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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

SADDAM HUSSEIN Sadisavan

SADDAM HUSSEIN Sadisavan Tikrit (Iraq) 28 aprile 1937, Bagdad (Iraq) 30 dicembre 2006 (impiccato). Politico. Ex Dittatore iracheno. Rimosso dal potere con la Seconda guerra del Golfo, il13 dicembre 2003 fu catturato dalle truppe americane • «La sua parabola finisce lì dove era cominciata, nel vuoto giallo della provincia di Tikrit, serbatoio storico di guerrieri sunniti cooptati prima dall´impero ottomano, poi dai britannici per proteggere gli oleodotti e contenere gli sciiti, infine da Saddam, che si appoggiò sui conterranei tikriti per formare il vertice della dittatura. Come nelle favole l´orco non abbandona mai il suo territorio, e solo lì può essere sfidato e vinto, così Saddam era tornato dov´era nato 66 anni fa e dov´era perfino ovvio che si sarebbe rintanato. I clan della zona erano il fondamento del suo potere e la sua solida base di consenso. [...] Dagli anni in cui il ragazzo orfano e analfabeta aveva imparato che la brutalità spinta fino all´omicidio è il metodo più efficace per farsi strada in una società feudale, una lunga scia di sangue aveva accompagnato la sua ascesa. E l´assassinio di tanti compagni d´avventura aveva eroso il telaio d´alleanze con famiglie e clan tikriti. Secondo i suoi biografi fece uccidere il generale Omar el Hazzah e il figlio, ufficiale della Guardia presidenziale, entrambi tikriti, perché il primo si sarebbe vantato d´aver dormito con la mamma di Saddam; altri furono consegnati alle forche per "slealtà" non meno futili. Neppure con questo terrore permanente, così tipico dello Stato totalitario, Saddam riuscì a selezionare una suprema cerchia cui potesse volgere le spalle senza timore d´essere pugnalato. [...] "Trionfatore" che celebravano statue e portali ovunque nel Paese. Milioni sono stati addottrinati a considerarlo prima il nuovo Nasser, paragone presto abbandonato dal regime perché considerato riduttivo, e poi il nuovo Nabucodonosor, comparazione giudicata da Saddam più idonea a compiacere l´ultra-nazionalismo arabo (rappresentandosi come l´erede del babilonese, egli alludeva alla sua pretesa d´essere il flagello degli Ebrei, cioè d´Israele). Come spesso i grandi sterminatori, Saddam ha finito per fondare sulla sua disumanità un´immagine di sé che trascendeva l´umano e semmai spartiva con il divino (dio come ”irresistibile potenza” di Hobbes). Tutto questo ha plasmato l´immaginario di milioni di iracheni. [...] Egli si considera un governante ”giusto e inflessibile”, le cui azioni andrebbero giudicate con il metro della storia; e un patriota che ha difeso la nazione con la necessaria determinazione. Dunque i cinquemila curdi gasati nel 1986 ad Halabja, o gli sciiti massacrati nel sud dopo le rivolte degli anni Novanta, sarebbero tutti ”banditi e spie iraniane”: anche i bambini. Difesa risibile. Ma Saddam avrebbe almeno buon gioco a dimostrare che la strage di Halabja all´epoca non impressionò particolarmente gli americani. Come confermano documenti declassificati, sin dall´inizio degli anni Ottanta Washington sapeva che l´Iraq usava i gas contro l´esercito iracheno e contro ”insorti curdi” alleati di Teheran. Questo non impedì all´inviato della Casa Bianca, Donald Rumsfeld, attuale ministro della Difesa, di avere un incontro cordiale con Saddam nel 1983. Nell´occasione l´americano neppure sfiorò l´argomento delle armi chimiche. Ne accennò invece l´anno successivo, durante un secondo incontro a Bagdad. Ma per quanto ufficialmente preoccupata, Washington si oppose ad una condanna dell´Iraq in sede Onu, come richiesto da Teheran, e non si oppose alla vendita di elicotteri da guerra a Saddam [...]» (Guido Rampoldi, ”la Repubblica” 15/12/2003). « stato un personaggio più complesso del ritratto che in questi ultimi tempi se n’è fatto, di dittatore feroce, sanguinario quanto nessun altro. Che il Raìss sia stato un crudele leader politico, capace di nefandezze e di violenze raramente praticate nel mondo occidentale (ricordiamoci però di Hitler, ricordiamo Videla e Pinochet e le pulizie etniche dei Balcani), resta consegnato agli archivi d’una documentazione agghiacciante [...] La struttura di potere sulla quale Saddam ha radicato la gestione caligolesca dei suoi 25 anni di dittatura potrebbe esssere ben rappresentata da tre anelli concentrici. Il primo, quello esterno, era formato solo dai sunniti, e i sunniti hanno controllato ogni spazio della vita pubblica irachena, con esclusione delle altre due componenti sociali. L’anello di mezzo era popolato soltanto dai membri della tribù di Al-Bu Nassir, sunniti naturalmente e non più di 20 mila persone; questi erano i veri ”capobastone”. Nell’anello più stretto c’era, infine, la ”cupola”, con tutti i parenti di Saddam - zii, fratelli, cugini d’ogni grado, generi, suoceri, cognati, fratellastri - e i suoi più prossimi consanguinei della città di Tikrit. Diceva il Raìss: ”Da noi, più che l’ideologia conta il legame del sangue”. Ma Saddam aveva un progetto che andava al di là della ”famiglia”. E la sera del 2 agosto 1990, quando i suoi carri armati si schierarono di fronte al confine che divide il Kuwait (allora appena occupato) dall’Arabia Saudita, il Raìss non avrebbe dovuto ordinare che i tank spengessero i motori e si fermassero su quella frontiera; avrebbe dato l’ordine di continuare l’avanzata. Dal visore del carro, i T-72 vedevano davanti a loro una strada dritta e vuota, senza nessuna difesa, senza nessun fuciletto o soldato saudita che potessero fermarli. Sono poco meno di 400 chilometri di autostrada, una vera passeggiata avrebbe fatto sorgere l’alba di Riyadh sui carri iracheni schierati nella piazza principale della capitale saudita. E allora sì, che Saddam avrebbe trattato da una posizione di forza; e sarebbe potuto tornare verso la frontiera proclamando con il consenso mondiale che ”la truffa kuwaitiana” era stata debellata, e che finalmente l’antico territorio mappale del Q-8 era definitivamente la 19ª provincia del territorio nazionale iracheno. Ma Saddam si fermò alla frontiera e perse poi la guerra che gli lanciò Bush senior. Tuttavia, questo suo progetto ”imperiale”, per quanto fortemente segnato dalle ambizioni personali e da una sconfinata mania di grandezza, aveva uno sfondo più ampio, più orgoglioso, uno sfondo che legava la storia e le sorti del suo Iraq alla storia e alle sorti dei popoli arabi. Fin da bimbo i racconti che lo zio (che gli fece da padre, dopo la scomparsa del genitore di sangue) gli narrava come una bella favola, avevano un solo eroe: Gamal Abdel Nasser e la resistenza che, al Cairo, l’Egitto dei giovani ufficiali aveva opposto agl’imperi coloniali europei. Alla pari di tanti giovani ledaer politici della sua generazione anche Saddam si fece un ammiratore entusiasta del progetto di riscatto che il colonnello egiziano proclamò negli anni Cinquanta all’intero mondo arabo. E quando la crisi petrolifera del ’73 - al tempo della guerra dello Yom Kippur - gli fece capire quale straordinaria leva della storia fossero gli idrocarburi ammassati nei giacimenti del sottosuolo iracheno, pianificò allora una sua scalata al potere. Che non era soltanto il potere in Iraq (lui stava già a far da ombra addosso allo zio Presidente, generale Hassan Al-Bakr), ma il potere sull’intero mondo arabo, forse anche sull’intero mondo musulmano. In un tempo in cui i leader del Movimento dei Non Allineati erano in crisi, e non riuscivano a costruire una credibile alternativa all’egemonia dei due Supergrandi, Saddam immaginò che quei 113 miliardi di barili di petrolio che stanno nel ventre dell’Iraq potessero dargli una forza difficilmente contrastabile. Nacque così la Prima guerra del Golfo, dall’80 all’88, che dissanguò l’Iraq, lo indebitò con l’Urss, la Francia e l’Arabia Saudita, per quasi 100 miliardi di dollari, ma comunque riuscì a fermare l’espansione della rivoluzione khomeinista. Una rivoluzione populista e medioevale che - se avesse superato le acque torbide dello Shatt Al-Arab - avrebbe provocato la destabilizzazione di tutte le monarchie del Golfo e avrebbe impresso un controllo fortemente antiyankee (e antioccidentale) sui flussi del petrolio. Sfasciando le economie dell’Occidente. A quel tempo, Saddam - che comunque si conosceva già come capo, crudele, barbarico, sanguinario - andava però bene ai pruriti etici degli Stati Uniti e dell’Europa. Tanto bene che, quando, nella penisola di Fao, gli iraniani sfondarono la linea di difesa irachena e stavano per spandersi sul tutto il Golfo, Saddam usò i gas (ne fui poi testimone agghiacciato, di fronte a migliaia di corpi rattarappiti nel tormento d’una morte terribile), usò i gas con l’assenso, o comunque con la conoscenza, degli Usa, preoccupati per il petrolio e non certo per un’arma di distruzione di massa nelle mani d’un dittatore comodo. La stessa arma, però, che avrebbe poi costituito la giusticazione formale dell’attacco americano sull’Iraq, il 19 marzo di quest’anno. In quel suo progetto antikhomeinista, Saddam fu sempre abile ad agitare la bandiera del nazionalismo arabo, e chiamò ”Nuova Khadisiya” la guerra contro gli ayatollah di Teheran (la prima Khadisiya fu una battaglia combattuta nel 636 sui pianori che stanno a nord di Baghdad, una battaglia che segnò la sconfitta dell’impero persiano e la fine del suo progetto di espansione verso Occidente). Ma ancor più abile a vestire di nazionalismo panarabo i suoi progetti imperiali fu nella Seconda guerra del Golfo, quella del ”90-’91. In quei mesi il suo messaggio fu che gli americani e l’Occidente si opponevano a sanare i debiti della storia, penalizzando sempre le legittime ambizioni dei popoli arabi. Il Q-8 (Kuwait, nella lettura inglese) era, per Saddam, un territorio sottratto dall’Impero di Sua Maestà alle legittime aspettative dello Stato iracheno; l’occupazione di quello sceiccato, ad agosto del ”90, era solo il risarcimento d’un furto patito durante la frantumazione dell’Impero Ottomano. E la coalizione di Schwarzkopf dichiarava guerra soltanto per piegare ancora una volta, e umiliare, i sentimenti dei popoli arabi. [...] Saddam, con il suo ricupero di un orgoglioso disegno nasseriano, sembrava dare ora un lenimento a quelle umiliazioni, e lasciava immaginare come possibile un riscatto che avrebbe portato le terre della Mezzaluna a ricuperare l’antica storia gloriosa del Saladino (il Salh Al-Din della riconquista di Gerusalemme). [...] Perfino dopo la sua prima sconfitta, nel ”91, Saddam aveva potuto conservare il fascino di quel richiamo all’orgoglio arabo, in una cultura dove la sconfitta viene sempre vissuta come l’algida conferma d’un mondo sprezzante che tiene schiacciato sotto il tallone del suo strapotere militare le legittime aspirazioni d’un miliardo e 200 milioni di fedeli dell’Islam. Questa nuova sconfitta, ora, la sconfitta nella guerra ma soprattutto la sua cattura in quel buco maleodorante a pochi passi dalla sua vecchia casa, accompagna la fine della storia personale del Raìss.» (Mimmo Candito, ”La Stampa” 15/12/2003). «Egli è capo dello stato iracheno, capo del governo, capo delle forze armate, segretario generale del partito unico Baath: un cumulo di cariche assolute che, rispettando le dovute proporzioni storiche, soltanto Stalin poté ricoprire nell’età d’oro e d’acciaio della defunta Unione Sovietica» (Enzo Bettiza, ”La Stampa” 14/4/2002). «Il dittatore che tiene in pugno l’Iraq da 23 anni riceverà[…] Il ”grande cattivo”, il ”signor Male”, nel mirino degli ispettori Onu e della macchina militare anglo-americana. […] Un torturatore che rivelò subito la sua irresistibile vocazione. […] Saddam (nomen omen: significa ”colui che si oppone”) nacque nel poverissimo villaggio di Al Quja, nell’Iraq centro-settentrionale. La versione ufficiale è che suo padre, Hussein al-Majid, un misero contadino, abbia lasciato la casa di famiglia prima della sua nascita. Ma, secondo molti racconti locali, Al Majid non è mai esistito e Saddam sarebbe figlio di un ignoto cliente di sua madre Subha, prostituta del paese. Molti anni dopo, quando era già diventato Presidente, un ufficiale confidò alla sua amante di essere una volta stato a letto con la madre del Raíss. Il meschino non sapeva che i servizi segreti del dittatore stavano registrando quella conversazione. E così, nel giro di pochi giorni, l’ufficiale, suo figlio e l’amante vennero passati per le armi. Saddam vuole che si rispetti la sua mamma, alla quale si è sempre mostrato molto devoto. Sta di fatto che il futuro dittatore crebbe negli strati più bassi di una comunità già di per sè miserabile. In quanto bastardo, era spesso bersaglio di pesanti prese in giro o addirittura di attacchi fisici. Per cui prese presto l’abitudine di andare in giro munito di una sbarra di ferro per difendersi. Era molto più difficile difendersi dalla crudeltà di Hassan al-Ibrahim, il patrigno, sposato dalla madre quando aveva tre anni. A Hassan piaceva picchiare il ragazzo con un bastone imbevuto nell’asfalto, costringendolo a ballare sui sassi se voleva evitare le percosse. Questa crudeltà era in realtà una specie di addestramento militare. Hassan voleva ottenere il pieno controllo sul ragazzo, che veniva da lui regolarmente spedito a rubare polli e uova ai vicini. Un’altra persona esercitò una notevole importanza sulla sua ”formazione”. Si tratta di uno zio di Tikrit, Khairallah Tulfah, presso il quale il ragazzo venne mandato a vivere per un paio d’anni. Khairallah, ammiratore di Hitler, era appena uscito di prigione, dove aveva passato cinque anni per aver preso parte a Baghdad a una rivolta anti-inglese appoggiata dai nazisti. Fu allora che si verificò l’episodio rivelatore. Saddam aveva dieci anni quando scoprì che il preside si apprestava a farlo espellere dalla scuola. La cosa ovviamente non gli andava e così il ragazzo si presentò nell’ufficio del preside con queste parole: ”Io la ucciderò se lei non ritirerà la sua minaccia di espulsione”. Data la fama di violenza dello zio Khairallah, la minaccia venne presa molto sul serio e il preside non parlò mai più di espulsione. Saddam commise il suo primo assassinio all’età di 21 anni. Su ispirazione dello zio aveva nel frattempo aderito al partito Baath, che propugnava la creazione di un’unica nazione panaraba. Nell’estate del 1958 Khairallah era stato nominato direttore dell’Educazione a Baghdad ed era fiero della sua nuova carica. Ma un comunista locale, certo Saadoun al-Tikitri, riuscì a farlo saltare. Fuori di sè, Khairallah pretese che il nipote eseguisse la vendetta. Una sera al-Tikriti stava camminando tranquillamente quando Saddam saltò fuori da un cespuglio e gli sparò un colpo in fronte. Arrestati, Saddam e Khairallah vennero poi rilasciati sei mesi dopo per mancanza di prove. Uscito di prigione Saddam si dedicò alla carriera di agitatore professionista. Era di un anticomunismo inflessibile, secondo tutte le testimonianze, e la sua prima grande impresa fu quella di partecipare, nel 1959, a un attentato contro l’allora presidente, il filo-comunista Abdul Karim Kassem. Il tentativo di assassinio da parte di una squadra di cinque uomini fallì, a quanto emerge dalla ricostruzione di Coughglin, proprio perché Saddam aprì il fuoco prematuramente, consentendo alle guardie di Kassem di reagire. Lievemente ferito (ma la ferita diventerà poi una leggenda), Saddam dovette riparare all’estero, in Siria e poi al Cairo. Ritornò a Baghdad quando, nel 1963, Kassem venne rovesciato. Ottenne un primo posto nel goveno baathista. Era anche giunto il momento di sposarsi: la scelta per la prima moglie cadde su Sajida, figlia di zio Khairallah. Anche se l’incarico di Saddam aveva a che fare con l’agricoltura, il futuro dittatore si impegnò molto nell’impresa fondamentale del nuovo regime, la caccia ai comunisti. La nomina a capo dei servizi segreti del Baath arrivò come un premio per questo suo zelo. Che tipo di uomo era il nuovo duro del regime? Un uomo molto timido, a dispetto della sua statura abbastanza imponente, un metro e 87, e del fisico massiccio. Parlava poco anche nelle riunioni, ma riuscì a laurearsi in legge all’università di Baghdad con il suo caratteristico stile, appoggiando una pistola sul tavolo dell’esaminatore. Del resto aveva già cominciato ad andare in giro protetto da violenti gorilla. Nel frattempo cominciava a sviluppare una passione per le macchine e per i vestiti, ordinati dal più caro sarto di Baghdad, ”Haroot” […] Fu visto gettare un prigioniero, Dukhail, in una vasca d’acido e osservare freddamente il dissolvimento del suo corpo. ” molto meglio uccidere un uomo innocente che lasciar sopravvivere un colpevole”, era la sua filosofia. La colpa dell’allora presidente, Bakr, di cui era diventato il braccio destro, era quella di essere un ostacolo. Ma Bakr fortunatamente morì. […] La strada per il potere era spianata» (’La Stampa”, 15/10/2002). «Alto un buon metro e novanta, e di stazza discreta (pesa quasi 100 chili), se gli si mettesse addosso una cotta di maglia e un bell’elmo puntuto, non farebbe alcuna fatica a passare per la controfigura credibile del ”feroce Saladino” cui ama tanto paragonarsi. Loro due sono compaesani, vengono entrambi da Tikrit, che è un pezzo polveroso di pianoro distante un centinaio di chilometri da Baghdad e a guardare da lì verso Nord, ma con uno sguardo acuto, si possono vedere già bene le montagne azzurre che dentro le proprie viscere conservano qualche miliardo di barili di petrolio. Saladino e il petrolio fanno la storia di Saddam. O almeno la fanno nella sua testa, nelle ambizioni che vi coltiva e dalle quali sempre si è lasciato trascinare, fino a trovarsi a lanciare un paio di sfide al mondo intero. La prima sfida - quella del Desert Storm e dei pozzi bruciati in Kuwait - tutto sommato gli andò bene; ne uscì con le ossa ammaccate ma sano e salvo, perché l’America aveva bisogno di lui, della sua capacità di tenere stabilizzata una regione che ribolle di furori e di odi, e preferì conservarselo al potere. […] Saladino (in realtà Salah Al-Din) fu il condottiero che guidò gli arabi alla riconquista di Gerusalemme, strappandola dalle spade dei Crociati che l’avevano ripresa con la spedizione dei Franchi in Terra Santa. Nella tradizione culturale del mondo musulmano, il suo nome è pronunciato con rispetto e l’ammirazione che si debbono a chi ottenne l’ultima grande vittoria, forse, della storia araba, e questo ancor più oggi che un diffuso sentimento di umiliazione nei confronti dell’Occidente - della sua potenza, del suo modello culturale, dello sviluppo delle sue economie - tormenta dal fondo i cuori dei credenti di Allah con il disperato desiderio d’un Risorgimento islamico. I tempi del Saladino non erano tempi di diritti umani, e di lui si ricorda soprattutto la gloria delle sue armi e la potenza dei suoi eserciti. Saddam Hussein, invece, che tanto vorrebbe somigliare al compaesano, ha la sfortuna di vivere in tempi nei quali il potere deve accettare regole e limitazioni e la potenza delle armi non basta a giustificare la gloria. Almeno fintanto che la decenza riesce a coprire il lavoro sporco degl’interessi che passano sotto i grandi proclami ideali e sotto quella che Weber chiamava ”l’etica dei principi”. […] Con elmo o senza elmo, Saddam trova così qualche difficoltà a guadagnarsi la stessa gloria del compaesano vittorioso; e se pure nel mondo arabo non sono pochi coloro che gli manifestano rispetto e considerazione per questo esser, lui, l’unico a opporsi al Grande Satana americano, gli pesa addosso comunque una riprovazione universale. Riprovazione che la sua sfacciata ed esagerata crudeltà - e, naturalmente, le sue ”irrispettose” ambizioni di potere - impongono anche a chi (Usa, Russia, Francia, Italia, Germania) chiuderebbe volentieri un occhio per i buoni affari che Baghdad sa proporre ai visitatori delle stazioni di pompaggio. A prendere certe maldestre scorciatoie della psicoanalisi, la crudeltà senza limiti che Saddam impone all’esercizio del potere troverebbe radici in una sua infanzia disgraziatissima, con la mamma costretta a metter da parte i doveri della virtù, per poter tirare a campare, e con il patrigno che lo bastonava di santa ragione ogni mattino e ogni sera (durante il giorno, il piccolo Saddam se ne usciva ad accompagnare al pascolo, per le terre di Tikrit, le due pecore e il montone ch’erano tutta la ricchezza di casa). Nei diciannove volumi che illustrano la sua biografia ufficiale - opera probabilmente non definitiva per la storia dell’umanità, ma comunque di concorrenza vittoriosa con i quindici volumi della biografia di Kim II Sung e con i dieci di quella di Nicolae Ceausescu - chi ha letto quel mare di pagine assicura di avervi trovato molti episodi che raccontano un’infanzia difficile ma generosa, e vicende e incontri che costruiscono quasi la premonizione d’un destino segnato dal cielo. Ma pur in quest’infanzia agiografica d’un Capo, che i diciannove tomi di The Long Days ricordano con devozione, trova ugualmente spazio il dettagliato racconto delle sofferenze inferte da quel cattivo Ibrahim Al-Hassan, e le bastonate che lui dava ogni mattino al bimbo ancora a letto gridandogli (la frase è testuale): ”Tirati su, dannato figlio di puttana. Vai a badare alle pecore”. L’insistenza del racconto su questi penosi particolari - un racconto che, naturalmente, non poteva essere pubblicato senza l’alto imprimatur dell’interessato - qualche segnale alla fine lo dà. E, certo, un presidente, leader massimo, capo del Consiglio della rivoluzione, comandante di tutti gli eserciti, e padrone assoluto di un mare di petrolio, che in pieno Consiglio dei ministri tira fuori dalle fondina la pistola e ammazza lì, a sangue freddo, uno dei suoi ministri, dicendogli ”Tu stavi tramando per tradirmi”, qualche problema, dentro, deve avercelo per forza. Può anche essere che l’uno o l’altro dei Borgia - a parte la pistola e il petrolio - non usassero fare operazioni poi tanto diverse, della loro gestione degli affari politici, ma i secoli che stanno in mezzo qualche obbligo di contestualizzazione lo impongono anche ai satrapi dell’Oriente. E Saddam che guarda la Cnn, la Bbc, la Skynews, che usa il satellitare, che ama vedere e rivedere nelle sue salette private e in cinemascope l’intera saga del Padrino di Coppola, che nei suoi venticinque palazzi costruiti dentro i ”siti presidenziali” può godere di ogni più sofisticato marchingegno dell’elettronica, deve allora accettare di subire, poi, l’orrore e la riprovazione del resto del mondo» (Mimmo Candito, ”La Stampa” 10/12/2002). Vedi anche: Ettore Mo, ”Sette” n. 46/1997.