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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

SCATTONE Giovanni

SCATTONE Giovanni Roma 7 febbraio 1968. Assistente di Filosofia del diritto condannato insieme a Salvatore Ferraro per il delitto della studentessa Marta Russo. «Non c’è l’arma del delitto. Il proiettile, che ha colpito Marta poco sopra l’orecchio, frantumandosi in undici schegge, è un calibro 22 del peso di 2,6 grammi. Ma quale arma l’ha esploso e soprattutto da dove? Alla sapienza si trovò un armamentario e un poligono di tiro. C’erano P38, silenziatori, psitole giocattolo, munizioni e tracce di polvere da sparo. Undici giovanotti dell’azienda delle pulizie si divertivano a fare il tiro a segno nei magazzini e nei sotterranei dell’università. Spararono loro? Spararono dalla toilette riservata agli handicappati dove furono rintracciati sedimenti di polvere da sparo? Era una traccia che conduceva al nulla: in quel bagno poteva essere entrato chiunque. Inquirenti e investigatori cambiarono allora strategia. partirono dal foro d’entrata del proiettile. Marta camminava [...] nel vialetto della Sapienza [...] era girata verso sinistra con il capo leggermente piegato verso il basso. Se la testa era in quella posizione (ma lo era?), il bagno degli handicappati non c’entrava nulla perché il colpo era venuto dall’alto, alle spalle di Marta. “Quindi” dall’aula 6, dall’aula degli assistenti di Filosofia del Diritto. Sul davanzale di quell’aula, si rintracciano antimonio e bario. Non sono sono sufficienti per dire che sono tracce di uno sparo (manca il piombo). Occorrono dunque testimoni che affermino: in quell’aula hanno sparato; in quell’aula c’erano Tizio, Sempronio e Caio. Io li ho visti sparare. Passano i giorni (dodici) e i testimoni saltano fuori. Comincia Chiara Lipari che, il 9 maggio, entra nell’aula 6 alle 11,44 (due minuti dopo lo sparo). Dice: “Quando sono entrata nella sala assistenti per chiamare mia madre, avevo la finestra di fronte che era illuminata dall’esterno, ma non ho visto nessuno vicino a essa. Ho avuto la sensazione netta che nella stanza ci fosse una forte tensione nell’aria... Nella stanza c’erano due o tre persone, due certamente di sesso maschile, una probabilmente di sesso femminile...”. Probabilmente la persona di sesso femminile è Gabriella Alletto, impiegata di segreteria. La interrogano in modo perverso e la minacciano di arresto. Lei si difende: “Non ero lì”, confida (intercettata) a un ispettore di polizia, suo cognato. Alla fine, dopo tre giorni, cede: “Sono stati loro. Scattone ha sparato dalla finestra, Ferraro si è messo le mani nei capelli”. Il processo contro Scattone e Ferraro è questo [...]» (Giuseppe D’Avanzo, “Sette” n. 51/52/1998) • «Sono innocente. [...] Non c’è l’arma del delitto. Non c’è un movente. E anche nella testimonianza decisiva dell’Alletto ci sono molte contraddizioni. [...] Più volte hanno cercato di politicizzare il nostro processo. Diversi avvocati “politici” si sono offerti di difendermi, ma io ho sempre detto di no, qui la politica non c’entra» (Ferruccio Sansa, “la Repubblica” 16/12/2003) • «Se fossi stato io, l’avrei confessato subito, risparmiandomi mesi di carcere. In assenza di qualsiasi movente, l’unica tesi credibile sarebbe stata quella di un incidente: confessare l’omicidio colposo avrebbe significato, tra patteggiamento e condizionale, uscire dopo pochi giorni. Mi sarebbe convenuto confessare. Anche nell’ipotesi assurda del delitto “gratuito”. Se avessi detto che mi era partito involontariamente un colpo, sarei stato sicuramente creduto o comunque nessuno mi avrebbe potuto smentire. Ancora più assurda, se fossi stato io a sparare, sarebbe stata la posizione di Salvatore Ferraro. Accusandomi, sarebbe uscito subito e definitivamente dal carcere» (Giuseppe D’Avanzo, “Sette” n. 51/52/1998).