varie, 6 marzo 2002
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Siciliano Enzo
• Roma 27 maggio 1934, Roma 9 giugno 2006. Scrittore. Direttore di ”Nuovi Argomenti”, ha sempre diviso la sua attività tra la saggistica e la narrativa. Tra le opere di critica letteraria Romanzo e destini (1992) e Campo de’ Fiori (1993). Per la narrativa: La principessa e l’antiquario (1980, premio Viareggio); Carta blu (1992); I bei momenti (1997). stato presidente della Rai. «Un bel ragazzo meridionale sopravvissuto alla stagione del cappotto di Moravia. Quando ancora lo chiamavano ”o Sarracino, per via del suo aspetto abbronzato e ambrato, quando ancora era intenso in lui il dilemma del dover scegliere tra una carriera universitaria a fianco del grande Ugo Spirito che lo vuole come assistente o la lusinga della poesia e della prosa, avvampato com’era degli incoraggiamenti di Giacomo Debenedetti, non sa di aver intrapreso il percorso che fa di lui il Bel Ami delle patrie lettere. Sotto lo sguardo di Ivanka Veltroni, vince un concorso in Rai. La Roma che lo accoglie nei giorni delle letture, è già la Roma di via Veneto e della ”dolce vita”, l’Italia che si sfianca attorno a questi tavoli sarà l’Italia delle obbedienze più conformiste […] Comunque comunista. Si trascina con Bernardo Bertolucci. Comunista letterario, s’interrogava sulla letteratura. Comunista di buon pelo, su Linea Capital si offre all’obiettivo fotografico vestito con ”un cappotto di tweed a maniche intere con collo in marmotta di Bruno Piattelli, collo di lupo e interno di vajo di Ferrari”. Comunista dubitante, si tiene fuori dal Pci nel 1956 per i fatti d’Ungheria. Pietro Ingrao dovrà schiaffeggiarlo in pubblico, ma sarà sempre di più un comunista da salotto. Sergio Saviane lo bolla: ”Il divanista”. Eterno allievo, di Debenedetti, di Pasolini, di Moravia. Luciano Salce fece un tormentone alla radio: ”Ed entrò Moravia seguito da Enzo Siciliano”. stato, come ”presidente della Rai”, allievo di Walter Veltroni. Mite e flautato conversatore, affronta la vita aiutandosi con la moglie, l’irruenta Flaminia Petrucci, sua musa sorvegliante» (Pietrangelo Buttafuoco, ”Dizionario dei nuovi italiani illustri e meschini” 31/10/1998). «L’unica cosa che m’interessa è raccontare l’esperienza della vita, non solo mia personale. La vita è una grande narrazione che si proietta poi in linguaggi espressivi diversi, in tecniche diverse. Però su tutti questi linguaggi la letteratura ha un privilegio, quello della parola, attraverso la quale tutto non solo può venire spiegato, ma portato al piano della mente, che è quello che a me interessa di più. Sarò anche vorace, ma il racconto attraverso le parole ha la possibilità simultanea di affermare e sintetizzare fatti e cose che sembrano le più lontane tra loro. Io racconto per capire [...] mi diverto sempre a leggere Philip Roth, che ha uno spirito straordinario e non mi vergogno di dire quanto lo invidio. Accanto a Roth amo molto DeLillo e devo dire che la narrativa americana, la più recente, ha una vitalità di stile e linguaggio che non è da meno a mio parere di quella della grande stagione dei Faulkner, Hemingway e Fitzgerald. A confronto noi europei ci guardiamo l’ombelico ed è come se la nostra lingua si inceppasse nel guardare di fuori. Sembra che la nostra letteratura manchi di spazio. Uno scrittore come Coetzee ha un gran senso dello spazio e fa capire quanto per rappresentare e capire l’anima di un individuo ci sia bisogno di spazio e di paesaggio» (Alain Elkann, ”La Stampa” 9/5/2004). «Nei suoi libri ha raccontato molto di sé. Le origini famigliari in Mia madre amava il mare. La formazione intellettuale in Carta Blu e in Campo de Fiori. La doppia radice calabro-romana in Non entrare nel campo degli orfani. [...] ”Di origine calabrese, mi sono formato a Roma, che mi ha segnato profondamente perfino nella pronunzia. Non sono certo uno sradicato, ma ho avvertito la necessità di fissare attraverso la scrittura una mia personale costellazione [...] Sono nato a Roma, in via Milazzo. Mio padre Natale era capitano dei carabinieri, con una gran passione per la musica. Dopo l’armistizio nel 1943, durante l’occupazione tedesca, visse nella capitale da clandestino. Mia madre Giuseppina era una donna molto energica. E quando morì mio padre, fu per me una guida sicura. Io avevo solo quindici anni [...] Finito il liceo, conobbi il critico Niccolò Gallo, che mi incoraggiò. Poi arrivò Giorgio Bassani, che mi diede da tradurre Wyndham Lewis, uno scrittore vorticista amico di Pound. Ed ancora Giacomo Debenedetti, che mi affidò una traduzione di Nabokov. Un’eccellente scuola di scrittura [...] Bassani era fissato con la grammatica. Mi rimbrottava: ”Mai scrivere: sia che, sempre sia sia”. Oppure: ”Mai infilare una collana di relative”. Debenedetti selezionava con cura sostantivi e aggettivi: un prezioso esercizio fu rendere in italiano le sfumature ironiche di Nabokov. Un altro maestro di stile fu Arrigo Benedetti, che mi chiamò all’Espresso nel 1963. Conoscevo la sua fama di abile cestista di pezzi crudelmente appallottolati. Così, un poco titubante, gli portai il mio primo pezzo, la recensione d’una raccolta di scritti di Renato Serra [...] ”Bisogna saper aprire”, mi fulminò. ”E poi ricordati: bisogna lavorare sempre su un concetto solo, non più di uno”. Grazie a lui siamo diventati tutti scrittori che lavorano su un solo tema [...] Fu Tronti a infilarmi in tasca la tessera del Pci. Ed io, a mia volta, da segretario del ”gruppo Rinascita” a Lettere, diedi la tessera ad Asor Rosa. Entrambi ne uscimmo nel 1956, dopo la repressione ungherese. Rischiai anche uno schiaffione da Ingrao, allora direttore dell’Unità. Mi difese Paolo Bufalini [...] Una volta subimmo un’aggressione dai fascisti: mi picchiarono, persi anche un orologio. Ricordo in quell’occasione il monito di Calogero: mai offrire l’altra guancia [...] avevo un’autentica passione per la letteratura anglosassone. Quando Pound venne in Italia, ne tradussi due Canti. ”C’è solo uno sbalioncino’, mi accolse benevolo. Poi mi regalò un’edizione inglese dei Cantos con una dedica che ancora conservo: ”Approvato per bene’ [...] Quando mio padre andò alla macchia, durante l’occupazione nazista, contrassi una forma di paura. Credo che questa paura abbia subito delle metamorfosi, ma sia diventata una cosa: se vado allo scontro scrivendo, non vado allo scontro nella vita [...] Nel 1964, con i saggi critici di Prima della poesia, presi di petto alcuni miei coetanei del Gruppo 63, procurandomi più nemici che amici. Antonio Porta. Angelo Guglielmi. Edoardo Sanguineti. Furono cose pesanti. Mi fece male il non essere compreso da persone nel cui orizzonte mi muovevo. Prima di tutto, dagli amici dell’Espresso. Il punto dolente era Valerio Riva, che faceva le pagine culturali. E dietro di lui Nanni Balestrini [...] Guglielmi era il mio avversario più feroce, poi è nata un’amicizia. Gli riconosco una generosità rara nell’ambiente [...] Elsa Morante, una donna di grande fascino ma di affetti esclusivi. Esigeva una fedeltà assoluta. Quando uscì La Storia, non lesinai critiche. La prese male. Malissimo. Non ci vedemmo più [...] Appartengo a una generazione che ha riflettuto su una battuta di Sartre: le mani bisogna sporcarsele fino al gomito [...] Ho scritto almeno quattro buoni romanzi, ho firmato alcuni buoni saggi critici, vado fiero dei miei lavori teatrali. Forse talvolta la mia curiosità può essere stata devastante”» (’la Repubblica” 7/6/2004).