Varie, 6 marzo 2002
SCALZONE
SCALZONE Oreste Terni 26 gennaio 1947. Ex di Potere Operaio. Esiliato in Francia. «Nessuno, né un pentito né un magistrato, mi ha mai accusato di essere coinvolto in omicidi politici. Di averli eseguiti o di esserne stato il mandante, o di aver fatto parte di organizzazioni clandestine. Io sono sempre stato contrario all’omicidio politico […] A me gli amici mi hanno sempre rimproverato di essere troppo buono e un po’ fregnone. […] Ero percepito come uno che nella sfera militare era troppo liberale, non settario, uno che non sapeva picchiare il can che affoga. Un vecchio gauchista, che finiva per fare il pompiere. Per noi di Potere Operaio, l’omicidio politico era arcaico: una forma di tirannicidio che non può essere un dovere etico, quando un tiranno personale non c’è più. E io che sia legittimo giustiziare per punire, lo dica un lottarmatista o un dipietrista, non l’ho mai creduto […] Io non ho il dono della nonviolenza, ma riconosco la superiorità etica della nonviolenza assoluta rispetto alla guerriglia speculare al potere. Però cerco di essere coerente. Trovo che le bombe di Hamas non siano migliori di quelle di piazza Fontana. Per me è stragismo anche mandare un ragazzo kamikaze ad ammazzare coetanei. Non so come la pensino Agnoletto o Casarini. So che molti dicono che in quel caso la colpa è del colonialista. Io credo che ci siano mezzi che nessun fine giustifica. Peraltro non siamo d’accordo neanche sui fini. Loro sono giacobini, io comunista libertario […] Io sarò anche uno stracciaculo, ma nessuno mi farà sentire in colpa per esser nato a Terni invece che a Gaza. Mi difendo i brigatisti miei e i miei casseurs, e non credo al valore della punizione. E mi fanno schifo quelli che brinderebbero sapendo che Berlusconi ha un cancro. Gli stessi che vorrebbero dettarmi la mia autocritica. Anzi, che vorrebbero la scrivessi da solo, come dev´essere secondo loro» (Fabrizio Ravelli, ”la Repubblica” 28/8/2002). «[...] 7 aprile, data simbolo per la storia giudiziaria e politica d’Italia; quel giorno del 1979 scattò la maxi-retata contro i capi dell’Autonomia operaia accusati di associazione sovversiva, banda armata e – alcuni – di essere i veri capi delle Brigate rosse. Tra loro i principali leader del disciolto gruppo di Potere operaio: Toni Negri, Franco Piperno, Oreste Scalzone, Emilio Vesce. Scalzone venne arrestato a Roma, nella sede della rivista ”Metropoli”: ”Dovevo scrivere una lettera sull’amnistia e un reportage sui funerali bolognesi di Barbara Azzaroni, una compagna del ”68 passata a Prima Linea, uccisa in uno scontro a fuoco”. Non scrisse niente perché la sera era già a Regina Coeli: ”Cominciò il giro delle carceri, da Roma a Padova, poi Rebibbia, gli ’speciali’ di Cuneo e Palmi, Termini Imerese, poi ancora Rebibbia e Regina Coeli”. Davanti al pubblico ministero di Padova che coordinava l’inchiesta, Pietro Calogero, Scalzone cominciò a difendersi ponendo lui le domande: ”Né rifiuto del giudice né difesa tecnica di fronte a chi ti accusa per quello che sei e non per ciò che hai fatto: io posso aver fatto questo, questo e questo, lei che cosa sceglie? Dopodiché tocca a lei trovare le prove, non a me dimostrare che non è vero”. Allora il rivoluzionario sfidava il suo ”inquisitore”; [...] 25 anni dopo, rilegge i fatti così: ”Calogero e gli altri hanno sbagliato per eccesso, ma anche per difetto. Il complotto, la cupola del terrorismo che tira le fila di tutte le sigle con Toni Negri nella parte del Grande Vecchio era una fantasma dietrologico, e dunque un eccesso. Ma l’esistenza di un tumulto sociale che noi tentavamo di organizzare, la teorizzazione della lotta armata anche se diversa da quella praticata dalle Br, compresi reati come rapine e gambizzazioni, erano tutte cose vere. Forse più diffuse e capaci di diffondersi di quanto immaginavano i magistrati”. Nell’inchiesta ”7 aprile”, insomma, c’era del vero almeno sul piano storico, poiché esisteva ”un vasto terreno di illegalità e militarizzazione che ha spinto una forte minoranza a una sorta di guerra civile a bassa intensità, ed era logico che lo Stato la contrastasse”. Il problema è – secondo il rivoluzionario di allora – che le prove portate dai magistrati (non solo a Padova, ma anche a Roma e Milano) non corrispondevano ai fatti come s’erano svolti o si potevano provare: ”’Nego l’addebito ma non me ne sento diffamato’ dissi allora e confermo oggi. Sono responsabile di altre azioni della stessa natura”. Sarebbe a dire? ”Partecipai alla prima rapina in banca nel ”72, forzandomi a non pensare che cosa ne avrebbero detto gli altri dirigenti del gruppo; lo feci perché i soldi per la rivoluzione non potevano arrivare dai salari degli operai ma andavano presi dov’erano, e per contrastare l’attrazione fatale esercitata su tanti compagni dalla clandestinità. Entrai io con un compagno, armato di pistola. Negli anni successivi partecipai altre due o tre volte. E se pure ho avuto la fortuna di non dover sparare a qualcuno, mi sento la corresponsabilità diretta soprattutto di alcuni ferimenti firmati con sigle diverse, tra il ”74 e il ”76. Per esempio un’azione sul piazzale della Marelli contro il responsabile delle guardie; il giorno dopo ci fu lo sciopero ma noi eravamo lì a dire ’né una lacrima né un minuto di salario per il capo degli sbirri padronali’”. Altri tempi, in cui c’erano pure i delitti firmati dalle Br. Ma Scalzone – risulta dalle stesse inchieste giudiziarie – stava su un’altra linea: ”Eravamo contro l’attacco al cuore dello Stato perché sostenevamo che lo Stato non ha cuore. Era una questione teorica, non morale: se il tiranno non è una persona ma un sistema, l’omicidio politico è oltretutto inutile. Quindi non aver ucciso non è solo fortuna, ma questo non mi attribuisce alcuna legittimità etica superiore rispetto a chi abbia ucciso. Anzi, sono consapevole che con parole e scritti posso aver evitato dei morti, ma anche averne provocati degli altri”. Mentre la giustizia italiana faceva il suo corso, il leader di Autonomia operaia scarcerato per motivi di salute (’giunsi a pesare 39 chili, mi vennero un’ischemia e l’epatite”) scappò all’estero: ”Stava arrivando una nuova ondata di pentiti, mandai un messaggio ai compagni in prigione e organizzai l’espatrio. In Corsica mi portò Gian Maria Volonté con la sua barca. Dalla Francia, che allora estradava in un amen, giunsi in Danimarca attraverso il Belgio e l’Olanda. Solo dopo la vittoria di Mitterrand arrivai a Parigi, l’ 11 novembre 1981”. Da allora Scalzone è un abitante della capitale francese: ”A 57 anni è la città in cui ho vissuto di più nella mia vita”. Qui ha subìto un arresto di 40 giorni prima che venisse negata l’estradizione e ha avuto notizia delle condanne italiane – quelle definitive arrivano a circa 12 anni di carcere – che cadranno in prescrizione alla fine di settembre 2004. Allora potrebbe tornare in Italia da uomo libero, ”ma l’esilio non mi pesa, anzi mi ha dato più di quanto mi ha tolto. E poi è proprio il rientro da libero che sono disposto a giocarmi offrendomi come ostaggio volontario”. Ora il discorso ritorna sui latitanti ”rifugiati” che la Francia potrebbe estradare: ”Vent’anni fa hanno moltiplicato condanne e condannati perché c’era un ’crimine collettivo continuato’ che metteva in pericolo la democrazia; oggi costruiscono l’identikit di un assassino trincerandosi dietro il comprensibile mancato perdono delle vittime e dei loro familiari”. Sta parlando di Battisti e del nuovo ”7 aprile” che vi aspetta? ”Sì. E anche dell’alibi che si sono fatti per non parlare più di amnistia. Ma il perdono serve solo per la grazia, non per la soluzione politica che spetta al Parlamento. Comunque il caso Battisti riguarda la Francia e la parola data da questo Stato, la cosiddetta dottrina Mitterrand che nemmeno la destra francese di Chirac aveva sconfessato fino all’estradizione di Paolo Persichetti. Mitterrand voleva evitare che qualche centinaio di persone gettate nella clandestinità riprendessero la lotta armata qui o da qui; rinnegarla oggi significa dire che sbagliò chi allora decise di posare le armi”» (Giovanni Bianconi, ”Corriere della Sera” 6/4/2004). Vedi anche: Stefano Jesurum, ”Sette” n. 37/2000;