Varie, 6 marzo 2002
RUBINI
RUBINI Sergio Grumo Appula (Bari) 21 dicembre 1959. Regista e attore • «Credo che tutti i film c’entrino con me. [...] Quando scrivi una storia [...] puoi partire da un elemento autobiografico ma i personaggi ti prendono la mano. Quello che c’entra veramente con me è Tutto l’amore che c’è, il film che ho girato sul balcone di casa di mia madre. E quella è stata un’esperienza emotiva violentissima, lì ho capito quanto il cinema è la chance per fare i conti con se stessi, ripercorrere un pezzo di strada e rianalizzarla, con una torcia che illumina passo per passo. [...] Io sono arrivato a Roma diciottenne, sono entrato in una scuola di recitazione dove ho dovuto disimparare il mio dialetto, il mondo dello spettacolo l’ho sposato come mettendo una giacca. [...] Camilleri era mio insegnante all’accademia. Disse una volta che quando era andato via dal suo paese aveva deciso che sarebbe tornato solo quando avesse dimenticato il numero delle colonne che sostenevano la facciata del Comune. Io pensai allora che la stessa cosa fosse indispensabile anche per me. I primi anni a Roma ho vissuto cercando il più possibile di dimenticare. [...] Quando rimuovi rimuovi rimuovi, alla fine perdi la consapevolezza di te, ti perdi, e perdi l’amore di te. Non voglio dire che ora sia tutto luminoso ma mi sembra d’aver imparato qualcosa. A ridimensionarmi, conoscere i miei limiti. [...] Il cinema gioca quest’abbaglio. Il mio limite era Fellini, morto lui mi sono perso perché non ho avuto più un padre nel cinema e non avevo ancora gli strumenti necessari a fare da solo. [...] Il guaio è nato quando non c’è stato più lui. Era un garante, le sue battaglie puntuali silenziose mai da estremista ma da uomo di centro, erano potenti perché non erano gridate, quindi molto più disarmanti. Negli anni ho ritrovato in Nanni Moretti un punto di riferimento. Da lontano è un piccolo faro che indica una strada» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 30/9/2003). «[...] Ho diretto il mio primo film, La bionda, a 29 anni, sapevo veramente molto poco di conti e di budget, pensavo che il compito di un regista fosse quello di avere un’idea e difenderla da tutti gli attacchi. stato un fiasco terribile, e in quel momento nè io nè il produttore, Domenico Procacci, abbiamo avuto intorno amici. Ho capito allora che il cinema ha bisogno di solitudine [...] Trovo fondamentale stimare i critici, credo di avere imparato, grazie a loro, a riconoscere la validità di alcuni suggerimenti [...] le palline e le stellette non le capisco proprio, bisognerebbe trovare un modo per far capire al pubblico che, dietro quei segni, c’è un grande lavoro [...]» (Fulvia Caprara, ”La Stampa” 19/1/2005).