendeva bene. L’uscita del libro non era stata un avvenimento: un buon articolo sullo Scotsman e poco altro; il suo successo sembrava dipendere fondamentalmente dal passaparola. A quel punto, il mio editore americano, Scholastic, ha acquistato i diritti del primo libro per una somma che nessuno si aspettava. Quell’attenzione improvvisa mi terrorizzava. Insegnavo a mezzo tempo e stavo cercando di scrivere Harry Potter e la camera dei segreti. Tutta quell’attenzione nei miei confronti mi metteva il panico […] Tutto quello che era successo poteva benissimo non essere che un fuoco di paglia. E io dovevo pensare a mia figlia. Calcolavo di poter vivere due anni dedicandomi completamente alla scrittura, ma avevo ben presente il rischio di non trovare più un posto da insegnante dopo una così lunga assenza. Quando ho vinto il premio Smarties Book le vendite hanno avuto un’impennata. Ho incassato il mio primo assegno in diritti d’autore. Tuttavia, le cose non andavano tutte per il meglio, facevo veramente fatica a finire Harry Potter e la camera dei segreti. Temevo di deludere i lettori. Poi, alla fine, l’ho ripreso in mano e mi ci sono volute altre sei settimane di lavoro per ritenermi soddisfatta di ciò che avevo scritto […] Ricordo la prima lettera di un’ammiratrice. Cominciava così: ”Caro signore”. Poi ci siamo incontrate. Le lettere diventavano via via più numerose, ma soltanto quando il libro ha cominciato a vendere bene negli Stati Uniti la corrispondenza si è fatta davvero abbondante. Allora, mi sono accorta che mi stavo trasformando in segretaria e per di più lo facevo molto male. Tutto sommato, si trattava di un problema simpatico, ma era il momento di assumere qualcuno che facesse le cose per bene» (Lindsey Fraser, ”Corriere della Sera” 6/2/2001).