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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

SERRA

SERRA Michele Roma 10 luglio 1954. Scrittore e giornalista (’la Repubblica”). Cresciuto a Milano, vive sull’Appennino bolognese. Nel 1989 ha fondato il settimanale ”Cuore”. Tra i suoi libri, le poesie Poetastro (1993) e Canzoni politiche (2000), il romanzo Il ragazzo mucca (1997), i racconti Il nuovo che avanza (1990). «[...] il mitico direttore del grande ”Cuore” [...] Ha scelto la lontananza dalla vita metropolitana approfittando delle nuove tecnologie con le quali si tiene in contatto coi suoi [...] giornali. [...] ”La giovinezza è molto confusa come fase della vita. L’unica cosa che ricordo con lucidità è che per me il vero tradimento è stato entrare nel Pci [...] Lì c’era l’altro mondo rispetto alle mie radici, la borghesia [...] iscriversi al Pci era come sposarsi con la colf [...] Ho capito in ritardo gli aspetti barbogi, tromboneschi e moralistici del mondo comunista [...] ammesso che io sia un moralista, come dicono, applico il moralismo a me stesso. Non potrei lavorare per Berlusconi [...] Ho solo tre certezze nella vita: non diventerò mai eroinomane, non mi farò mai prete e non lavorerò mai per Berlusconi. [...] Una delle esperienze politiche più importanti della mia vita fu il 7 aprile, Toni Negri, il teorema Calogero. All’’Unità’ ci scannammo. Gran parte della vecchia generazione era forcaiola [...] Amici veri, nel mondo dei cosiddetti vip, pochi: Antonio Albanese, De Gregori, Benigni. E Luca di Montezemolo, che è mio amico d’infanzia e mio vicino di casa” [...]» (Claudio Sabelli Fioretti, ”Sette’ n. 37/1999). «La mia generazione prima viveva, accumulava esperienze, e poi cercava di raccontarle. Certo, magari anche in chiave comica. Prima di metterci alla macchina per scrivere o al tavolo da disegno, però, avevamo cercato di imparare qualcosa, di farci un’idea del mondo. [...] Sono entrato all’Unità come stenografo, poi mi hanno passato alle pagine dello sport, a un certo punto ho fatto anche il cronista per l’edizione regionale del Piemonte. Sagra del tartufo, vendemmia del dolcetto, mi sono spiegato? Non sono nato umorista, mi ci hanno fatto diventare [...] l’umorismo è diventato un genere di consumo, soggetto a regole commerciali, per cui l’offerta deve sempre essere superiore della richiesta, in una spirale che si alimenta di continuo. Il risultato è anzitutto un abbassamento della qualità. Quanti comici veramente bravi possono esserci in un Paese come l’Italia? Una decina, probabilmente, non di più. Ma se le tv, le radio, le case editrici ne chiedono cento, è giocoforza che si finisca per scendere di livello [...] quando ho scritto un libro, ho sempre cercato di fare sul serio. Diciamo che, in questo, ho seguito le orme di Stefano Benni, che considero un maestro. Uno che non si è accontentato di fare l’umorista, ma ha dimostrato di essere un vero scrittore [...] Scrivere per far ridere è un’impresa molto faticosa. Bisogna scavare tra le pieghe del linguaggio, frantumarlo, individuarne le contraddizioni. difficile, così difficile c he, a furia di sperimentare, c’è il rischio che uno diventi davvero bravo e decida di investire ciò che ha imparato in un altro tipo di scrittura. Pensi a Giorgio Faletti, che è partito dal cabaret ed è approdato al thriller. Oppure a Benni, appunto [...] Il comico, in un certo senso, è il tragico visto di spalle. Prenda Antonio Albanese: ha studiato al Piccolo, da giovane recitava Grotowski negli ospedali psichiatrici... Ma questo gliel’ho già detto: la mia generazione è arrivata all’umorismo per vie traverse. Non eravamo professionisti della risata, forse non lo siamo neppure adesso» (Alessandro Zaccuri, ”Avvenire” 27/4/2004). «Il successo crea ulteriore successo, secondo quella legge spietata e ingiusta sottolineata amaramente dal detto evangelico: ”A chi ha, sarà dato, a chi non ha, sarà tolto anche quel poco che ha”. Talora, però, il successo e la fama conseguiti in un campo determinato imprigionano in un ruolo, quasi in un’etichetta stereotipa che pregiudica il riconoscimento di altri risultati raggiunti in un’altra direzione. Michele Serra gode giustamente di grande notorietà e considerazione quale giornalista; in particolare per i suoi graffianti, esilaranti e fulminei corsivi satirici, nei quali si rivelano la leggerezza e la profondità dell’umorismo, che unisce disincantata demistificazione e umanissima comprensione della vita. [...] Serra si dedica da trent’anni al giornalismo, seguendo la sua passione politica - ”giovanile grande, poi parecchio incanutita” [...] che gli ha fatto scrivere ”migliaia di corsivi e articoli sull’’Unità’, su ’Repubblica’, sull’’Espresso’ e infinite altre testate” e anche fondare e dirigere per sei anni un giornale satirico. A quest’opera impegnata e insieme giocosa (’forse dispersa in troppi rivoli”, si schermisce) Serra deve la sua autorevolezza e il suo successo. Ha scritto pure un romanzo, due altri libri di narrativa, libretti d’opera, testi teatrali e televisivi, che la sua stessa fama di giornalista ha peraltro messo in ombra. [...] ”Forse ho lasciato dietro di me una scia spesso dozzinale (specie nel giornalismo); per dirla secca, ho scritto troppo e troppo in fretta. Ma non mi è affatto dispiaciuto avere un approccio alla scrittura così irrequieto e confusionario; mi ha impedito di cristallizzarmi e forse anche di prendermi troppo sul serio. Dico sempre di sentirmi un dilettante, magari nel senso francese di amateur, che mi gratifica... E diffido delle maschere professionali e del mito della ’professionalità’. Non c’è dubbio, comunque, che la figura giornalistica faccia velo a tutte le altre. E che questo, a volte, sia un problema. Ho scritto Cerimonie sapendo che potevo contare solo sulla complicità dei lettori (parecchi), meno sull’attenzione della critica, molto preconcetta (con qualche ragione) sulla narrativa scritta da giornalisti [...] il giornalista, specie se commentatore, è tenuto a dare delle risposte, delle indicazioni etiche. La sintesi richiede lucidità e precisione. E richiede un’opinione. Al contrario, lo scrittore è libero, attraverso la narrazione, di non dare risposte. Di indicare, di mostrare e basta. Si serve della sensibilità, della percezione, più che del puro intelletto. Schematizzando molto, lo scrittore è artista, il giornalista è intellettuale. E probabilmente, quando scrivo letteratura, lo faccio anche per prendermi qualche rivincita sulla dovuta rigidità del mio ruolo di opinionista: quando scrivo non ho opinioni, ho solamente sensazioni, ho viscere e pancia oltre che pensiero [...] Penso che l’istinto satirico provenga soprattutto dal pudore. La satira è una correzione della retorica, un suo antidoto: vedi qualcosa che non ti piace, qualche stortura che vuoi colpire, e poiché ti vergogneresti di impancarti a censore o a retore, scegli la strada della satira. La definizione latina, castigat ridendo mores , mi pare ancora perfetta. Mi considero un autore satirico dismesso (anche se ho ripreso a scrivere di satira sull’’Espresso”), forse perché ho logorato ed esaurito alcune formule (per esempio l’apocrifo). Ma penso che un ’modo’ satirico sia rimasto profondamente impresso nella mia scrittura, appena avverto pesantezza o trombonismo cerco di scivolare via, ai margini, lateralmente, con un brusco cambiamento di punto di vista che è tipicamente satirico. La satira serve soprattutto a difendersi da se stessi» (Claudio Magris, ”Corriere della Sera” 29/5/2004). «O sto tutto il giorno alla scrivania, oppure non scrivo una riga, se non per i giornali [...] Lavoro nel mio studio. Sedia e tavolo Ikea, in plexiglas, ingombro di scartoffie, bollette, giornali, foto di famiglia, vignette originali di Altan e Vincino [...] Lavoro col computer: lo uso come una macchina per scrivere. L’organizzazione dei file rispecchia il mio disordine. Correggo sullo schermo. Quando passo alla carta è perché il libro è finito. [...] Mi capita di stare bloccato due giorni su tre righe. Quando succede, interrompo e passo ad altro» (Mariarosa Mancuso, ”Corriere della Sera” 9/7/2002).