varie, 6 marzo 2002
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Sensi Franco
• Roma 29 luglio 1926, Roma 17 agosto 2008. Imprenditore. Presidente della Roma. «Uno scudetto e la Supercoppa d’Italia, tutto nell’anno di grazia 2001. Nel decennio della Roma di Franco Sensi brillano queste due medaglie. Un titolo italiano, proprio come riuscì a Dino Viola, quello che Sensi individuò quale mito da superare, da cancellare, nei cuori dei tifosi della ”maggica”. Una sfida col passato, diradatasi gradualmente nel tempo, ma pur sempre una sfida con quella pesante e carismatica figura del senatore scomparso mentre ancora era sul trono giallorosso, i cui eredi cedettero il club a Ciarrapico. Un traguardo ben chiaro nella mente, che Franco Sensi puntò nel mirino all’atto del suo insediamento, e che divenne chiodo fisso del suo programma dal novembre del ”93, quando si ritrovò padrone unico dei giallorossi. Dopo avere, cioè, liquidato Mezzaroma, il socio che lo affiancò nel rilevare il club in grave crisi finanziaria e sull’orlo del fallimento. Non lo ha superato ancora Dino Viola, ma chi lo conosce bene sa come sussurri a tutti che andrà via con lo scudetto-bis. [...] A Sensi, nessuno può negare il grande merito di avere cancellato la figura della Rometta, più di quanto non avessero davvero fatto tutti i suoi predecessori: all’avvento, superare i primi turni di coppa Italia, era già un traguardo da applauso. Non a caso Sensi iniziò a polemizzare proprio su formula e date del Trofeo, che metteva subito di fronte squadre di rango contro arrembanti provinciali, con preparazione sprintosa. E la Roma ci lasciò le penne spesso. Così, come centrare la qualificazione Uefa era il chiodo fisso delle prime missioni di Mazzone. O come riuscire a fare quanto più cammino possibile, in giro per l’Europa, era la ciliegia sulla torta d’una annata sempre densa di polemiche, soprattutto con la classe arbitrale e col Palazzo. Poi la svolta, la Roma nei piani alti della classifica, il varo di campagne acquisti puntate sulla qualità e non sulla quantità. Ma soprattutto la chiusura, in un forziere inviolabile, dei gioielli di famiglia. ”Totti e il rinnovo? Ti do la luna, resti con noi, sei il figlio maschio che non ho mai avuto”; ”Cassano? Soffiato alla Juventus per una grande Roma”; ”Emerson, Candela, i pezzi pregiati? Non vendo per appianare la crisi economica”. Pensieri e parole del patriarca giallorosso. Senza dimenticare i 70 miliardi di lire spesi per Batistuta, l’acquisto più oneroso della storia giallorossa, quello che ha prodotto caterve di reti, risultando il valore aggiunto nell’anno dello scudetto. Quel tricolore conquistato con un record che è ancora lì, intatto: quota 75. Mai nessun altro club, da quando ci sono i 3 punti a vittoria, s’è laureato campione d’Italia con bottino identico. Quello rastrellato dalla Roma dal gol facile; quella di Totti lanciato verso la consacrazione definitiva o dell’aeroplanino Montella. Quella tosta come il taciturno Samuel o dello stakanovista Delvecchio e del furbo Candela. E poi la Supercoppa d’Italia, a seguire, battendo la Fiorentina. Ma la rincorsa a Viola non è finita» (Gaetano Imparato, ”La Gazzetta dello Sport” 3/12/2003). «In principio, molte molte pecore. Poi, saponi e concimi. A seguire, cascate di petrolio e il tanga della Ferilli, cioè lo scudetto romanista. […] Il solo presidente che fa più sorridere della propria caricatura, il padrone di Totti (’Resta, te do la luna!”) e di Capello, il paladino nella crociata per la pulizia arbitrale che a Natale manda Rolex agli arbitri, il discendente di pastori e pecorari ricchi, gente dura su montagne ancora più dure, i Monti Sibillini. Lui, invece, sibillino non è mai. Quando gli chiesero come intendesse pagare la liquidazione di Gigi Agnolin, direttore generale durato poco perché inflessibile ai sillogismi del capo (assumo un ex arbitro, un ex dirigente arbitrale così non avrò più problemi con la categoria), in tutto quasi mezzo miliardo di vecchie lire, rispose: ”Io Agnolin lo liquido con una scureggia”. Lo rimproverano per la schiettezza dialettica che scivola sovente nel turpiloquio, ma forse la bocca un po’ sboccata dipende dal tirocinio che papà Silvio, ingegnere, proprietario di centinaia di ettari a Roma, costruttore dello storico campo del Testaccio, decise per il suo piccolino dopo il diploma: lo mandò a Taranto ad occuparsi di concimi e saponi. ”M’affittò ”na stanza in un albergo pieno de mignotte e marinai”. Il giovine Franco resistette tre anni: ”Dopo, nun avevo più paura de gnente, figurarsi del potere!”. Religiosissimo, incline a peccati assai umani come l’ira e l’invidia (odia Galliani e Giraudo perché non riesce ad essere come loro), Franco vive ovviamente da papa nella casa in cui nacque Pio XII, Villa Pacelli, sull’Aurelia. uno degli uomini più ricchi d’Italia, ricco ”lo nacque” e tale si mantenne, anzi di più: è il re dei depositi petroliferi (otto stabilimenti lungo le coste tirreniche, nove milioni di tonnellate di greggio trattate ogni anno), possiede alberghi e palazzi e terreni ovunque, è padrone della Roma Calcio, è l’editore del ”Corriere Adriatico” e di Roma Channel, è sua la torre petrolifera ”Santa Fermina” di Civitavecchia, è sua una quota importante degli Aeroporti di Roma, ha almeno tremila miliardi di liquidità, una società quotata in Borsa, un bel pezzo dell’Italpetroli, dà lavoro a un migliaio di persone. Ma fino a dieci anni fa non lo conosceva quasi nessuno, infatti lui si definiva ”un imprenditore subacqueo” (voleva dire sommerso). E quando nel maggio 1993 il suo amico Cesare Geronzi gli chiese di salvare la Roma dal fallimento, convocò il consiglio d’amministrazione famigliare cioè sua moglie (la leggendaria sora Maria, addetto stampa personale, portavoce, contabile dei torti arbitrali, videoregistratore umano, antenna capace di captare tutto quello che si dice di bene e di male sul suo Franco) e le tre figlie: Rosella (sarebbe diventata l’amministratore delegato giallorosso e avrebbe pilotato lo sbarco in Piazza Affari), Cristina (futura padrona dell’area commerciale tra merchandising e Roma Point) e Silvia (a lei il settore televisivo e l’area comunicazione). Alle sue donne chiese: ”Che se fa?”. La misero ai voti. Tre favorevoli, due contrari, voto decisivo quello della sora Maria. Così, diventò il diciannovesimo presidente della Roma e con la Roma rivinse lo scudetto nel 2001, diciotto anni dopo Viola e Falcao. Strana azienda. Dimensioni planetarie, conti e stipendi giganteschi dopo i primi anni un po taccagni (un difetto che gli viene spesso rimproverato: lui rispose pagando Batistuta settanta miliardi sull’unghia), ma presenze e organigrammi da trattoria sui colli: oltre alle figlie, nella struttura operativa figurano pure una zia e un fidanzato, eppure tutto si tiene nell’immagine di un personaggio abbastanza casereccio. Una macchietta, non certo uno sciocco. Poliedrico, lacrima facile, dietrologo, vulcanico, iper emotivo, un po’ burino ma ”de core”: la pataccata dei Rolex la riconvertì in denaro per gli orfani della Sierra Leone. E non ha mai voluto chiudere una fabbrica di pizze surgelate da esportare in Sudamerica, non proprio un’attività sensazionale, per non mettere in strada tanta gente, però i suoi beni li compra quasi tutti alle aste fallimentari, sfruttando la disperazione e le disgrazie altrui. Non è dunque un filantropo, anche se gli capita di regalare una Smart a ogni giocatore con un gesto da antico e anacronistico mecenate del pallone. Dà un sacco di soldi alle iniziative benefiche del Giubileo, ma quando un cronista lo chiama per controllare se è vero che ai giallorossi interessa lo spagnolo Raul, comincia a urlare: ”T’ho capito a te, t’ho riconosciuto, sei un procuratore de ”sto Raulle, ma stavolta nun me scuci ”na lira!”. Imperativo categorico: mai sbagliare i calcoli. Non per niente è laureato in scienze matematiche. Gli va un po’ peggio con l’italiano, specialmente all’orale, ma questo non gli ha impedito di diventare sindaco (democristiano) di Visso, provincia di Macerata, fascia tricolore attorno alla panza dall’85 al 1995, e un giorno Andreotti gli propose pure di correre per il Campidoglio. Quella volta, il consiglio d’amministrazione famigliare votò no, e avrebbe fatto bene a mettere il veto anche alla grottesca impresa di cercare avi italiani a Cafu alle sorgenti dell’Orinoco (200 milioni spesi, un’inchiesta penale, perquisizioni persino a Villa Pacelli). Ma il padrone di quasi tutti i mulini continua a combatterli insultando Carraro (querela), Galliani, Giraudo, Moggi: Lucianone venne mandato via dalla Roma quand’era direttore generale col pretesto delle note spese. ”A Lucià, troppe cene de rappresentanza, me costi ”na cifra”, e Moggi si vendicò scippando Ferrara e Paulo Sousa, già presi per la Roma e finiti a Torino. Bizzarra caricatura di Zorro, adesso fa il paladino dei piccoli club, ma solo perché conviene a lui. anche vero che il suo stile e i suoi soldi hanno complicato la vita a Milan e Juventus, e pazienza se nel buchetto s’infilò per sbaglio pure Cragnotti, con l’odiato scudetto laziale. Quasi peggio delle sue terribili pizze surgelate» (Maurizio Crosetti, ”la Repubblica” 5/9/2002).