Varie, 6 marzo 2002
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Sampras Pete
• Washington (Stati Uniti) 12 agosto 1971. Ex tennista, ha vinto 14 titoli dello slam (di più solo Federer): sette Wimbledon (1993, 1994, 1995, 1997, 1998, 1999, 2000), cinque Us Open (1990, 1993, 1995, 1996, 2002), due Australian Open (1994, 1997) • «C’era una volta un vecchio scriba, al quale un altro travet americano suggerì di fare un giro sui campi periferici di Flushing Meadows, per dare un’occhiata alla great hope (grande speranza) del suo paese, un sedicenne iscritto nel torneo juniores. Lo scriba mosse le sue stanche membra, e si affacciò ad un court sul quale un bel brunetto dall’aria messicana stava bastonando un nanone asiatico. Il bel brunetto toccò una corda che il vecchio scriba nascondeva da sempre dentro a sè, più vicino al cuore che al cervello, e un’onda lo riportò indietro, il primo giorno in cui aveva visto Pancho Gonzales. Ma passiamo alla prima persona, meno togata, che mi viene più facile. Ritornai in sala stampa, scrissi che avevo visto il successore di Gonzales. Il collega americano diede un’occhiata alla cartella uscita dalla mia Olivetti, ne chiese traduzione, si portò infine le mani ai capelli per esclamare: ”Ma hai visto il campioncino sbagliato, Gianni. Quello buono non è Sampras, è Chang”. Il giorno seguente la mia storiella venne letta da Sergio Tacchini, che si affrettò ad acquistare il bambino per un par di centomila dollari, dopo avermi chiesto se mi assumevo la responsabilità di un mio scritto di fronte ai posteri, e magari ai suoi revisori dei conti. Di lì ho sempre seguito la carriera di Pete Sampras con un’attenzione particolare, quasi ne fossi, in qualche modo, corresponsabile. E devo confessare che quel fenomeno mi ha offerto momenti di grande diletto, non meno di un Gielgud o di un Tofano, di un Tati o di un Totò. Non posso certo confrontarmi col mio amministratore, il rag. Tommasi. […] Anche perchè, dunque, lo conosco benino, ho sempre affermato, dopo i due primi tentativi, che Sampras non avrebbe mai vinto Roland Garros. Per varie ragioni, che riassumo. 1) Non ha il ritmo, nè il fisico, per sostenere tre-quattro ore di palleggi dal fondo. 2) E’ handicappato dal fatto di non saper colpire la palla in scivolata laterale. 3) L’ultimo a vincere R. Garros facendo serve & volley fu, nel 1983, Yannick Noah, certo più atleta di Pete. Questo è tanto vero che, a Parigi, Sampras ci ha provato sin dal 1989: 12 tentativi, raggiungendo due volte il primo turno, cinque il secondo, una il terzo, tre i quarti di finale, e solo una, nel 1996, la semifinale. Faticò tanto, quella volta, da essere raccolto col cucchiaio e facilmente ingoiato dal vincitore Kafelnikov. Rileggo, e vedo che ho scritto ”ci ha provato”. Non è del tutto vero. Molte volte Pete è arrivato a Roland sottoallenato, sulla strada di una molto più probabile vittoria a Wimbledon”» (Gianni Clerici). «[...] specie di folgore che soltanto Boccioni avrebbe saputo ritrarre [...] nell´89 Cianghettino vinse Parigi, mentre Pete navigava intorno al n. 80, e Tacchini giungeva quasi a lagnarsi con il profeta. La vicenda non tardò a chiarirsi l´anno seguente, con il primo Flushing Meadows vinto da Pete, battendo uno sull´altro Lendl, Mac e Agassi: a diciannove anni appena compiuti. Primo di ben quattordici titoli Slam, che ne fanno il Supercampione dell´Era Open e, secondo chi non ha studiato, o semplicemente è troppo giovane, il Maggior Tennista All Times. Mai più, cari amici. Innanzi tutto, perché il Grand Slam è stato inventato dal mio povero amico Danzig, del ”Times”, nel 1933, e ne sono stati quindi esclusi tutti gli Immortali precedenti che, poverini, non lo conoscevano. Poi perché, dal 1932, il n. 1 mondiale non è rimasto in classifica per più di due o tre anni, quando diveniva, per ragioni alimentari, professionista. E faccio, tra una dozzina d´altri, l´esempio di Laver, che centrò il Grand Slam, e cioè i Quattro Majors nel 1962, e rimase ghettizzato sino al 1969, per rivincerlo. Laver ha un record di undici Majors. Quanti ne avrebbe vinti, sui ventiquattro non giocati nei sei anni di assenza? Con tutta l´ammirazione possibile, Sampras non ha mai vinto nemmeno tre quarti di Slam, non ha mai vinto il Roland Garros. Immortale, certo. Ma da qui a definirlo il Più Grande di Sempre ci vuole soltanto una pessima cultura specifica» (Gianni Clerici, ”la Repubblica” 26/8/2003). «La solita, impossibile domanda: è stato lui il più grande di sempre? Sfidando la logica, la ragionevolezza, le barriere fra un’epoca sportiva e l’altra, possiamo anche rispondere di sì. Certo, Rod Laver, il campione nel cui mito Sampras è cresciuto, il suo faro di stile e di gioco, non ha potuto giocare i tornei dello Slam nel periodo forse migliore della sua carriera, nei cinque anni in cui passò al professionismo. Jack Kramer nel dopoguerra rivoluzionò il gioco, Lew Hoad è forse stato intoccabile su una singola partita, Borg ha aperto un mondo nuovo. E John McEnroe in campo sapeva dialogare con il diavolo, oltre che con gli dei del gioco. Ma Pete, in un tennis ormai avviato a diventare show muscolare più che tecnico, ha saputo mettere d’accordo la quantità (di successi, impressionate) e la qualità (dello stile, purissimo). Nessuno ha vinto come lui, nei tornei che contano. Pete ha coniugato potenza e tocco, ha dimostrato, negli anni ”90, che era possibile restare per ben 6 anni in cima alle classifiche mondiali (286 settimane in totale, ovviamente un record), giocando un tennis a tutto campo, solidissimo da fondo, devastante nel servizio, incantevole a rete. I suoi limiti sono stati due: quello autentico, non aver mai vinto a Parigi, sulla terra - è l’unico Slam che gli manca -, quello relativo: non essere stato un personaggio, un divo. Coabitare con un talento immenso spesso deraglia la mente. Si può decidere di litigare con l’ingombrante ospite - come hanno fatto McEnroe o Becker, George Best o Maradona - o lasciargli campo libero. Sampras ha scelto la seconda strada. ”Preferisco che a parlare per me sia la mia racchetta”, ha sempre ripetuto. Il suo amico Jim Courier lo chiamava ”The sweet One”, ”quello dolce”, e all’inizio della sua carriera gli avi biliosi Lendl e Connors dubitarono della sua forza interiore. Ma Pete il gentile, come uno sciamano molto cool ha saputo superare sfide dure - la morte del suo amatissimo coach per un tumore, gli infortuni e un fisico spesso debilitato da una forma di anemia - senza lamentarsi mai troppo, sfoderando colpi da mago e il suo enigmatico sorriso da Joker ad ogni appuntamento. Fallendone pochissimi, fra l’altro. Con il suo tennis da semidio era condannato a vincere. Lo ha fatto, e soprattutto lo ha fatto deliziandoci per quindici, saporitissimi anni» (Stefano Semeraro, ”La Stampa” 23/8/2003).