Varie, 6 marzo 2002
RUINI
RUINI Camillo Sassuolo (Modena) 19 febbraio 1931. Cardinale. Ex presidente della Conferenza Episcopale Italiana (1991-2007). Sacerdote dal ”54, è stato nominato vescovo nell’83 e segretario della Cei tre anni dopo, sotto la presidenza del cardinal Poletti, che era anche lui vicario del Papa per la diocesi di Roma. Nessun cardinale, prima di lui è rimasto alla guida della Cei tanto a lungo • «Il giovane don Camillo Ruini non lo avrebbe mai immaginato, in quell’8 dicembre del 1954, mentre il vicegerente di allora, monsignor Luigi Traglia (nominato in seguito cardinale vicario), gli imponeva le mani, ordinandolo prete. Non avrebbe mai immaginato, cinquant’anni dopo, di ritrovarsi a festeggiare le sue nozze d’oro con il sacerdozio, avendo al fianco un altro vicegerente, ma di essere lui il cardinale vicario. Non avrebbe mai immaginato di celebrare la Messa di ringraziamento per l’importante anniversario nella Cattedrale di Roma, dopo aver ascoltato un messaggio augurale del Papa e avergli espresso il suo grazie, circondato dai vescovi ausiliari, da tanti sacerdoti capitolini e da oltre tremila fedeli che gremivano la Basilica Lateranense. [...] il momento dell’ordinazione, che per felice combinazione coincise con il 100° anniversario del dogma dell’Immacolata [...] Ha sottolineato che la vocazione è stata ”la grande benedizione della mia vita”, e ha «caratterizzato la mia identità; o meglio, si è progressivamente fusa con me, è diventata parte di me, ha costituito da allora in poi la gioia della mia vita”. E ha ripercorso alcune tappe di questi 50 anni. Ad esempio quella del 1986, quando fu chiamato dal Papa all’incarico di segretario generale della Cei. ”Io ero un uomo di provincia - si è autodefinito -. Quella nomina mi ha consentito di allargare l’orizzonte, di vivere un’esperienza grande, che certamente non avevo meritato”. [...]» (Mimmo Muolo, ”Avvenire” 8/12/2004) • «Il Cardinale va matto per i soldati e le divise. Colleziona riviste militari, sa tutto di aerei e carri armati, come a volte, in qualche momento di confidenza, racconta ai visitatori, si illumina di entusiasmo quando ne discute con un altro amante del settore, Francesco Cossiga. Una passione innocente, quasi infantile, per un uomo di Chiesa che per mestiere predica la pace. [...] Da Loreto a Loreto. [...] nel 1985, nella cittadina marchigiana sede del più importante santuario d’Italia dedicato a Maria, partì l’ascesa di Ruini ai vertici della Chiesa italiana, alla fine di un convegno ecclesiale dedicato alla riconciliazione, ma che è ricordato per il clima di contrapposizione tra le due anime dei cattolici italiani, ben rappresentate dall’Azione cattolica e da Comunione e liberazione. Due tifoserie contrapposte, con fischi e applausi da una parte e dall’altra. Movimento e associazione andavano in direzione opposta, e entrambi erano autonomi dai richiami delle gerarchie ecclesiastiche. [...]» (Marco Damilano, ”L’Espresso” 1/9/2004) • «[...] ha un giudizio più positivo sulla modernità. Non vede nella centralità dell’uomo l’origine dei mali del mondo moderno a discapito del primato di Dio, perché al centro della fede cristiana c’è Gesù che è vero Dio e vero uomo, e di lui la Chiesa deve dare testimonianza. Nella democrazia anch’egli vede dei rischi, ma non così angoscianti, da ”totalitarismo subdolo”, come quelli che Wojtyla ha denunciato nel suo libro testamento. Le libertà civili, per Ruini, non vanno più fondate sulla ”verità” contro l’errore, come la Chiesa ha predicato per secoli, ma sulla ”persona”, tra i cui diritti va naturalmente garantito quello di ricercare e professare la verità. Anche nell’offensiva islamista contro l’Occidente Ruini vede molte opportunità positive, a cominciare dal risveglio dell’identità cristiana. Ritiene più insidioso per la cristianità il confronto imminente con le civiltà dell’India e soprattutto della Cina. Ma ancor più pericoloso è, a suo giudizio, il nemico interno: la deriva verso una concezione dell’uomo come pura ”particella della natura”, manipolabile dalle biotecnologie. [...]» (Sandro Magister, ”L’espresso” 7/4/2005) • «[...] Non che Ruini sia antipatico. Anzi, i prelati che lo conoscono da decenni raccontano di un uomo leale, pragmatico però mai cinico, di assoluta affidabilità. semmai un uomo asciutto. Nella sua parola la geometria prevale sul pathos. ”Ragiona come un arcivescovo tedesco”, ha detto di lui Giorgio Rumi. Quando seppellì i morti di Nassiriya non suscitò commozione; tenne una lucidissima orazione politica, in difesa dell’impegno italiano in Iraq e contro il terrorismo (’noi non fuggiremo davanti ai terroristi; li fronteggeremo, ma non li odieremo...”). Come Wojtyla, Ruini ha un forte senso della politica; ma, a differenza di Montini, che Cossiga e Andreotti considerano il vero fondatore della Dc, Ruini si è mosso in un quadro non vincolato dall’unità dei cattolici. Chiamato a guidare la Cei nel 1991, al tramonto della Democrazia cristiana, in questi 14 anni ha esteso l’influenza della Chiesa ben oltre i confini di un partito; come ha dimostrato con l’invito all’astensione al referendum del 12 giugno, cui si sono inchinati cattolici di destra e di sinistra oltre al premier. Prima ancora della politica, però, viene per lui la filosofia. Da giovane – fu ordinato sacerdote a 23 anni – lo chiamavano don Camillo. Padre emiliano, madre veneta, laureato alla Gregoriana, ha insegnato filosofia nei licei. Soprattutto, ha studiato: Kant, Heidegger, Husserl; e Tommaso, sulla cui rilettura in chiave fenomenologica è avvenuto l’incontro con il pensiero di Wojtyla. Quando altri mandavano a memoria i francesi Maritain e Mounier, Ruini si formava sui tedeschi, in particolare Rahner, di cui ha dato poi un’interpretazione critica; mentre con Ratzinger ha maturato una sintonia dottrinaria cui è poi seguita una consuetudine personale. Se al cardinale bavarese è riconosciuto un primato intellettuale nel conclave, Ruini è senz’altro il più noto e il più popolare tra gli italiani. Quando arrivò alla Cei come segretario, nell’86, ”avevamo a malapena i soldi per pagare quattro impiegati”. Poi venne l’8 per mille. Oggi la Chiesa italiana ha a disposizione una borsa molte volte più gonfia di quella papale dell’Obolo di San Pietro, e Ruini ne ha sempre versato una parte al Terzo Mondo: la sua generosità, oltre che il suo prestigio, ha fatto sì che a ogni sinodo fosse eletto tra i prelati incaricati di scrivere con il Papa il documento conclusivo. Già padrone del tedesco e del francese, a suo agio con lo spagnolo – nel gennaio del ”97 ha predicato nella cattedrale dell’Avana – , ha passato l’estate del ”98 tra l’Inghilterra e l’Irlanda, per perfezionare l’inglese. Ha seguito spesso il Papa nei viaggi più importanti, e ha coltivato i rapporti con i movimenti e le associazioni: quando si trattò di scegliere un segretario per la Cei, volle un focolarino come Ennio Antonelli; e a Roma intitolò una parrocchia a Escrivá de Balaguer prima ancora che divenisse santo. Schivo, taciturno, a volte enigmatico ma non amante della solitudine, Ruini è immune dal male che corrode anche qualche porporato: la vanità. Alla testa della Chiesa italiana al tempo della tv, ha fatto un uso discreto della Rai, preferendo lavorare di cesello: saggi, documenti, citazioni (talora di editorialisti laici). Gran lettore di quotidiani e riviste, ha grande stima di Dino Boffo, direttore di ”Avvenire”, e di Sandro Magister, vaticanista dell’”Espresso” e autore del saggio Chiesa extraparlamentare (’Ruini è vicino a Wojtyla più di Richelieu al Re Sole”) . Ha scritto un libro con Eugenio Scalfari, Gianni Vattimo e Claudio Magris (Le ragioni della fede) , ha discusso a distanza con gli intellettuali che ”Avvenire” ha definito ”i tre Alberti” (Ronchey, Asor Rosa e Arbasino), ha [...] pubblicato da Mondadori una raccolta di saggi dal titolo giovanneo Nuovi segni dei tempi, in cui teorizza la sintesi cara a Wojtyla tra teologia antropologica e cristologica, tra la centralità dell’umano e del divino. Ruini ha celebrato il matrimonio di Prodi, ma politicamente se n’è separato. Vicino a Ciampi e a Fazio, gelido con Scalfaro, ha definito Dossetti portatore di ”una visione catastrofale dell’Occidente” e amato Tocqueville; in particolare laddove invita la religione a non schierarsi mai con un partito o un regime: perché allora ”essa aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti”» (Aldo Cazzullo, ”Corriere della Sera” 8/4/2005) • « Sua Eminenza ha sconfitto i Venerati maestri. Sul paesaggio culturale italiano da almeno tre decenni, coincidenti con il tramonto delle ideologie, restava sospesa una nube di valium, un’atmosfera miorilassante, al punto che in un ironico ritratto borghigiano-chic, qualche anno fa, la ridente cittadina di Capalbio era stata promossa ad Atene d’Italia per alcuni dialoghi filosofici da spiaggia di cui non resta memoria, a parte le cronache mondane. Nelle università si moltiplicavano i corsi malfamati di scienza delle comunicazioni, nelle scuole si faceva allegra e meno allegra socializzazione. A parte qualche tema significativo, come la revisione critica del nostro rapporto con il fascismo, per le case editrici era vita grama, un tran tran malmostoso fatto di rimasticature, riscoperte, riproposte e riciclaggi. La vecchia cultura accademica, quella della terza pagina, parlava esclusivamente con se stessa, salvo pregevoli ma rare eccezioni. I grandi politologi continuavano a chiedersi e a richiedersi se avessero ancora senso destra e sinistra, e perché. L’intimismo dominava il cinema del film carino all’italiana, il repertorio si mangiava il teatro, i maîtres-à-penser del pensiero debole disquisivano con tormentata severità del nulla, Eco giocava con il quiz e l’esoterismo letterario, Calvino con la leggerezza, insomma esercizi di stile e niente più. Poi è arrivato Camillo Ruini, un intellettuale di tipo nuovo, come avrebbe scritto Antonio Gramsci in un suo quaderno a noi contemporaneo. Ruini non è un letterato, non è un filosofo né un semiologo, è un vescovo, anzi è stato per sedici anni il capo dei vescovi italiani. Ma ha rivitalizzato, e per dir questo non c’è bisogno di sposare né il suo stile personale di pensiero né il quadro pastorale o teologico in cui ha sviluppato la sua azione, la cultura italiana, le ha restituito una sua parte di ricchezza perduta. La mobilitazione del pensiero cattolico, visibile nel giornale della Cei, nell’editoria, nella predicazione, nella sensibilità diffusa del paese e nella scoperta e proposta di vecchie e nuove idee in vecchie e nuove forme è indiscutibilmente, anche per chi la contrasta con laicismi e anticlericalismi di vario conio, il fatto preminente degli ultimi tempi. Eravamo abituati a porci soltanto domande esili, per ottenere risposte plurali e tutte relative, ma con Ruini, che lavorava alla luce di due papi formidabili, abbiamo reimparato che esistono anche domande radicali e risposte univoche. Generazione, nascita, vita, educazione, famiglia, amore, eros e morte sembravano parole scomparse dietro il recinto di un incomprensibile dibattito fra eticisti e filosofi morali, e invece sono riemerse come problemi della società, oggetti del pubblico interesse. Ruini non è stato solo un riordinatore della chiesa italiana, un costruttore di politica nel senso meno ovvio e meno politicante del termine, è stato soprattutto un agitatore, ai limiti del sovversivismo intellettuale, di acquerugiole stagnanti, un provocatore e un facitore del nuovo pluralismo di cultura di cui avevamo bisogno per sfuggire alle costrizioni del pensiero unico e corretto, che non ci sorprendeva più e da tempo ci provocava una disperata noia» (’Il Foglio” 6/3/2007) • « Nella storia politica italiana, fitta di rivoluzionari mancati, al momento dell’addio Camillo Ruini (Sassuolo, 1931) imprime il segno di una rivoluzione riuscita. Che l’ha portato a rafforzare l’influenza dei cattolici nonostante la morte della Dc. L’ha portato a riprendere l’offensiva dei valori nonostante la secolarizzazione del Paese, a imporre nell’agenda del confronto parlamentare e intellettuale i temi della vita e della bioetica, a stravincere un referendum trent’anni dopo la disastrosa sconfitta del divorzio, a innovare la linea sulla missione in Iraq nell’ora più drammatica; in una parola, a ripristinare la coscienza identitaria della Chiesa italiana, e modificarne profondamente – nel bene o nel male, a seconda dei punti di vista – il rapporto con lo Stato e la società. Nessuno dei suoi predecessori era stato tanto amato e criticato, blandito e temuto, al punto da diventare un personaggio centrale della politica, guadagnarsi in conclave il ruolo di grande elettore di Ratzinger, respingere numerose richieste di incontro da parte di segretari di partito (cui preferiva mandare appunto il segretario della Cei Betori), ispirare l’invettiva di una brava attrice di Rai3 ( Eminenz!), portare in Senato una scienziata dell’Opus Dei affezionata alle mortificazioni, essere visto ora come un baluardo ora come un bersaglio come ha spiegato lui stesso [...] al Corriere: ”Meglio criticati che irrilevanti”. Una missione condotta con uno stile molto personale: schivo ma costretto a un ruolo pubblico, taciturno ma deciso a non lasciarsi mai zittire, Ruini non ha ceduto alla tentazione della vanità e alla scorciatoia della vetrina televisiva. Pur avendo a disposizione una Rai non certo ostile, ha scelto per la sua battaglia culturale gli strumenti più tradizionali del libro, delle riviste, dei giornali. Di qui, ad esempio, la scelta di rilanciare Avvenire, affidato al pupillo Dino Boffo, e di farne una postazione avanzata di intervento anche polemico. Assunta la guida dei vescovi italiani nel 1991, alla vigilia della bufera, Ruini vide nella rottura dell’unità politica dei cattolici non un guaio ma un’opportunità. Considerò il crollo del partito, che secondo un esponente non secondario come Cossiga era stato fondato e diretto dal Vaticano, non come la fine del rapporto tra la Chiesa e la politica ma come l’alba di una fase nuova, in cui i vescovi, scavalcata la mediazione Dc, avrebbero potuto allargare la loro influenza all’intero sistema. Non a caso, i referenti del suo disegno non sono stati tanto ex democristiani quanto insospettabili come l’ex radicale Rutelli o l’ex anticlericale Pera. Ruini ha cercato il dialogo con intellettuali critici, come quando scrisse un libro con Magris, Scalfari e Vattimo (Le ragioni della fede) e discusse a distanza con ”i tre Alberti” come li definì Avvenire (Ronchey, Asor Rosa e Arbasino). Ha avuto rapporti migliori con l’azionista Ciampi che con il democristianissimo Scalfaro. E ha trovato corrispondenze non scontate con il pensiero di Giuliano Ferrara ed Ernesto Galli della Loggia, e in genere dei laici preoccupati dalla debolezza identitaria dell’Occidente nel confronto con l’Islam. Sul piano politico, la ”dottrina Ruini” ha portato al gelo tra la Chiesa e la sinistra, compresa quella cattolica; simboleggiato dalla rottura con Romano Prodi, che da Ruini fu unito in matrimonio con Flavia Franzoni, ma che da Ruini si divise quando annunciò che da ”cattolico adulto” non avrebbe disertato il referendum sulla fecondazione assistita. Un gelo che non ha mai indotto il capo dei vescovi ad appoggiare apertamente la destra, accusata da sinistra di guardare alla Chiesa strumentalmente, alla ricerca di sostegno elettorale e di un nucleo di valori in grado di surrogare il proprio deficit culturale. Che questo fosse l’esito della stagione di Ruini era scritto nella sua formazione; e non perché fin da quando era un giovane sacerdote – fu ordinato a 23 anni – lo chiamavano ”don Camillo”. Negli anni in cui alla Gregoriana, dove si è laureato, si mandavano a memoria Maritain e Mounier, lui meditava i tedeschi, in particolare Rahner (di cui darà poi un’interpretazione critica), che gli forniranno gli strumenti per l’intesa dottrinaria con Ratzinger. Ruini ha studiato Heidegger, Kant, Husserl. Ha dedicato una parrocchia romana a Escrivà de Balaguer fondatore dell’Opus Dei prima ancora che fosse proclamato santo. Ha definito Dossetti ”portatore di una visione catastrofale dell’Occidente” e ha amato Tocqueville, in particolare là dove invita la religione a non schierarsi mai con un partito o un regime; ”perché allora essa aumenta il suo potere su alcuni uomini, ma perde la speranza di regnare su tutti”. I suoi alleati naturali in questi anni sono stati i teologi e i moralisti educati al rigore wojtyliano, che non a caso Giovanni Paolo II d’intesa con Ruini volle in diocesi importanti o posti-chiave: Scola a Venezia, Caffarra a Bologna, Fisichella alla Lateranense. Mentre interlocutori soggetti alla sua primazia, e però mai del tutto conquistati alla sua dottrina, sono stati i tanti vescovi di provincia che non avevano rinunciato alle suggestioni postconciliari e a un’allure progressista. Proprio alla Chiesa del post-Concilio Ruini ha impresso la sua svolta: basta nascondersi nel mare magno della società secolarizzata, mimetizzare le chiese tra le case, difendere il ridotto del cattolicesimo dall’invasione laicista; anzi passare al contrattacco, uscire allo scoperto, riprendere coscienza che se i cattolici praticanti sono in effetti in minoranza i loro valori possono tornare a essere patrimonio della maggioranza. Una sorta di riconquista, un Kulturkampf capovolto. Cominciato quando, nell’aprile 1985, da vicepresidente del convegno di Loreto Ruini si segnalò presso Wojtyla. E condotto con gli strumenti del mondo, a cominciare dall’8 per mille (’quando nell’86 arrivai alla Cei da segretario avevamo a malapena i soldi per pagare quattro impiegati”, ha ricordato), ma soprattutto scegliendo un nuovo campo di battaglia: la bioetica, il rapporto tra scienza e fede, i limiti da porre alla ricerca, al progresso tecnologico, alla capacità teoricamente illimitata di sostituirsi al creatore e intervenire sull’uomo sino a programmarne nascita e codice genetico e quindi farne cosa diversa da sé. Non gli interessava rendere testimonianza, ma intervenire nell’agone con efficacia. Per farlo non ha esitato a inoltrarsi nelle tecnicalità della politica; come quando invitò ad astenersi al referendum del 2005, suscitando la denuncia penale del ginecologo Antinori, la perplessità di Andreotti, la polemica dei referendari. Poi la denuncia è stata archiviata, Andreotti si è inchinato, e i referendari ne sono usciti nettamente sconfitti: il 75% degli italiani non votò. Altrettanto coraggio Ruini aveva dimostrato due anni prima, nel novembre 2003. La sua omelia a San Paolo fuori le Mura, davanti alle bare dei caduti di Nassiriya, non puntava a suscitare commozione, ma a innovare la linea della Chiesa, a sostegno della missione italiana in Iraq e della guerra al terrore (’Noi non fuggiremo davanti ai terroristi; li fronteggeremo, ma non li odieremo...”) [...] Un’omelia porta con il caratteristico tono di voce, dolce ma fermo, e con l’eloquio consueto in cui la geometria prevale sul pathos, che fece dire a Giorgio Rumi: ”Ruini è emiliano ma ragiona come un cardinale tedesco”. Lo stesso tono e lo stesso rigore geometrico con cui motivò il rifiuto ai funerali per Welby, e nel contempo ammise la propria sofferenza; Ruini del resto è uomo asciutto, e non solo nel fisico; e forse è quello il suo modo di provare pietà. I cattolici italiani l’hanno compreso. Basta seguire Ruini nelle sue visite alle parrocchie di Roma (anche nelle borgate rosse, anche nelle comunità come quella di Sant’Agnese legata alla liturgia delle chitarre e dei battimani ma che [...] è rimasta due ore a tributargli un’accoglienza e un’attenzione impressionanti), per verificare come accanto alla sua popolarità sia cresciuto l’orgoglio identitario del suo popolo. La forza asciutta che ha deluso molti laici ed è forse spiaciuta anche a qualche cattolico ha finito, nel tempo, con l’alimentarne il carisma, e ha contribuito a scriverne il ruolo nella storia recente d’Italia, che ora prosegue come vicario di Roma. E quando si sarà sopito il clamore del mondo – la polemica quotidiana, le richieste d’udienza dei segretari di partito, l’urlo della Littizzetto, il cilicio della Binetti ”, anche la politica saprà fare, nel tempo, quello che alla Chiesa riesce più facile, fermarsi a meditare, individuare gerarchie di valori, restituire le cose alla loro dimensione; e allora si comprenderà appieno che all’inizio della primavera del 2007 si è consumato l’addio di un grande» (Aldo Cazzullo, ”Corriere della Sera” 7/3/2007) • Alberto Melloni, storico della Chiesa: «[...] C’è una cosa che disse una volta Cossiga... Io però la ritengo troppo feroce, sul serio... [...] Che come presidente della Cei Ruini è stato un grande, ma come segretario regionale della Dc sarebbe stato il massimo [...] è davvero troppo, però mostra come un grande politico possa leggere la dinamica del cardinale [...] La lunga presidenza di Ruini rappresenta un caso unico. Eppure penso che sia stata la grande occasione perduta della Cei: ha avuto la possibilità di dare alla Chiesa italiana una sua fisionomia e invece ha preferito fare ciò che gli risulta più facile, il dribbling stretto con i partiti [...] Mi spiego: credo si possano distinguere tre stagioni nel rapporto tra Chiesa e politica in Italia, e quella di Ruini è la terza. Nella prima, impersonata dalla figura del cardinale Siri, la Chiesa tenta d’essere un dominus, è la lunga fase del primo dopoguerra, c’è tensione, non si fida della Dc. Papa Montini invece si fida, alcuni dei dc migliori come Fanfani, La Pira, Dossetti o Moro sono suoi ”figli”. Inizia la seconda fase, dopo il Concilio emerge la ricchezza del cattolicesimo. Ed è proprio Montini a tentare di far nascere la Cei [...] Non era facile. E solo da noi, con il Papa Primate d’Italia, non esisteva. Poteva sembrare una mancanza di rispetto. Montini, come ha detto Andrea Riccardi, è un principe riformatore. Ma questo sforzo di dare una fisionomia alla Chiesa italiana s’interrompe con il rapimento di Moro. Proprio il suo disegno lo costringe a quell’atroce discorso agli ”uomini delle Br”: Paolo VI muore allora, lui che ha tenuto a battesimo la Dc e Chiesa italiana non riesce ad avere una posizione ”terza”, a mediare [...] Wojtyla non conosceva i dc da quand’erano piccoli. Dopo la presidenza ”normale” di Ballestrero, nell’85 sceglie di commissariare la Cei: e nomina presidente il suo Vicario per Roma, Poletti. Poi gli succede Ruini che diventa Vicario. Il commissariamento è durato 22 anni [...] Giovanni Paolo II Voleva una Chiesa più compatta e Ruini era in grado di spiegargli l’Italia meglio degli altri. Sapeva più di tutti negoziare con la politica. E questo al Papa andava benissimo, tanto al di là c’era sempre lui [...] Se c’è un aspetto amaro, del ruinismo, è che la politica italiana è andata a destra perché c’era Berlusconi ed è tornata a sinistra per Prodi, non per Ruini. Lui ha continuato a dribblare dove c’era il gioco, come se il sensore di rilevanza fossero i partiti. Sì, la Chiesa è molto e forse troppo temuta nel Transatlantico, ha guadagnato una certa capacità di intimidazione, ma non è questo che la fa essere bella e attraente. un modo di fare che ha annaffiato la pianticella dell’anticlericalismo, una brutta bestia [...] L’ultima crisi è stata un canto del cigno un po’ triste, Ruini aveva bisogno della caduta di Prodi e non l’ha avuta. Una Chiesa che ha una capacità di diffusione molto più ampia, si trova ad essere rappresentata da una voce monocorde. Ci sarà bisogno di pazienza per riabilitare il dialogo e fare una Chiesa in cui le differenze di opinione sulle cose disputabili non siano trattate come crimini» (Gian Guido Vecchi, ”Corriere della Sera” 7/3/2007).