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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

SHEVCHENKO Andriy Dvirkishcyna (Ucraina) 29 settembre 1976. Calciatore. Dal 2009/2010 alla Dinamo Kiev, squadra in cui aveva iniziato la carriera

SHEVCHENKO Andriy Dvirkishcyna (Ucraina) 29 settembre 1976. Calciatore. Dal 2009/2010 alla Dinamo Kiev, squadra in cui aveva iniziato la carriera. Col Milan (1999-2006, 2008-2009) vinse la Champions League 2002/2003 (suo il rigore decisivo nella finale contro la Juventus), la Coppa Italia dello stesso anno, lo scudetto 2003/2004. Pallone d’Oro 2004, terzo nel 1999 e nel 2000, ottavo nel 2001. Capocannoniere del campionato di serie A nel 2000 e nel 2004. Ha giocato anche nel Chelsea • «Mettiamola così: i robot di solito hanno meno incertezze. A ripensarci adesso, quella di Andriy Shevchenko non è stata certo la carriera del giocatore perfettino, figlio della scuola militare di Lobanovski, che molti hanno visto in lui per tanti anni. Perché, a dispetto della partenza lanciata in Italia, Shevchenko ha trovato più di una buca sulla strada per il successo; e, a dispetto della fama di bambino prodigio, più di una cosa gli è andata storta. Gli esordi, ad esempio: mica tutti brillanti come il primo anno con il Milan. Con la Nazionale cominciò con due sconfitte, una contro la Croazia il 25 marzo ”95 ( e quella partita avrebbe potuto dare all’Ucraina il visto per gli Europei ”96) e una contro l’Italia. Quattro a zero la prima volta, due a zero la seconda: per gli avversari, naturalmente. Per non parlare del debutto nel campionato ucraino: prima uscita contro lo Shakhtar Donetsk il 28 ottobre 1994, alla fine della stagione Andriy aveva segnato solo un gol. ”Ma era perché mi facevano giocare a centrocampo. L’anno dopo sono migliorato. D’altra parte, mi avevano spostato in attacco: per forza segnavo di più”. E non furono memorabili neppure le prime partite nelle coppe europee, nel 1994: Andriy aveva giocato una trentina di minuti contro lo Spartak, a Mosca, il 23 novembre (1-0), ma l’uscita da titolare la fece due settimane dopo contro il Bayern Monaco a Kiev. ”Segnai il gol dell’uno a zero, ma finì 4 a 1 per loro. Per la verità, in quel periodo non riuscivo mai a partire con il piede giusto”. [...] Tutto è bene quel che finisce bene e gli strappi di un tempo sono ricuciti. Il primo strappo è datato 1986. Il bambino Andriy Shevchenko, nato il 29 settembre 1976 a Dvirkivchina, vicino a Kiev, e a Kiev trasferito con la famiglia a tre anni, è appena entrato nella mitica scuola di calcio della Dinamo, campi e piscine in una zona militare nel centro della città. Il ragazzino è bravo e vivace, più che studiare gli piace calciare e giocare a hockey su ghiaccio, ma una disgrazia immane cade in forma tossica sulla sua generazione, e su tutta la gente ucraina. L’incidente alla centrale nucleare di Chernobyl interrompe la vita quotidiana: una mattina, i bambini di Kiev vengono trasferiti in un campeggio sul Mar d’Azov. Così, senza spiegazioni, senza un motivo. E Shevchenko più che altro della sciagura ricorda proprio questo silenzio sospeso su una nazione intera. ”Mio padre era un militare. Non ci disse una parola, quelle erano le regole”. Shevchenko resta con i suoi coetanei per un mese e mezzo, poi arrivano i genitori a portarselo via. Andriy, con la mamma Lubov e la sorella Lena, resta sul Mar Nero ancora parecchi mesi, ed è una vacanza forzata tutt’altro che allegra. ”Quando tornammo in città, i contatti erano persi. Passò parecchio tempo prima che l’allenatore venisse a casa nostra a ricordare a mia mamma che avrei dovuto ricominciare a giocare a calcio”. Così il grande tecnico ucraino ha cresciuto Shevchenko. Perché poco si capiva, ma quel poco bastava ai responsabili di quelle squadre di bambini, e i genitori di Sheva non si sottrassero al consiglio dell’uomo venuto dopo Chernobyl. Shevchenko riprende le sue normali attività di normale ragazzino innamorato del pallone, e a 15 anni diventa parte della vera Dinamo. Comincia un periodo di oscillazione fra la squadra B e la prima squadra allenata da Lobanovski, ma la strada è ormai tracciata. Quella era un’Ucraina molto diversa da questa, e tutto il calcio dell’allora Repubblica sovietica si riassumeva in un nome: Valeri Lobanovski, appunto. Il colonnello. Il colonnello decide tutto da un ufficio minuscolo, praticamente un sottoscala nel centro sportivo della Dinamo. lui che a un certo punto decide che il calcio ucraino deve aprirsi al mondo per crescere. Il primo a partire è Blochin, Pallone d’oro nel 1975 [...] Blochin va a consumare la fine della sua gloriosa carriera in Austria; il colonnello aveva deciso che era giusto mandarlo a guadagnare dopo che aveva regalato tanta gloria al suo calcio. Da Blochin in poi, le cose nel calcio ucraino, e in generale nel calcio sovietico, sono lentamente cambiate. Cominciano in quegli anni per i giocatori di Kiev le trattative con le società dell’Europa occidentale, finché Mikhailichenko, pupillo di Lobanovski, raggiunge un altro traguardo importante: lo scudetto con una squadra italiana, la Sampdoria. in quel calcio di transizione che cresce Andriy, ragazzino appassionato di calcio e di Dumas. Legge I tre moschettieri e divora tanti romanzi storici, ama la storia e Napoleone, e in generale studia il minimo indispensabile per mantenere la pace familiare: pace che ogni tanto si interrompe, quando Lubov apre la porta della camera e scopre che Andriy era scappato per andare a giocare, ma ora sta fuori, in strada, perché il padre è rientrato e non sa come fare a giustificare la sua assenza. ”Cose normali, nessun ragazzino ama fare i compiti”, minimizza la signora Shevchenko. Andriy continua a godere di una relativa impunità, ma ogni tanto qualche botta gli tocca. [...] quando si presenta per la prova di ammissione alla Scuola superiore dello sport, viene bocciato. Alla prova pratica di calcio, e questo è un altro episodio che decisamente non si addice a un robottino del pallone. Nel frattempo, Shevchenko è diventato un piccolo idolo a Kiev. Ha superato un altro degli strappi della sua carriera non robotizzata, resistendo alla sofferenza e alla depressione che a diciannove anni possono facilmente arrivare con un infortunio grave. Quando ormai la sua carriera nella Dinamo è felicemente avviata, infatti, Andriy si infortuna gravemente a un ginocchio: l’operazione al menisco lo tiene fuori cinque mesi, e sono mesi di tormento. ”Ogni tanto lo vedevo scendere le scale con le stampelle come impazzito perché non poteva giocare”, ricorda la madre. Shevchenko perde tutto il girone di ritorno della stagione ucraina, ma il rientro arriva ed è un rientro felice. In cinque stagioni a Kiev, vince cinque scudetti e segna 60 gol in 118 partite. Gli zeri degli esordi sono ampiamente cancellati. La sua fama diventa prepotente in Europa quando la Dinamo distrugge il Barcellona a casa propria: è il 5 novembre 1997, Shevchenko segna tre gol sui quattro della squadra ucraina. Il suo nome comincia a circolare e molte grandi società se lo segnano sul taccuino. Nell’edizione successiva della Champions League, Shevchenko chiude da capocannoniere con 11 gol e trascina la Dinamo alla semifinale. Ma il Milan non ha più conferme da chiedere: il colonnello Lobanovski, stretto nella sua minuscola stanzetta dei bottoni, ha deciso che Shevchenko è pronto a emigrare. ”Mi diceva sempre: cerca di restare quello che sei, e di diventare più forte”. Già nella primavera del 1999, Andriy si sottrae al protocollo imposto dal padrone della Dinamo, Surkis, e ammette di essere pronto al viaggio in Italia. Il secondo della sua vita: il primo lo aveva fatto nel 1994, meta Agropoli, per un torneo giovanile. Arrivando in Sicilia da ragazzo, aveva segnato cinque gol su sette nella prima amichevole, e negli anni successivi non si sarebbe smentito. Quando Shevchenko sbarca a Milano fingendo di venire da studente, nel giugno ”99, è circondato dalla curiosità di molti. Non di quella del direttore generale Ariedo Braida che, con Rezo Choconelidze, l’uomo dell’Est del Milan, ha solo certezze sul suo conto. Ma quando Braida convince Adriano Galliani ad andarlo a vedere, Shevchenko gioca malissimo e l’amministratore delegato del Milan si prende pure la febbre (per via del freddo, non della delusione). ”C’erano 17 gradi sotto zero, la Dinamo giocava con il Panathinaikos e Andriy non spiccò”, ricorda Galliani. Ma nessuno cambiò idea. E nessuno si è dovuto pentire» (Alessandra Bocci, ”La Gazzetta dello Sport” 14/12/2004).. «Chi è Shevchenko? Più facile spiegare ciò che non è. Per rimanere in ambito rossonero, non ha l’eleganza divina di Van Basten, l’esplosiva creatività di Weah, la potenza inesauribile di Nordahl, la classe brasiliana di Altafini, il superiore opportunismo di Inzaghi. Però è capace di segnare gol identici a quelli dei suoi immortali predecessori e compagni milanisti: in serpentina dopo quattro dribbling, andando da un’area all’altra col pallone, trascinandosi in porta i difensori, saltando di testa, sbucando all’improvviso dal nulla. E poi ancora: di sinistro, di destro, su rigore, su punizione, al volo, in pallonetto, sullo scatto lungo, da fermo, con tocchi morbidi o legnate di collo. Quanto alle doti fisico-organiche, siamo all’atleta da sogno: constatatene la continuità e guardate come corre e quanto segna anche nei finali di partita. Andriy Shevchenko può essere superato, di volta in volta, in uno dei fondamentali che definiscono il mestiere di cannoniere. Ma se fate la somma di tutti i gesti essenziali, allora nessuno lo scavalca più. semplicemente il più completo. [...] è talmente lineare nelle proprie qualità da non solleticare la fantasia proprio di tutti. Un Raul, un Henry, forse un Vieri finiscono per colpire di più e per tenerlo sull’uscio di quel salone non immenso, dove hanno diritto di accesso, per popolare investitura, solo i fuoriclasse. Ed è un errore perché l’ucraino dalla faccia buona è un grandissimo fra i grandissimi. Passerà alla storia come un fenomeno. Di regolarità, efficacia, spettacolarità. Tutti, in un lontano futuro, dovranno misurarsi con l’uomo che segnava sempre e comunque, senza isterismi, impuntature, capricci. Boniek e Nedved hanno provenienze orientali sì, ma da Paesi molto ”europei” come Polonia ed ex Cecoslovacchia: dunque il vero messaggero del calcio del ”profondo Est” in Italia è stato proprio Sheva, forgiato dal colonnello Lobanovski a Kiev. Si favoleggiava qualche anno fa, durante l’epopea di altri due ucraini che hanno scritto la storia dello sport, lo sprinter Valery Borzov e l’astista Sergei Bubka, che si trattasse di atleti ”costruiti in laboratorio”. E il nostro Sheva, così simile ai suoi connazionali nella compostezza e nel culto del lavoro, parrebbe confermare questa leggenda. Si tratta, credeteci, di straordinarie sciocchezze, inventate da chi accetta la sconfitta contro quei mostri solo a patto che in qualche modo possano essere considerati disumani. l’opposto. Shevchenko è un campione di umanità e dal suo primo maestro ha ricevuto un insegnamento di vita prima che tecnico. Per questo e non per altro, Andriy ha portato sulla sua tomba la coppa conquistata a Manchester. Questo è un uomo capace di ridere e commuoversi, un ragazzo semplice ma profondo, rimasto felicemente identico a se stesso. [...] felice del suo destino e non vuole sprecare un solo allenamento. Equilibrio ed educazione: che sia questo il segreto alla fine? perfino imbarazzante scriverne: si scivola nell’agiografia se non ci si può soffermare su difetti evidenti. Certo, si tratta di quanto di più hollywoodiano il nostro calcio possa proporre: eroe positivo e vincente. Ma, per fortuna, ogni tanto sulle sue labbrasi legge qualche robusta imprecazione, talvolta lo vedi insofferente con Inzaghi, Ancelotti o perfino un arbitro. La perfezione non abita nè a Kiev nè a Milanello» (Franco Arturi, ”La Gazzetta dello Sport” 8/1/2004). «Arrivò in Italia nell’estate del ”99, il Milan era campione d’Italia ma molti distribuirono sguardi e giudizi scettici sul ragazzo ucraino inseguito a lungo anche dal Real Madrid: i precedenti non erano favorevolissimi, gli atleti dell’ex Unione Sovietica si erano sempre smarriti nel campionato italiano e nel migliore dei casi avevano avuto bisogno di un lungo periodo di ambientamento. Ma lui, che aveva e ha un temperamento dolcissimo, ma nel lavoro le idee dure del figlio di un militare, non si fece impressionare e partì a razzo: non segnò nel trofeo Berlusconi e neppure nella Supercoppa Italiana, partite perse entrambe dal Milan, ma nelle prime due giornate di campionato fece gol a Lecce e poi al Perugia a San Siro. La sua fama crebbe e toccò l’apice durante Lazio-Milan, una delle migliori partite mai giocate dall’ucraino in Italia. Quell’anno Shevchenko finì a quota24 diventando capocannoniere, un’impresa che, per dire, al primo anno d’Italia riuscì a Michel Platini, ma non a Ronaldo e neppure a Maradona. ”Se i gol non servono al Milan non servono neppure a me”, dichiarò un po’ depresso il ragazzo, che certo si aspettava una partenza lanciata anche a livello di squadra. Invece Andriy ha dovuto aspettare parecchio prima di vincere con il Milan, ha dovuto aspettare che la storia prima si strappasse e poi ripartisse nel modo migliore. Lui per la verità il suo dovere lo fece anche l’anno successivo: inizio assolutamente folgorante (gol nel trofeo Berlusconi, doppietta alla Dinamo Zagabria nei preliminari di Champions, sia all’andata che al ritorno, gol a San Siro al Besiktas, all’apertura della Champions League) e ancora 24 gol alla fine. Lo battè Hernan Crespo, che segnò due reti in più, ma la vena dell’ucraino sembrava inesauribile. Purtroppo per lui ancora una volta il Milan non vinse nulla e anzi quell’anno scivolò malinconicamente in zona Uefa. Campionato amaro insomma, confuso e ingarbugliato da un cambio di allenatore (esonerato Zaccheroni, arrivòCesare Maldini), anno difficile e non certo per il secondo posto nella classifica dei cannonieri vinta da Crespo. Proprio l’argentino, partendo per l’Inghilterra e portando in dote al Chelsea i suoi 108 gol italiani, ha liberato il primo posto in classifica fra gli stranieri che hanno segnato di più e sono tuttora in attività nel campionato italiano: Shevchenko adesso è primo e sorpassa lo juventino Trezeguet (che però ha una media migliore) di venti gol, ma deve fare ancora molta strada per arrivare ai primi posti fra gli stranieri arrivati in Italia dalla riapertura delle frontiere, nel 1980. ”Le sfide individuali non mi interessano, ma anche questi sono stimoli in più: e visto che la mia casa ormai è Milano, spero di aver tempo per rendere sempre più grandi i miei numeri”. [...] Nel 2001-2002 (gol alla prima di campionato a Brescia, doppietta alla Fiorentina, gol alla terza di serie Aa Udine, gol in coppa Uefa al Bate Borisov) che nonostante la partenza scintillante si concluse con un bilancio magro, 14 gol, per l’ucraino e altrettanto magro per il Milan, ancora una volta costretto ai preliminari di Champions League. Un preliminare che ricorda davvero un brutto capitolo a Andriy, con il ginocchio che fece crac alla prima partita ufficiale contro lo Slovan. [...] Eppure, proprio l’annata che sembrava la peggiore (e in cifre lo è, cinque gol in tutto in campionato, quattro in Champions League e uno in coppa Italia per un giocatore che non chiudeva mai senza superare largamente la doppia cifra) si è conclusa nel migliore dei modi, con due coppe e una grande serata, anzi due: perché se negli occhi di tutti sono rimasti la calma e i passi stregati di Shevchenko verso il dischetto dei rigori all’Old Trafford, c’è un’altra serata che l’ucraino ricorda come parte della rinascita, ed è quella del derby di ritorno con l’Inter e del gol che ha regalato al Milan lafinale europea con la Juventus. C’è stato molto di buono insomma nella coda di una stagione pessima» (Alessandra Bocci, ”La Gazzetta dello Sport” 4/9/2003). «Io non so se sono già un simbolo, ma voglio regalare sogni alla gente. Mi piace dare un’immagine pulita di me, una persona tranquilla, che non si monta la testa. I tifosi italiani mi hanno accolto alla grande, non smetterò mai di ringraziarli» (’la Repubblica” 11/12/2001). «Chi merita deve guadagnare. Io ho conosciuto il comunismo e ai tempi del comunismo tutti guadagnavano la stessa cifra: chi non faceva niente e chi lavorava dieci ore al giorno. Mio padre era nell’esercito e lavorava dalle 7 del mattino alle 8 di sera. Eppure era pagato come chi si imboscava [...] In Italia c’è troppa democrazia [...] Voglio dire che avete una singolare concezione di quello che è il rispetto delle regole. Ognuno cerca di osservarle solo per quello che gli fa comodo. Se una regola non piace, si fa di tutto per aggirarla. [...] Ha idea a quanto ammonti la pensione di mio padre e mia madre? In due fanno 50 dollari al mese. Ecco perché investo i miei guadagni in Ucraina. Lì la gente ha davvero bisogno» (Alberto Costa, ”Corriere della Sera” 28/8/2003).