Varie, 6 marzo 2002
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Schumacher Michael
• Huerth-Hermuelheim (Germania) 3 gennaio 1969. Ex pilota di Formula 1, ha conquistato (unico nella storia) sette titoli mondiali: 1994 e 1995 (Benetton), 2000, 2001, 2002, 2003 2004 (Ferrari) • «In questi anni di successi Michael Schumacher è stato definito con diversi soprannomi. I più comuni sono ”Cannibale”, perché oltre a battere gli avversari fagocita anche i compagni di squadra, e ”Caimano” per la fame di vittorie quasi atavica, come se non si fosse mai imposto in una corsa. C’è un terzo nick name, affibbiatogli più gentilmente, per la sua supremazia totale su tutti, di ovvia derivazione tedesca: Kaiser, che significa Imperatore e nasce dal suo modo di regnare sulla Formula 1, quasi ininterrottamente, per vari motivi e con fortune alterne, dal giorno del suo debutto. Cioè dal venerdì 23 agosto del 1991, quando esordì a sorpresa nelle prove del Gran Premio del Belgio alla guida di una Jordan, lasciando un segno nel ”circus” per un’innegabile talento espresso sin dai primi giri sul difficile circuito di Spa-Francorchamps. Da allora è passata tanta acqua sotto i ponti. Momenti difficili e periodi esaltanti. Riassumibili in qualche episodio negativo e tantissimi positivi. Fra i primi una squalifica in Belgio, un incidente sospetto con Damon Hill in Australia (nei giorni del suo primo Mondiale), quello ancora oggi quasi inspiegabile con Villeneuve del 1997 a Jerez, la sconfitta da parte di Hakkinen nell’ultima gara in Giappone del 1998. Per contro la serie dei capitoli esaltanti, dei quali uno da solo basterebbe per riempire la vita di un pilota. Ricordiamo l’incidente di Silverstone nel quale si ruppe una gamba a causa di un’azione non troppo corretta del coequipier Eddie Irvine e anche per un guasto sulla sua Ferrari. Dalla sua bocca non uscì mai una parola di accusa o di rimpianto. Tornò in pista un paio di mesi dopo, e aiutò l’irlandese a vincere in Malesia. Poi vengono tutti i record, probabilmente ineguagliabili, a cominciare dai sette titoli iridati. Si è detto molto sulle doti che hanno portato Schumi al vertice. Forse non è in assoluto il migliore in tutto. I tecnici affermano che Rubens Barrichello sia più preciso, che Raikkonen possa tenere ritmi più elevati, che Montoya sia più aggressivo, che Trulli lo possa battere in velocità sul giro, che Fisichella malgrado tutto riesca a far fruttare meglio la sua esperienza, che Alonso sia capace di adottare tattiche migliori, che persino Takuma Sato sia più determinato e che Mark Webber abbia più personalità in pista. Però ognuno di questi ”fenomeni”, non assomma nel complesso le qualità che Michael ha messo in luce [...] In tutto questo tempo, Schumacher ha anche messo in piedi due famiglie. A casa una moglie, Corinna - discreta, sempre sorridente, quasi mai uno screzio, i figli Gina Maria e Mick, superprotetti nella privacy, qualche cagnolino randagio. In ”ufficio” la Ferrari. Con Todt e i suoi uomini c’è un rapporto che va al di là del fatto meramente professionale. Affetto, stima, fiducia. Non è poco. E ora, visto che a molti tifosi non andava giù il fatto che parlasse solo in inglese o in tedesco, si esprime anche in italiano. Sacrificio grosso, perché lui non è un calciatore che vive a Milano o a Roma. Il pilota arriva a Fiorano, prova, riparte la sera. E nella squadra per motivi tecnici i meeting si svolgono in inglese. Soltanto con i meccanici c’è qualche frase, anche in dialetto emiliano. Schumacher ha accumulato con i suoi successi una ricchezza enorme. Le cifre non sono mai ufficiali, ma si racconta di una fortuna di 800 milioni di euro. Il tedesco però non è uno spendaccione: si rivende anche le auto usate. Possiede due o tre case (quella dove abita a Vufflens, quella che sta preparando a Gland sul lago Lemano, entrambe in Svizzera), lo chalet del buen retiro in Norvegia, dove passa le vacanze invernali. [...] Non è il più ricco della Formula 1, superato alla grande da Bernie Ecclestone [...] ma certamente è fra gli sportivi più pagati del mondo. Rispetto a un Tiger Woods del golf, corre qualche rischio in più. Ma, soprattutto, questo bisogna riconoscerlo, Schumacher ha avuto un costo praticamente zero per la Ferrari. I suoi risultati, le sue vittorie, anzi, hanno portato a Maranello più soldi di quanti ne siano stati spesi. E questo è un altro record del Cannibale, del Caimano o del Kaiser, comunque venga chiamato» (Cristiano Chiavegato, ”La Stampa” 5/3/2005). «Figlio di Rolf ed Elisabeth, Michael cresce a Kerpen, un borgo satellite di Colonia. Sale per la prima volta sul go kart a 4 anni. Nel 1984, a 15, è campione junior di Germania. Nel ’91 è il destino a spalancargli le porte della Formula 1. Bertrand Gachot, pilota titolare della Jordan, litiga con un tassista inglese e si fa arrestare alla vigilia del Gp del Belgio. Eddie Jordan getta nella mischia un ragazzino tedesco di 22 anni con un lungo mento e ottime referenze nelle serie minori: un tal Michael Schumacher, che si qualifica con il settimo tempo ma brucia la frizione al via. Dalla gara dopo è al volante di una Benetton grazie al fiuto di Flavio Briatore, con tante grazie a Gachot e all’inflessibile polizia inglese. Nel ’94 vince il primo mondiale. La Benetton è l’unica vettura di vertice equipaggiata con motore 8 cilindri (Ford-Cosworth) contro i più potenti V10 messi in pista da Ferrari, Renault, Peugeot e Yamaha. Schumi si aggiudica otto gare, ma deve arrivare all’ultima, in Australia, per conquistare il titolo. Ha un punto di vantaggio su Damon Hill e nel finale, urtando contro le protezioni, la sua auto rimbalza nel circuito e centra la monoposto di Hill. Entrambi sono costretti al ritiro, il tedesco è iridato, ma c’è polemica sull’incidente. Nel ’95 il bis in scioltezza, poi il passaggio alla Ferrari. Dopo una stagione di rodaggio con una squadra ancora da registrare e una vettura non competitiva, nel 1997 viene beffato all’ultima gara da Villeneuve, l’anno dopo da Hakkinen a Suzuka, nel 1999 si rompe una gamba a Silverstone uscendo di pista. Ma nel 2000 è il trionfo a ventun anni dall’affermazione di Jody Scheckter, al termine di un’appassionante testa a testa con Mika Hakkinen. Ed è soltanto l’inizio. Nel 2001 Schumi fa a pezzi i rivali e vince con cinque gare di anticipo. Il 2002 è una cavalcata senza precedenti: 15 vittorie, 11 di Schumacher, 4 di Barrichello. Il tedesco è campione già nel Gp di Francia a luglio, ma riesce a imporsi ancora in Germania, Belgio e Giappone. Quarto Mondiale Costruttori per Maranello. Più sofferto il 2003. Cambiano i regolamenti. La Ferrari fatica ad adattarsi e commette errori in Australia, Malesia e Brasile. A Imola torna al primo posto ancora con la F2002, quindi vince al debutto della F2003 in Spagna. Schumi insegue e supera Raikkonen in Canada. Arrivano però momenti difficili (Francia e Ungheria). A Monza la riscossa, dopo un duello durissimo con Montoya. Infine il trionfo di Indy e la festa di Suzuka» (Stefano Mancini, ”La Stampa” 30/8/2004). «Bisognerebbe ringraziare Bertrand Gachot. Qualcuno obietterà: chi è? Ma se il pilota francese, ubriaco fradicio, non avesse preso a pugni un tassista e non fosse finito in carcere, forse non lo avremmo visto in Formula 1. La bravata, quel 24 agosto del 1991, vigilia del gran premio del Belgio, costò cara al povero Gachot, perché la sua Jordan finì nelle mani del giovane tedesco. Che notoriamente, Barrichello ne sa qualcosa, non ama restituire i favori. Afferrò macchina e occasione e da lì prese il volo. E già che ci siamo bisognerebbe mandare un regalo anche a Roberto Moreno, altra meteora nel firmamento della Formula 1, carneade brasiliano costretto a cedere a forza la sua monoposto al già ingordo Schumacher. Si era sempre nel 1991, 8 settembre, gp di Monza. Il tedesco aveva appena una gara alle spalle, il Belgio con la Jordan, ma tanto era bastato a Briatore, mente della Benetton, per capire il suo talento. Un simile fuoriclasse, futuro cannibale delle corse, bisognava accaparrarselo subito. L’affarista Jordan per metterlo in macchina aveva intascato 500mila dollari da sponsor tedeschi, Briatore, vista per il business più lunga, si accontentò di far passare Moreno per ”instabile”, uno da certificato medico, ”inidoneo con quella faccia”, come dirà poi al giudice, ”ad un mestiere pericoloso come la F1”. Gachot, Moreno. Le vittime del predestinato. Gente che filava, visto che prima di perdere la macchina, nel gp precedente, avevano realizzato il giro più veloce della corsa. Piloti veri, ma pesciolini di fronte al Grande Squalo, l’uomo che ha frantumato tutti i record della F1 (gli manca solo il tetto delle pole position, ancora detenuto da Senna), che ha saputo far diventare invincibile una Ferrari che prima di lui aveva collezionato 57 ko consecutivi, che è stato in grado di riportare Maranello sul tetto del mondo dopo 21 anni e non contento ha deciso di non farla scendere più. Gachot, Moreno sono nomi di passaggio. Tappe che s’incontrano nel sentiero del più forte, uno che ha trasformato l’infinita serie dei suoi record in una giaculatoria, ogni volta sempre più lunga. Già alla seconda corsa (Moreno ora, forse, se ne sarà fatto una ragione) tutto era sembrato chiaro: a Monza, porta la Benetton al quinto posto. Due punti. E poi un altro due settimane dopo in Portogallo, uno in Spagna, quattro in tutto in appena sei gare. L’esordiente ha fretta, non vede l’ora di diventare il Grande Vincente oppure il Grande Antipatico, a seconda che si guardi il pilota o il comunicatore. Doveva esserci la scintilla e ora il fuoco può divampare: la prima vittoria a Spa (gran premio che adora) nel 1992, i due mondiali con la Benetton nel 1994 e nel 1995, la grande scommessa (vinta) con la Ferrari, presa piccola nel 1996. [...] Il fuoco oggi ha distrutto tutto. Persino Fangio, che si credeva immune con i suoi irraggiungibili cinque mondiali, è rimasto scottato. Il figlio del muratore Rolf ha demolito ogni record. [...] Poveri Gachot e Moreno. Ma anche poveri Hill, Villeneuve, Hakkinen, gli avversari (i più seri) che in questi anni hanno invano cercato di placare la fame del cannibale. E non è finita: perché il meccanico mancato (da ragazzo si guadagnava così da vivere, studiando da vicino i motori) ha altri primati da divorare. [...] Certo nella storia dell’invincibile non mancano i buchi neri, fuori dalla pista con la sua incapacità d’imparare l’italiano, e soprattutto dentro, la collisione con Villeneuve a Jerez 1997, il tamponamento a Coulthard a Spa 1998, quelle prime stagioni in cui nemmeno lui sembrava in grado di far risorgere la Ferrari. Né si possono dimenticare la curva Stowe, l’incidente del 1997 a Silverstone, come i finti sorpassi (in nome degli ordini di scuderia) a Barrichello in Austria nel 2001 e nel 2002. Ma il cannibale ha un cuore e le lacrime (assieme alle tante vittorie) sanno lavare tutto. [...] Forse è ancora antipatico. Ma di sicuro è il più grande di tutti. E con la Ferrari» (Carlo Marincovich, ”la Repubblica” 22/7/2002). «Se merita ammirazione e rispetto, è proprio perché, del campione, ha tutto tranne quell’aura di diversità, quelle incrinature poetiche del carattere che trasformano il talento tecnico in fascino. puro talento, pura maestria di guida calati in un non-personaggio. Ha gusti e modi piatti, nessun fuoco interiore che lo bruci o smania apparente che lo roda, è incapace di arruffianarsi le folle e così pure di essere scostante, non è simpatico ma nemmeno urticante, non è guascone ma nemmeno schivo, insomma vive e lavora lungo un solido binario di normalità impiegatizia, o di zelo professionistico, che farebbero cascare le braccia a qualunque creatore di mitologie sportive o di icone pubbliche. stato dunque costretto, per diventare il numero uno di tutti i tempi, solamente a correre più veloce degli altri, a vincere a raffica, senza il benché minimo supporto di immagine, senza una faccia che intrighi, senza quei surplus di personalità o di prestigio personale che colorano le vittorie e ammantano le sconfitte. E questo essere un gran pilota e basta, un campione senz’aura, è a ben vedere la circostanza che lo rende interessante e ammirevole: perché nel rapporto con la folla e con la fama uno come lui, con quel sorrisetto così poco comunicativo e quell’eloquio così banalmente formale, parte sempre in ultima fila, e deve sempre rincorrere, e sorpassare se stesso. Ci sono piloti come Gilles Villeneuve che vinsero pochissimo, ma furono (e sono) adorati perché sprigionavano il sentimento del rischio e il presentimento della scommessa con la morte. A lui, che pure di incidenti gravi ne ha avuti, perfino quelli sono stati cassati come normali infortuni sul lavoro. Il pubblico lo stima, ma non lo ama. Lo segue con interesse, ma non con apprensione. Celebra le sue vittorie e la sua guida impeccabile, ma è come se non salisse mai in macchina con lui. Può darsi che lui, che come tutti i veri campioni non può sentirsi appagato solo dai quattrini (moltissimi), avverta questa distanza dal pubblico più di quanto dimostri. Non dev’essere facile, nemmeno per un pilota ”freddo”, avvertire che la sua rovente fatica, e il suo ormai annoso rischio della vita, generano un abbraccio così tiepido, e forse nemmeno un abbraccio, solo un applauso tanto corale quanto distaccato. Sembra un torero di impareggiabile maestria formale al quale tocchi esibirsi senza toro, senza che sia visibile al pubblico il nesso profondo e drammatico tra la vittoria e la vita, tra la sconfitta e la morte. Tutto gli è riconosciuto facile, e forse a nessun pilota, prima di lui, era capitato che le vittorie fossero considerate un atto dovuto più che un’impresa compiuta. Il suo carisma, infine, potrebbe scaturire (e magari essere avvertito dal pubblico) proprio da questa spietata condanna a vincere, da questa solitudine emotiva, da questa gloria contabile e senza pathos. Come certi primi della classe, che sventolano una pagella formidabile e sono rispettati ma non frequentati, stimati ma non invidiati, e magari cederebbero volentieri qualche mezzo voto in cambio di un saluto più caldo, di un’accoglienza più affettuosa» (Michele Serra, ”la Repubblica” 22/7/2002). «Sbaglia quando non guida da padrone, quando è costretto ad essere altro, a stare nel traffico, a uscire dalla sua pelle. Allora gli viene fuori un po’ d’indecisione, qualche sbavatura, un fastidio. [...] un signore ricco, con moglie, due figli e un cane, vacanze di Natale in un piccolo posto solitario in Norvegia dove anche gli alberi rifiutano la compagnia. [...] Davanti alla domanda di Dostoevskij: se sia meglio una banale felicità o una sublime infelicità non risponderebbe nemmeno, tanto è privo di dubbi. Con i primi soldi ha messo a posto i debiti del padre, ex operaio renano che costruiva stufe e caminetti. Michael s’impegna a fare beneficenza giocando a pallone, ma non ha un’anima alternativa, non sapeva chi fosse George Harrison, non gli interessa confrontarsi con il sociale. Ha corso ad Imola con il fratello Ralf il giorno in cui è morta sua madre, non perché lo pagano un’enormità, ma perché il lavoro si onora con la presenza e il dolore in un altro modo. E nessuno può dare un orologio alla tua anima o dirti quando devi sentire. Michael in Italia ha imparato a non avere più vergogna, a piangere, a essere meno introverso. Si è un po’ ammorbidito, insomma. Con la lingua ancora non ci siamo, ma lui è alla Ferrari per vincere, non per vivere. Non è che per lui le due cose siano incompatibili, ma non è detto che debbano per forza viaggiare insieme» (Emanuela Audisio, ”la Repubblica” 13/10/2003). Vedi anche: Agostino Gramigna, ”Sette” n. 43/1998.