Varie, 6 marzo 2002
Tags : Arhundati Roy
ROY Arhundati Bengala (India) 24 novembre 1961. Scrittrice • «Ex architetto laureatasi sullo Sviluppo postcoloniale urbano a Delhi, ha scoperto molto presto di non farcela ad occuparsi dei pavimenti del bagno dei suoi ricchi clienti, amica di errabondi amici di Lotta continua finiti a Delhi negli anni caldi del movimento, ex attrice, sceneggiatrice e scenografa di film balzani che sono diventati oggetto di culto, come uno dedicato agli studenti di Delhi, In Which Annie gives if those One (intraducibile, Annie è in realtà un maschione e quello che sembra inglese è il gergo universitario della cosiddetta Loonatic Fringe, i marginali pazzi), autrice come molti ti fanno osservare aciduli – di un solo fortunatissimo libro dal titolo che più bello non si può (Il dio delle piccole cose quanto a titolo ha un solo rivale, Cent’anni di solitudine), e recentemente (’ma lo sono sempre stata’) polemista che ha toccato nervi scoperti e irritato quelli che contano con una serie di interventi sulla politica nucleare indiana, sulla guerra in corso, ma soprattutto sul problema delle dighe: le grandi dighe progettate per irrigare e dare luce – nelle intenzioni – ad alcune grandi città e devastanti per il territorio, per i milioni di persone che vengono forzatamente traslocate, per l’ecosistema
ROY Arhundati Bengala (India) 24 novembre 1961. Scrittrice • «Ex architetto laureatasi sullo Sviluppo postcoloniale urbano a Delhi, ha scoperto molto presto di non farcela ad occuparsi dei pavimenti del bagno dei suoi ricchi clienti, amica di errabondi amici di Lotta continua finiti a Delhi negli anni caldi del movimento, ex attrice, sceneggiatrice e scenografa di film balzani che sono diventati oggetto di culto, come uno dedicato agli studenti di Delhi, In Which Annie gives if those One (intraducibile, Annie è in realtà un maschione e quello che sembra inglese è il gergo universitario della cosiddetta Loonatic Fringe, i marginali pazzi), autrice come molti ti fanno osservare aciduli – di un solo fortunatissimo libro dal titolo che più bello non si può (Il dio delle piccole cose quanto a titolo ha un solo rivale, Cent’anni di solitudine), e recentemente (’ma lo sono sempre stata’) polemista che ha toccato nervi scoperti e irritato quelli che contano con una serie di interventi sulla politica nucleare indiana, sulla guerra in corso, ma soprattutto sul problema delle dighe: le grandi dighe progettate per irrigare e dare luce – nelle intenzioni – ad alcune grandi città e devastanti per il territorio, per i milioni di persone che vengono forzatamente traslocate, per l’ecosistema. Una polemica che si è tradotta in una serie di saggi [...] La ragazzina che se ne sta accoccolata su un cuscino ai miei piedi, infagottata in un bel vestito sovrabbondante di cotone a piccoli disegnini che non riesce a umiliare la grazia di una figura da adolescente, è in questo momento – quasi – il pericolo pubblico numero uno in India, certo una che non piace ai potenti. In realtà non è affatto un pericolo pubblico se non per il coraggio con cui esprime idee scomode. E quanto a questo non è neanche una ragazzina, anzi, a dispetto della sua bella faccia da Wynona Rider indiana, ha superato di un anno i quaranta. Ma della ragazzina ha lo splendore di una faccia illuminata da una lampadina interiore, la voglia di ridere che erompe mentre salta veloce da un argomento all’altro, come se l’urgenza di parlare e la passione che ci mette non le impedissero di vedere quanto di assurdo e quasi di buffo c’è nella sua situazione, e una certa voglia dispettosa di provocare, come quando apre la porta e annuncia ”sono pronta a raggiungere i Taliban”. Come dire: è venuta a vedere cosa sta per fare la donna più scomoda d’India? Interno giorno a South Delhi, in un appartamento invaso dal sole e colorato come più non si può. Poltrone blu, cuscini gialli, pavimento di cemento rosso, pareti ruggine, tende di garza nere, stuoie, computer. [...] Ha partecipato il 12 gennaio dello scorso anno a una marcia verso la diga più grande e più pericolosa, quella in costruzione sul fiume Narmada. stata arrestata assieme agli amici che l’accompagnavano. Lo scorso dicembre è stata assurdamente accusata, assieme ad altri due leader del movimento di protesta, durante una manifestazione contro il tribunale che aveva appena deciso di far proseguire i lavori della diga, di aver assalito gli avvocati della parte avversa e di aver incitato la folla ad ucciderli. ora imputata di oltraggio alla corte. E poiché Arundhati Roy è Arundhati Roy ha deciso di difendersi da sola, ha scritto una memoria tagliente in cui accusa la corte di voler solo mettere a tacere le voci scomode, si è presa una nuova incriminazione per oltraggio, e a gennaio dovrà comparire in tribunale, a rischio, questa volta, di finire in carcere fino a sei mesi. E tanto per farsi benvolere un mese fa ha dato alle stampe sul Newsweek indiano, Outlook, un articolo (appunto War is peace, quello che dà il titolo alla prossima raccolta italiana) che ha irritato molti per la sua presa di posizione critica (’ma quando mi sono occupata del problema delle dighe o del nucleare ho registrato reazioni ben peggiori”) e l’ha fatta amare ancora di più da molti altri. Legge dal suo stesso pezzo: ”La gente raramente vince le guerre, i governi raramente le perdono. La gente viene uccisa. I governi si trasformano e si ricompongono, come teste di idra. Usano la bandiera prima per cellofanare la mente della gente e soffocare il pensiero e poi come sudario cerimoniale per avvolgere i cadaveri straziati dei loro morenti volonterosi. Da entrambe le parti, in America come in Afghanistan, i civili ora sono ostaggio delle azioni dei propri governi”. [...] ”Io non vado certo in giro con la faccia di Bin Laden sulla T-shirt. E so perfettamente che l’11 settembre è accaduto qualcosa di terribile, che cambia la definizione di guerra, di sviluppo, di ricchezza, di felicità. Qualcosa di cui tutti i paesi del mondo sono ostaggi. Ma bisogna adesso cercare di capire. E io cerco di capire, anche sul modello di come vedo le cose svilupparsi in India, seppure su scala minore. Vedo che c’è un gap sempre più spaventoso tra il primo e il terzo mondo. Vedo che c’è un sempre più profondo risentimento. E vedo che da questo gap, da questa voragine tra i due mondi, da questa ingiustizia planetaria, i Taliban e la gente come loro, che sono dei mostri, che hanno creato un mondo spaventoso, che non sanno come costruire una società, che non sanno come avere rapporti con le donne, attingono la loro forza. Ma se Bush dice ”o sei con noi o sei con i terroristi”, non risolve niente – anche se purtroppo la sua affermazione è stata presa così sul serio dal mondo. assurdo dover decidere che o si è con loro o si è con i terroristi. Tutta la bellezza della civiltà umana giace tra questi due fondamentalismi. E sì, penso che si tratti di due forme di terrorismo”. E ora? ”Ora che gli Stati Uniti hanno rovesciato la struttura del potere di quella che è stata una lunga guerra civile, una spirale di violenza, una guerra tribale, crede davvero che le cose siano arrivate a una conclusione? Ci sarà sempre un Bin Laden, o qualcuno dell’estrema destra in India o in Pakistan, che userà il profondo risentimento in ebollizione tra i due mondi per usarlo ai propri fini... Non possiamo dirci: abbiamo liberato l’Afghanistan perché le donne stanno bruciando i burka e si ascolta la musica. Certo, sono cose molto importanti. Ma non è su questo che si giocherà la storia dei prossimi anni. Sa cosa dico: che la Terza Guerra Mondiale, la Third World War, in realtà c’è già. E’ la Guerra del Terzo Mondo, le guerre che sono estate esportate e combattute lontano dalla superpotenza mondiale”. Coerentemente, la vera battaglia di Arundhati è quella per le dighe. Un mito indiano, da quando Nerhu, in un discorso di cui ebbe in seguito a pentirsi, decretò che ”le dighe sono i templi dell’India moderna”. Per Arundhati, sono solo ”monumenti alla corruzione”, furti ai danni della popolazione. E snocciola i dati su cui si basa la sua battaglia. ”A fare il più semplice dei conti, le dighe costringono mediamente 44.000 persona ad andarsene, lasciare le loro case, i loro campi, le loro attività, a vedere il loro mondo invaso dalle acque in cambio di niente, poche migliaia di rupie, quando ci sono. Negli ultimi cinquant’anni sono state costruite 3.600 grandi dighe. Il che vuol dire trentatré milioni di sfollati. Trentatré milioni di persone (ma secondo altri calcoli sono molti di più, almeno 56, perché tra questi ci sono i tribali, gli Adivasi, e i Dalits, gli intoccabili, di cui non esiste in pratica un’anagrafe) che vanno ad ingrossare le fila dei poveracci che vivono ai margini delle grandi città, noncittadini, abitanti degli slums”. Spero che il suo non sia un atteggiamento luddista, antisviluppo. ”Certo che no. Sono contro questo tipo di sviluppo, una politica che svende i diritti della gente alle grandi imprese come la Enron, che sta privatizzando gran parte di quello che in India è stato costruito in questi cinquant’anni con i soldi pubblici. Sono contro le imprese faraoniche che non portano nessun beneficio alla popolazione locale ma solo alle grandi città. Sono contro le dighe che finiscono per irrigare il 5% del territorio previsto a costo di uno spaventoso sacrificio di vite umane – quelle vite che finiscono e si perdono nel disastro degli slums, mentre quelli che hanno qualche potere stanno a guardare, e non vogliono vedere la connessione tra questi fatti, tra la globalizzazione devastante e il montare del fondamentalismo. Le racconto solo questo: sa che ci sono a Delhi dei Call Centers delle grandi imprese internazionali, dove ventiquattr’ore su ventiquattro dei ragazzi indiani devono rispondere, simulando di essere inglesi o americani, alle più diverse domande degli utenti. Le grandi imprese li mettono qui perché costano infinitamente meno. Ma sono cose che creano un profondo risentimento, perché tolgono alla gente qualsiasi controllo sulle loro vite, sulla loro dignità. Sono una delle cose che le farei vedere per farle capire la situazione dell’India moderna. Queste, e la sede dell’Rss, un’organizzazione paramilitare di destra, e la diga sul Narmada. Chiunque capirebbe che non si può andare avanti così. Ma dice un proverbio del mio nativo Kerala: ’Puoi svegliare uno che dorme, non uno che fa finta di dormire’”» (Irene Bignardi, ”la Repubblica” 1/12/2001).