Varie, 6 marzo 2002
SCALFARI
SCALFARI Eugenio Civitavecchia (Roma) 6 aprile 1924. Giornalista. Uno dei personaggi di maggior spicco del giornalismo italiano. Nel 1955 fu tra i fondatori dell’«Espresso», di cui fu direttore, nel 1976 fondò «la Repubblica», che diresse per vent’anni, fino al 1996. inoltre autore di diversi volumi, tra cui La sera andavamo in Via Veneto (Mondadori), Incontro con Io (Rizzoli), L’uomo che non credeva in Dio (Einaudi) • «Un ritratto precoce di Eugenio Scalfari porta la firma di Italo Calvino. Nel racconto autobiografico Gli avanguardisti a Mentone s’affaccia un compagno di liceo cui l’autore assegna un nomignolo di enigmatica origine: Biancone. lui, Scalfari. Il liceo è l’Istituto G. D. Cassini di Sanremo. Lì Italo ed Eugenio stringono un sodalizio che si prolunga dopo le ore di scuola, fra passeggiate, partite di biliardo e qualche discussione ironico-teologica intorno all’esistenza e all’operato di Filippo (con questo pseudonimo chiamano Dio). Il primo, Calvino, è di padre sanremese. L’altro è ”un mezzo-sangue calabrese” (così amerà definirsi) nato a Civitavecchia, la città di sua madre, e approdato a Sanremo quattordicenne, nel 1938, quando papà Scalfari, Pietro, nativo di Vibo Valentia, è stato chiamato a dirigervi il Casinò. ”Biancone ed io andavamo assai d’accordo, per quanto fossimo tipi differenti”, racconta Calvino. Lui scruta dentro di sé, con qualche ansia, la vocazione d’artista: la alterna, per ora, all’interesse per l’agronomia, respirato in famiglia. Scalfari, preso da un ”amore di vita movimentata”, è più incline ad esercitare la sua ”acutezza critica” sul terreno politico. Su ambedue, d’altronde, il fascismo esercita attrazione e ripulsa. Continueranno a consultarsi e a confidarsi nei primi anni Quaranta, ma ormai prevalentemente per lettera. Trasferitosi nella capitale - Calvino lo chiama con insistenza ”l’uomo dell’Urbe” - Scalfari torna a Sanremo con la famiglia solo per le vacanze estive. Frequenta Giurisprudenza e pubblica articoli sulla rivista del Guf Roma fascista. ”Vedo che ti fai avanti ardimentoso e sicuro”, gli scrive nell’aprile del ”42 l’amico di Sanremo che adesso abita a Torino. Collaborando ai giornali di regime, il mezzo-sangue calabrese mostra d’aver preso a tal punto sul serio l’ideologia vigente, e il dovere di servirla con rigore ideale, da meritarsi l’espulsione dal Pnf, sigla che designa ormai un establishment frollato. Tira aria di fronda sia nelle alte sfere che fra i goliardi. Durante l’ultimo soggiorno estivo nella cittadina ligure - l’ha raccontato Paolo Murialdi - Calvino e Scalfari decidono, con altri ragazzi, di fondare un Movimento universitario liberale (Muil). Le radici dello Scalfari che conosciamo emergono così dalla sua personale preistoria. Andranno, a fascismo caduto, in direzione del partito liberale, una formazione politica che già si preannunzia povera di seguaci e divisa al suo interno. Ma ciò che distingue quell’ambiente è l’essere dotato di giornali ben fatti e di giornalisti autorevoli. Fra loro, pur tra iniziali difficoltà, Scalfari s’avvia a diventare una figura familiare. stato Mario Pannunzio a dar vita al quotidiano romano Risorgimento liberale, solido antenato di ciò che sarà Il Mondo, e già legato a una scommessa: quella di armonizzare Croce con Salvemini. Un settimanale milanese, L’Europeo, si pubblica dal 1945, e lo dirige un gemello (quasi) di Pannunzio, Arrigo Benedetti: professionalmente sono entrambi figli di quel Leo Longanesi che in vario modo, con sdegno pubblico e segreto dolore, ormai ripudiano. Tra Roma e Milano si aggira Scalfari: assunto - siamo al 1947 - dalla Banca Nazionale del Lavoro (ufficio estero). Con la nascita del Mondo, 1949, l’ingresso del giovane bancario-giornalista nel gruppo più esclusivo della capitale può dirsi acquisito. Far parte di quella équipe, scrivere sul settimanale, cooperare alla sue iniziative - albeggiano i convegni del Mondo - significa legarsi a una sorta d’Olimpo, popolato da figure oracolari, artisti di gran nome e ”begli spiriti”. Niccolò Carandini, Leone Cattani, Ugo La Malfa, Ernesto Rossi, Mario Ferrara, Panfilo Gentile rientrano nella prima categoria. Oscillano fra la seconda e la terza, nel clima svagato dei dopocena capitolini, Moravia e Brancati, Sandro De Feo, Ercole Patti, Ennio Flaiano, Gian Gaspare Napolitano (per citarne appena qualcuno). Ci sono poi i giovani talenti, coetanei di Scalfari: Forcella, Compagna, De Caprariis, Ronchey, Antonio Cederna. In un’altra galleria di personaggi meno variegata ma di prestigio anche maggiore si aggirerà Scalfari, quando nel ”50 la sua banca lo trasferirà a Milano. Lì, i riti di una consorteria laico-finanziaria di enorme influenza vengono officiati da Raffaele Mattioli e Adolfo Tino: due statue, ma dotte, eloquenti, sarcastiche, vivacemente mimiche. Un altro ex dirigente del partito d’Azione, Mario Paggi – ”Il Vate”, lo definiscono in molti, ”l’Edward G. Robinson italiano” lo chiama Francesco Compagna scorgendo in lui una somiglianza con quel supremo interprete di gialli hollywoodiani - accoglieva la domenica nel suo studio d’avvocato, in via Brera, finanzieri e intellettuali. In Camilla Cederna, redattrice dell’Europeo, confluivano buon giornalismo e caustiche eleganze. Tradotte nei costumi di Milano, le serate romane trascorse al caffè Rosati in via Veneto diventavano l’aperitivo da Cova, all’angolo di piazza della Scala con via Verdi. Chi si divide fra queste due cerchie urbane, e vede la propria firma comparire sul Mondo e sull’Europeo, ha la sensazione d’aver centrato l’ambo del secolo. La vocazione di Scalfari per la carta stampata si nutre ora di quella competenza specifica - l’economia - che segnerà un punto fermo, il primo di tanti, nella sua storia professionale. Vale qui la pena di andare a ritroso con la memoria, guardando ai giornali d’un tempo da un angolo particolare: quello del lettore (potremmo definirlo un martire) degli argomenti di economia e finanza. Sproloqui tecnicistici, geremiadi illeggibili, sussiegose lezioni ex cathedra, irte comunicazioni accademiche: così erano gli editoriali che la maggiore stampa dedicava a quella materia. Si diceva allora nelle redazioni - il misfatto durò lunghi decenni - che i ”pezzi” firmati da pur autorevoli scienziati come Libero Lenti o Ferdinando Di Fenizio avrebbero potuto essere somministrati in farmacia ai sofferenti d’insonnia: ma forse neppure a loro, se si voleva evitargli sopori agitati. Accadde però che da un certo momento in avanti, accostarsi all’economia sui giornali non fosse più un’incombenza desolante. Si cominciava ad assaporare quei temi con un inatteso piacere dell’aneddotica, con sdegno o divertimento. Intorno all’universo dei numeri e alla meccanica degli interessi si disegnava un genere letterario tutto da gustare. Direi che il primo tentativo di sgranchire le ossa a Mammona nel dominio della stampa italiana lo si deve ad Ernesto Rossi, alla sua passione impetuosa per la verità e ai luminosi paradossi di cui si pasceva il suo ingegno. Ma Scalfari ne ha subito seguito l’esempio. Si è nutrito di quelle radici. Ha raccolto, partendo proprio dall’economia, il testimone sulla pista che conduce dal giornalismo prodotto da un’élite volutamente indecifrabile a quello di un più moderno gusto per le controversie politico-sociali, per la psicologia dei maggiorenti e dei tycoons. Tutto è discutibile nel mondo della carta stampata: e le ammissioni e le esclusioni dal Gotha dei media seguono, non soltanto in Italia, leggi bizzarre. Certi movimenti del linguaggio vanno comunque registrati alla stregua di notizie. Per quello che sono. Un’altra notizia si può enunziarla così: invece di limitarsi a scrivere sui giornali, Scalfari ha la mania di fondarli. equo pensare che questo requisito gli sia derivato in parte dalle frequentazioni che siamo venuti elencando, fossero amici di gioventù o esempi di vita. Che tale inclinazione gli venga cioè, quasi un lascito, dall’album dei suoi «maggiori», fra i quali abbiamo visto figurare - da Pannunzio a Benedetti - creatori di testate memorabili. Sembra il caso di aggiungere, rasentando l’ovvio, che il virus non era ignoto in Italia, se si pensa a Luigi Albertini che inventò o reinventò il Corriere della Sera o ad Alfredo Frassati che creò La Stampa. Ma nel caso di Scalfari la tendenza s’è presentata in maniera recidiva o, come si dice oggi, ”seriale”: alludo naturalmente all’Espresso (data di nascita 1955), prodotto in tandem con Arrigo Benedetti, e al quotidiano sul quale sto scrivendo. Nulla vieta di pensare a un tic. Sapendo però che ne esistono di peggiori» (Nello Ajello, ”la Repubblica” 6/4/2004) • «Lungo talento di giornalista e di imprenditore, di uomo che ha inventato giornali e una maniera di raccontare sui giornali, di editore talmente riuscito da essere divenuto il giornalista più ricco d’Europa, da uomo che è stato fra i più potenti nell’Italia dei Settanta e degli Ottanta, molto più potente che non un ministro o un segretario di un partito qualsiasi» (Giampiero Mughini, ”Il Foglio” 27/11/2001) • «Una volta cantava al pianoforte, ballava, inseguiva la favolosa coppia sottane & politica, e aveva quel tratto avventuroso, onestamente disonesto, superficiale e spavaldo, che è poi l’unico punto d’onore e disonore della carriera di un giornalista. Biagi & Costanzo che si sbaciucchiano in pubblico non facevano per lui, il perbenismo non era la sua tazza di tè. Preferiva le Borse da tiranneggiare, i grandi signori del denaro e dell’editoria da spennare per bene, i giovani turchi della politica romana da osservare, mettere sotto tiro, condizionare in vario modo, con un bel cipiglio immoralista da padrone del mondo e della storia, con un’idea senza pennacchio di ciò che significa giornalismo: cultura attraverso un analfabetismo frettoloso e appena emendato dallo stile, politica per via di intrusione molesta negli affari delle repubbliche, valori civili affermmati con perfetta noncuranza morale e qualche buon pettegolezzo, cinismo nell’analisi, ardimento nella cottura di quella falsa dea che è la notizia, comprensione e bontà d’animo solo se accuratamente nascoste al pubblico, lotta a colpi di serramanico per una sopravvivenza in cui si è i primi a non credere. […] così che ha fatto la sua scalata alla Rastignac (lo scrisse in un profilo a lui dedicato Ruggero Guarini); è così che lei ha stupito il paese e incuriosito il nostro mondo futile dei giornali, in Europa e fuori; è così che ha preso possesso dell’’Espresso” e della sua originaria tradizione provincial-liberale; è così che ha compiuto il suo bravo parricidio assassinando Mario Pannunzio e Arrigo Benedetti (due genitori dello stesso sesso sono troppi); è così che ha incantato schiere di inviati, di viaggiatori, di elzeviristi eccentrici, di analisti, di critici letterari, di scrittori, di cronisti investigativi abili e spregiudicati, di grafici e fotografi da battaglia ma ricchi di gusto e di senso della pagina; è così che nacque l’’Espresso” con i molti dorsi, il giornalismo economico che poi a volte è molto economico, a volte lo è abbastanza e spesso non è per niente economico; è così che abbiamo avuto il tabloid all’italiana, uno schizzetto di giornale da tram che si legge per i tamburini dei cinema epperò ha la forza dei lunghi Citati, sa far sobbollire la verve di Arbasino, e manipola manipola manipola come si può e si deve un’opinione pubblica desiderosa soltanto che qualcuno pensi al posto suo. Giornalismo e basta? No, più che giornalismo. Peggio che solo giornalismo. Molto peggio e molto meglio. A un certo punto ha pensato alla pensione, come tutti. Ma troppo presto. E troppo, cioè una cosa previdenziale aureolata, direzione emerita e fondazione incorporata nella testata, una cosa che solo fintamente mette fine a una carriera, in realtà la trasfigura e la ricolloca su un piano più alto. Troppo alto, alto tanto da farsi male quando si cade. Dai saggi di filosofia morale e dai romanzi si cade male, anche se non si fa fatica a trovare recensori benevoli, si cade anzi proprio per quello, perché si comincia a essere circondati da un’inutile benevolenza, ci si assopisce in una fumeria d’oppio di congratulazioni, di cene al Quirinale, di occhieggiamenti della buona società, tutte cose commendevoli, per carità, ma letali in dose eccessiva» (l’Elefantino sul ”Foglio” del 23/11/2001).