Varie, 6 marzo 2002
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Simone Nina
• (Eunice Kathleen Waymon) Tyron (Stati Uniti) 21 febbraio 1933, Bouc-bel-Air (Francia) 21 aprile 2003. Cantante • «Una delle più grandi cantanti afroamericane del Ventesimo secolo [...] La sua è stata una delle voci più personali della musica popolare americana, quella di una autrice ed interprete che, senza aderire alle mode, alle tendenze del mercato, marcando sempre la sua assoluta e testarda indipendenza, ha attraversato mezzo secolo di musica con incredibile forza. Sesta di otto figli aveva mostrato subito il suo prodigioso talento musicale, suonando il pianoforte e cantando in chiesa. La madre la spinse sulla strada della musica e Eunice per mantenersi agli studi alla Julliard School of music di New York (rara opportunità per una ragazza di colore negli anni ’50), iniziò a suonare nei club di New York. Pian piano iniziò a mettersi in luce, sviluppando uno stile vocale personalissimo. Le prime incisioni della giovane cantante e pianista sono della fine degli anni Cinquanta ma ci vuole poco alla Simone per arrivare addirittura a scalare le classifiche di vendita con una splendida versione di I love you Porgy di George Gershwin. Non erano le classifiche, comunque, l’obiettivo della sua carriera ma la musica, tutta la musica, con la quale viveva, respirava, comunicava con il mondo intero. E mentre nel mondo si affermavano il rock’n’roll, il ryhthm’n’blues, il cool jazz, lei iniziava quello straordinario percorso musicale, obliquo e singolarissimo, che l’ha portata a dominare le scene per oltre cinquant’anni. Il jazz è stato uno degli elementi importanti del suo repertorio, così come il blues, gli spirituals, il folk, le canzoni della grande tradizione americana e internazionale, mescolate insieme con uno spirito, una passione ed una forza comunicativa davvero uniche. Regina del ”soul”, quindi, capace di trasformare jazz, pop e canzone in musica dell’anima, di cantare e suonare brani suoi o di altri in maniera originale, ha registrato le sue cose migliori alla metà degli anni Sessanta, quando la sua energia e la sua tenerezza trovarono un magico equilibrio, sostenendo le sue interpretazioni con uno stile pianistico che non era secondo a nessuno. Negli stessi anni si schierò in prima linea nelle battaglie per i diritti civili, scrivendo alcune canzoni diventate memorabili, come la durissima Mississippi Goddam. Prolifica come pochi (tra gli anni ’60 e ’70 ha inciso diverse decine di album), ha avuto nel suo repertorio bellissime interpretazioni di Brecht e Weill, di Jacques Brel, di George Gershwin e Cole Porter, ma anche dei Beatles, degli Animals. Poteva cantare non tutto ma di tutto, e rendere ogni canzone una ”sua” canzone, così come fece con la leggendaria My baby just cares for me, scritta da altri. Ma anche alcune delle sue composizioni sono passate alla storia, come la bellissima Young, gifted and black, portata al successo da Aretha Franklin» (Ernesto Assante, ”la Repubblica” 22/4/2003). «La tigre, la pasionaria, la rivoluzionaria [...] Il padre suonava un po’ tutti gli strumenti, la madre cantava in un coro gospel, lei messa al pianoforte a soli quattro anni. Una bambina prodigio al punto che l’autorità cittadina si era mobilitata per aiutarla a studiare, dapprima ad Asheville, poi alla gloriosa Juilliard School di New York. Sembrava destinata ad una carriera concertistica, grande cultura classica, ottima tecnica, ma il colore della sua pelle era stato un ostacolo insormontabile. Così si era trovata a vivere dando lezioni di pianoforte e di canto, esibendosi in qualche jazz club come pianista. Forse, proprio per la speranza di riuscire un giorno o l’altro a proporsi come interprete del mondo classico, aveva assunto lo pseudonimo di Nina Simone. E quel nome non l’aveva più lasciata. Aveva una voce da contralto di ampia tessitura, con colori scuri che ben si addicevano al jazz, al blues, al folk americano e fin dai primi dischi, incisi nel 1957, aveva avuto successo presso un pubblico colto. Il jazz degli anni Cinquanta-Sessanta aveva visto la nascita del be bop, del cool e il loro declino, sostituiti dalla spericolata avventura del free, ma lei sembrava insensibile alle mode come alle rivoluzioni culturali, quasi che il suo stile fosse nato direttamente con lei e non potesse, o non volesse, mutarlo per assecondare le tendenze del momento. Era una virtuosa del pianoforte, qualche volta abusava anche dei suoi mezzi, ma la sua voce aveva una straordinaria potenza espressiva. Aveva cominciato a farsi notare con il suo primo disco I love you Porgy dedicato alle musiche di Gershwin, poi aveva preso a spaziare anche in altri generi, aveva scoperto Dylan, Kurt Weill, i blues, ma non aveva dimenticato Chopin e Bach. Per rintracciare le sue origini musicali aveva anche studiato la musica africana e il suo modo di suonare il pianoforte era diventato più percussivo, più incisivo. Ebbe il coraggio di incidere Strange fruit, la prima autentica canzone di protesta razziale che Billie Holiday aveva registrato nel 1939 e che sembrava appartenere soltanto a lei, per la carica espressiva e drammatica che le aveva imposto (con Nina Simone sono stati solo Josh White, Sting, Tori Amos, Cassandra Wilson e Dee Dee Bridgewater ad inciderla). Da quel momento aveva cominciato ad imprimere alla sua musica una forte connotazione sociale e razziale e la sua Black is the color of my true love’s hair aveva fatto il giro del mondo. Negli anni Sessanta era già nota per la passionalità delle sue interpretazioni e per la sua attiva partecipazioni ai movimenti di emancipazione del popolo di colore e proprio per sentirsi unita a quanto avveniva attorno a lei (erano gli anni di Martin Luther King, di Malcom X, delle Pantere nere) aveva scritto Old Jim crow inimicandosi la buona borghesia americana e diventando ”la tigre”, ”la pasionaria”. Ed era tornata anche ai gospel, come linguaggio tipico del suo popolo. Aveva deciso di prendere parte attiva nella società afroamericana che andava scoprendo la sua identità e, spesso, nei suoi concerti europei, parlava al pubblico della difficile situazione della sua gente. Era anche diventata amica dello scrittore Leroy Jones. Insieme avevano progettato una black opera che, però, non è mai andata in porto. La sua forte personalità era riuscita comunque ad imporsi anche negli Usa al punto che la città di New York l’aveva insignita della sua massima onorificenza. Quando aveva cominciato a fare concerti anche in Europa, a Parigi aveva incontrato le canzoni di Brel, se n’era innamorata e aveva inciso una memorabile versione di Ne me quitte pas e poi Il faut savoir e L’amour c’est come un jour entrambe di Aznavour. E proprio in Francia, dove è morta, aveva finito per passare buona parte dei suoi ultimi anni. La disuguaglianza razziale negli Usa è ”peggio ora di prima”, aveva detto nel 1998 prima di prendere la decisione di vivere all’estero per colpa del razzismo americano» (Vittorio Franchini, ”Corriere della Sera” 22/4/2002). Scriveva Giuseppe Videtti nel 2002: «Maria Callas è l’unica bianca alla quale le piace somigliare. Maria Callas e Frank Sinatra. ”Lui è grandissimo, è mai venuto a cantare in Italia? Mi piace molto l’opera. Una volta ho cantato anche Black Swan, dal Medium di Giancarlo Menotti”. Poi entra nel pantheon dei neri e non ne esce più. ”Marian Anderson, il grande contralto, una delle mie preferite, insieme a Stevie Wonder e Ray Charles. E Patti LaBelle: abbiamo duettato alla Carnegie Hall il 13 aprile. Al ”Rainforest Concert” organizzato da Sting”. [...] Vive a Bouc-Bel-Air, in Provenza, lontana dall’America che ha ripudiato da un quarto di secolo, con gli odori dell’amata Africa che le arrivano dal Mediterraneo. ”Questo è un bel paese, mi allontano raramente ormai. Solo quando il mio manager riesce a organizzarmi una piccola tournée qui intorno [...] Cantai al Sistina, in sala c’era anche la Magnani. Quell’anno (il 1969) mi fecero anche incidere una canzone in italiano, Così ti amo. Imparai le parole in poche ore e a tarda sera avevamo completato la registrazione”. Era una versione di To love somebody dei Bee Gees per la quale Gino Paoli scrisse un nuovo testo. ” un’artista difficile, molto difficile” raccontava Ronnie Scott che la ospitò più volte nel suo jazz club londinese. ”Ricordo una volta che dopo aver cantato due canzoni s’interruppe bruscamente e incominciò a scrutare il pubblico in sala senza dire una parola. Poi si alzò e scomparve dietro le quinte. Il concerto era finito”. Non è mai stata un’artista facile. Ora meno che mai. [...] ”Non ne potevo più dell’America, non ne potevo più della gente. L’unico momento in cui tollero la presenza del pubblico è quando sono sul palcoscenico. In quel momento vorrei conoscerli uno ad uno. Sapere chi sono e dove sono seduti. Diversamente, come si può cantare una canzone a qualcuno? [...] Faccio passeggiate, trascorro ore sotto il porticato, poto le piante, raccolgo i fiori. E siccome sono anche una donna fortunata, a volte mi concedo un concerto nei paraggi”» (Giuseppe Videtti, ”la Repubblica” 28/4/2002).