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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

SALVATORES

SALVATORES Gabriele Napoli 30 luglio 1950. Regista. Si diploma all’Accademia d’arte drammatica del Piccolo Teatro di Milano ed è tra i fondatori, nel 1972, del Teatro dell’Elfo per il quale realizza, nel corso di dieci anni, ventuno spettacoli. Dopo il successo del musical tratto da Sogno di una notte di mezza estate di William Shakespeare, nel 1983 gira il suo primo lungometraggio (dallo stesso titolo) premiato alla Mostra di Venezia. Tra i suoi film: Kamikazen (1987); Marrakech Express (1989); Turné (1990); Mediterraneo (1991, premio Oscar per il migliore film straniero); Puerto Escondido (1992); Sud (1993); Nirvana (1997); Denti (2000); Amnesia (2001); Io non ho paura (2003) • «Nato a Napoli nel 1950, trasferito a Milano con la famiglia da piccolo, Salvatores era destinato a diventare avvocato, proprio come suo padre Renato. Ci prova, ma non ce la fa a obbedire fino in fondo: ”Cominciai a fare spettacolo a scuola, da ragazzo. Al liceo, già nel 1967, le interrogazioni di greco erano state cancellate e sostituite con rappresentazioni di gruppo. Una volta, recitammo l’ultimo atto dell’Antigone: la professoressa è uscita dalla classe indignata”. Alla facoltà di Giurisprudenza della Statale, ”arrivai nel Sessantotto, a 18 anni, incontrai quello che è stato per tanti di noi un fratello maggiore: Mario Capanna, allora capo indiscusso del Movimento studentesco. Era più grande, aveva un modo di fare protettivo e rassicurante. Mio padre aveva perso la sua sfida: avevo i capelli così lunghi e mi vestivo così strano che lui, se dovevamo uscire insieme, sceglieva di camminare sul marciapiede opposto, non ce la faceva a starmi vicino. La musica di Jimi Hendrix, vera reincarnazione di Mozart, Frank Zappa e i film di allora, dal Laureato a Il pane e le rose, insieme all’immensa energia umana che ti trasmetteva il movimento, mi portarono verso la politica rivoluzionaria, verso un estremismo anche esistenziale. stato un passaggio breve, ma forte: per un soffio, tanti di noi, mi metto io per primo, non sono finiti nella lotta armata, nel terrorismo o nell’eroina. un caso, un destino, un rimescolamento di carte: il confine era sottilissimo. Forse, mi hanno salvato proprio il rock, la chitarra elettrica, gli spettacolini che organizzavamo fra noi. Ci dividemmo, a ripensarci oggi, fra chi scelse l’impegno e chi la fantasia, il sogno, una diversa utopia, la voglia di fuga di un’intera generazione, la stessa che ho poi raccontato con i miei film”. Il teatro in fabbrica, in strada, nei manicomi: nei primi anni Settanta, a Milano, i ragazzi borghesi dei licei e delle università cercano di scomporre e ridefinire classi e identità. La città della Scala – dove i contestatori, come si chiamavano allora, lanciano uova contro le signore in pelliccia alla prima – inventa il teatro aperto, la nuova cultura affiora dalle rappresentazioni improvvisate, dalle rivisitazioni dei testi classici. ”Avevamo un’idea militante del teatro popolare, mettevamo in scena la cronaca, le favole, piombavamo nelle fabbriche occupate con i nostri costumi e le nostre canzoni, erano gli anni in cui l’Italia scopriva Brecht, il Living Theatre. La mia prima sala prove? Al centro sociale Leoncavallo”. Nel 1972, Salvatores fonda il Teatro dell’Elfo: ”Avevo 22 anni, ero un extraparlamentare affascinato dalla non violenza di Gandhi, iscritto a Lotta continua, pensavo che la libertà di esprimersi in teatro fosse un diritto di tutti. Ero anche un piccolo imprenditore: dovetti subire, senza fiatare, l’esproprio proletario degli incassi di una settimana. Erano i nostri ragazzi che si portavano via la nostra cassa. Cose che capitavano allora. [...] Il mio film del cuore resterà per sempre Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, con Gian Maria Volonté, il più grande di tutti. L’ho conosciuto al Locarno, l’albergo liberty dietro via Ripetta, la notte amava parlare e perdere tempo, sembrava avesse addosso l’impegno che metteva nella politica e nelle sue interpretazioni. Fra i miei primi flash sulla città ci sono anche le immagini di Monicelli, Scola, Scarpelli che giocano a carte – sempre di mercoledì – alla trattoria Otello alla Concordia, in via della Croce. Eravamo all’inizio degli anni Ottanta. Noi, invece, non siamo mai diventati un gruppo, non abbiamo cercato né avuto maestri. Siamo arrivati troppo tardi, troppo giovani per essere – come capitò a Bertolucci – assistente di Pasolini. Moretti lo ha teorizzato, alla fine dei Settanta, con il suo super8, Io sono un autarchico, manifesto di un nuovo modo di intendere il cinema. Lui, la Archibugi, Faenza, Mazzacurati, Piccioni, io stesso: siamo dei solitari” [...]» (Barbara Palombelli, ”Corriere della Sera” 30/4/2005). «Il suo percorso è un misto di strategie ”all’americana” e di indifferenza ai rischi. ”Irrequietezza personale. Se faccio una cosa che viene bene devo fare qualcosa di diverso. Dopo il successo di Mediterraneo, vissuto con l’impressione di dover restituire qualcosa, ho fatto Sud per mettermi alla prova. Americano dice: io mi sono sempre misurato con produzioni grosse, Cecchi Gori prima e Medusa ora”. […] Fama, oltre che di eclettismo, di disponibilità, accoglienza, ”morbidezza”. Si riconosce? ”Tutte cose positive”. Un momento. La sua personalità e il suo stile dove sono? ”Io elaboro poco quello che faccio. Il mio approccio, non tanto alla vita dove cerco di programmare tutto perché ho paura, è da improvvisatore: quello che mi piace al momento. Non amo la definizione di autore. Che il regista racconti solo la sua visione della vita. Il cinema è un fatto collettivo: io ho il piacere di suonare con gli altri. Se Miles Davis chiama Coltrane, sa che gli cambierà la musica. Ho il piacere della messa in scena, senza rigidità. Questo mi è stato rimproverato. Ricordo un dibattito ai tempi di Turnè. A lei che cosa piace, mi chiedono, e io rispondo: raccontare storie. Due cinefili si sono dati di gomito con l’aria di dire: risposta sbagliata”. Ha rappresentato se non l’anti-Moretti un’opzione decisamente diversa. ”Anche Moretti è cambiato, La stanza del figlio è una storia, anche se a me piaceva di più Palombella rossa perché era quello che io non sapevo fare, la frantumazione del racconto […] Quando faccio un film è come se stessi preparando una cena. Se non viene nessuno ci rimani male, puoi mangiare da solo ma non è la stessa cosa. Non è calcolo, è una convinzione intima […] Il mio Sud parla di disoccupati napoletani che occupano per protesta un seggio elettorale. Ma c’è un errore: io non conoscevo bene quello che stavo raccontando. Un artista deve parlare di cose che toccano corde più profonde di quelle razionali. I figli sono di chi li cresce però, porca miseria, quello che chiamiamo ”sangue” qualcosa conta. Allora è la forma che conta. […] Ma la cosa più importante è non dire bugie. A proposito. Si è sempre detto che sono il regista del viaggio, ma prima di Marrakech express avevo viaggiato pochissimo”» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 23/6/2003).