Varie, 6 marzo 2002
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Sontag Susan
• (Susan Rosenblatt) New York (Stati Uniti) 16 gennaio 1933, New York (Stati Uniti) 28 dicembre 2004. Scrittrice. Romanziera e saggista. «Il padre Jack, commerciante di pellicce, morì quando lei aveva soltanto cinque anni, e la madre Mildred, sposò un militare che le diede il suo cognome. Visse gli anni dell’infanzia a Tucson, ma si trasferì a Berkeley per iscriversi all’università a soli quindici anni. Non ne rimase soddisfatta, e dopo dodici mesi si trasferì a Chicago, dove conobbe un sociologo di nome Philip Rieff, che sposò immediatamente, e con lui continuò gli studi ad Harvard. Il matrimonio si concluse dopo la nascita del figlio David, e Susan decise di trasferirsi a Parigi, dove studiò per due anni, prima di tornare a New York, dove insegnò religione alla Columbia University. Poche cose ne hanno formato la cultura come il soggiorno parigino, e molti degli scritti giovanili evidenziano un’impostazione culturale più europea che americana che divenne parte caratterizzante del suo approccio intellettuale. Sin da allora amò definirsi una ”zelota della serietà” e una ”moralista ossessionata”, e visse il suo essere intellettuale con spirito in egual misura implacabile e missionario: la sua attività si caratterizzò sin da quei primi anni a tutto campo, con romanzi, saggi, regie ed interventi pubblici che si influenzavano e nutrivano a vicenda. così per il primo romanzo The benefactor, in cui anticipa temi sviluppati nel saggio Contro l’interpretazione, con il quale rigetta ogni forma di interpretazione a favore di quello che definisce ”trasparenza”, cioè la necessità di apprezzare ”la luminosità delle cose per quello che esse realmente sono”. Grazie alla profonda conoscenza della cultura europea (si deve principalmente a lei la diffusione in America di autori come Barthes e Canetti), e alla capacità di rielaborarla da un punto di vista puramente americano, divenne nel giro di poco tempo uno dei riferimenti più autorevoli e mitizzati della scena culturale newyorkese. La celebrazione dell’approccio intuitivo riguardo all’arte, e la condanna dell’analisi intellettuale (’un’opera d’arte è una cosa nel mondo, non un testo o un commento sul mondo”) la spinsero a dichiarare che ”l’interpretazione è la vendetta dell’intelletto sull’arte”. I suoi saggi, le sue prese di posizioni politiche ”radical” e la sua stessa persona pubblica generarono infinite controversie sin da quando definì all’epoca della guerra del Viet-Nam ”la razza bianca come un cancro dell’umanità” e dichiarò al ”New York Times” di ”aver amato sia uomini che donne”. Ma nessuno osò mai mettere in discussione l’alta qualità della sua elaborazione intellettuale, che continuò a manifestarsi in The Style of Radical Will ed il fondamentale On photography, a cui ha fatto seguito [...] Sul dolore degli altri, che rinsaldò il sodalizio personale ed artistico con Anne Leibovitz. Ma furono gli anni soprattutto di Malattia come metafora, scritto quando scoprì di avere un tumore al seno, che ampliò nel 1988 con AIDS e le sue metafore, nel quale analizzò la concezione ”punitiva” della malattia. Visse con lo stesso spirito imperioso ed intuitivo le regie teatrali, tra le quali memorabile è Aspettando Godot allestito nella Sarajevo distrutta dalla guerra. I libri di narrativa non ebbero mai lo stesso impatto culturale (anche se Gli amanti del Vulcano divenne un best seller), come del resto i film realizzati come regista, del quale il più affascinante è Duetto per cannibali. Era profondamente appassionata di cinema, al punto da divertirsi a prestare il suo volto in qualche cameo (appare in Zelig) e amava i registi italiani della generazione nata negli anni Sessanta, che voleva incontrare ogni volta che passavano da New York: Bellocchio, i Taviani, Olmi e Bertolucci. A ridosso dell’undici settembre, scatenò un furore popolare quando scrisse sul ”New Yorker” che ”qualunque cosa si possa dire sui responsabili del massacro, non erano certamente dei codardi”. Pochi tra gli intellettuali amici le espressero solidarietà pubblica, ma lei decise di non ritrattare, dedicando quasi esclusivamente alla politica gli ultimi interventi pubblici. A chi gli raccontava che nel musical Rent è celebrata come un’icona della gioventù contemporanea rispondeva con una insospettabile timidezza, e ricominciava a parlare della missione dell’arte e cultura, che riteneva salvifica particolarmente ”in questo momento di degrado”» (Antonio Monda, ”la Repubblica” 29/12/2004). «Susan Sontag si era annunciata al pubblico negli anni Sessanta con un libro Contro l’interpretazione. Gli psicanalisti e i filosofi ermeneuti lo considerarono confuso. E li capisco. Li colpiva nella loro ombra, che è poi quella di ritenere che ogni evento sia suscettibile di interpretazione, e quindi nasconda un significato recondito da portare alla luce, perché tutto deve avere una spiegazione. In realtà Susan Sontag voleva solo dire che non tutte le cose hanno un significato, tantomeno le malattie perché ”non c’è niente di più primitivo che attribuire a una malattia un significato, poiché tale significato è inevitabilmente moralistico”. Alla fine degli anni Settanta Susan Sontag esplicitò questo concetto in un bellissimo pamphlet che ha per titolo Malattia come metafora, che Einaudi farebbe bene a ripubblicare, se non altro per evitare che i malati di cancro o di Aids, oltre alle sofferenze fisiche, si trovino a dover sopportare il sospetto moralistico che l’ignoranza da un lato e un insopprimibile bisogno di spiegazione dall’altro attribuiscono alle condizioni di malattia, di sofferenza, di dolore. La tubercolosi era un flagello, ma la letteratura, Thomas Mann in particolare, l’aveva resa un simbolo di raffinatezza, quando non una consunzione d’amore. Persino Freud, amico di Mann, non lo escludeva. E su questo aspetto metaforico della malattia sorse quella pseudoscienza che porta il nome di ”psicosomatica”, dove si afferma, naturalmente senza spiegare come, che le pene dell’anima, quando non le sue colpe, si convertono in malattie del corpo. Potenza delle metafore e dei simboli, vivificati più dalla letteratura che dalla scienza.Di solito la letteratura e con lei la mitologia e la religione interpretano quel che la scienza ancora ignora. Immemori del monito di Ippocrate che, di fronte all’epilessia interpretata come ”male sacro”, scriveva: ”Circa il male cosiddetto sacro questa è la realtà. Per nulla è più divino delle altre malattie o più sacro, ma ha struttura naturale e cause razionali. Gli uomini tuttavia lo ritengono in qualche modo opera divina per ignoranza e stupore”. Contro questa ignoranza, ammantata di sacralità o di estetica, si è battuta Susan Sontag, concentrando la sua attenzione su quella che negli anni Settanta era considerata, e in una certa misura lo è ancora oggi, la malattia mortale: il cancro, che a partire da Reich è stato psicologizzato nella forma della repressione sessuale, e da Groddeck visualizzato come ”malattia di chi vuole morire perché la vita gli è diventata insopportabile”. Ne consegue che come cura basterebbe la buona volontà, la forza di lottare, come vuole il nostro tempo dove, dice Susan Sontag, la metafora militare è quella vincente, quando a regolare il mondo non è il dialogo e l’accettazione dell’altro, ma la forza e la soppressione dell’altro. Fu così che da malattia che insorge per specifiche condizioni organiche, il cancro diventa, per il malato, colpa della degenerazione della sua vita e, per traslazione, metafora della degenerazione politica e sociale, descritta, scrive Susan Sontag, ”con immagini che riassumono il comportamento negativo dell’homo oeconomicus novecentesco: sviluppo anormale, repressione dell’energia che si manifesta nel rifiuto di consumare e di spendere. L’insegnamento di Susan Sontag, che ci invita a demetaforizzare la malattia ed eliminare tutte le interpretazioni, che hanno sempre uno sfondo colpevolizzante, di cui si servono il potere, la morale e la legge per tenere a bada le condotte di vita degli individui, torna particolarmente attuale oggi di fronte a quell’epidemia che chiamiamo Aids. I malati di Aids, oltre alla malattia, devono combattere l’immagine della malattia, che è più spaventosa e più difficile da vincere della malattia stessa. L’origine sessuale quando non omosessuale della malattia, il suo propagarsi ai bordi della città tra gli emarginati vittime della tossicodipendenza offre alla morale, sempre in cerca della colpa perché avida di punizione, un terreno fecondo per il consolidamento dei suoi principi e l’esercizio dei suoi divieti. A questo punto l’Aids, direbbe Susan Sontag se solo avesse avuto il tempo di occuparsene, è soprattutto una vicenda etica e sociale. Investe il costume, lo stile di vita, la forza dei sentimenti. Radicalizza la distanza tra salute e malattia, tra norma e devianza, e nello stesso tempo contamina la malattia con la colpa, la colpa col peccato, il peccato con la punizione. [...]» (Umberto Galimberti, ”la Repubblica” 29/12/2004). «A scrivere romanzi, raccontava al suo modo entusiasta e seduttivo colei che era stata definita ”la donna (probabilmente) più intelligente della cultura americana”, a creare uno spazio e uno iato fra i suoi saggi e i suoi interventi culturali, tra le polemiche e le conferenze, tra i film e le pièce teatrali, lei, Susan Sontag, non era ”arrivata”, ci era tornata. Scriveva storie - così raccontava - da quando aveva sette anni. Poi era diventata Susan Sontag. Poi aveva cominciato un paio di romanzi, fermandosi scontenta a pagina cento. Ma un bel giorno si era scoperta stanca di quella che chiamava, autocriticamente, l’assertività della sua saggistica, che era l’assertività che ci si aspettava dai suoi libri, dall’esposizione diretta delle idee. ”Quella di scrivere saggi non è mai stata una decisione”, mi disse durante una lunga e agitata intervista in cui doveva parlare del suo secondo romanzo, In America. Amava le straordinarie possibilità che offriva la scrittura narrativa, di vivere ogni tipo di vita attraverso la scrittura. ”E ci sono tornata come se avessi fatto una lunga deviazione, per ritrovare alla fine la mia vera voce”. Eppure i suoi lettori non potevano non porsi questa domanda. Perché i romanzi di Susan Sontag - il primo, nel 1993, L’amante del vulcano, il secondo, nel 2000, In America - erano esattamente il contrario di quello che ci si poteva aspettare da lei. Un contrario, intendiamoci bene, di qualità. Ma due romanzi classici, ”romanzeschi”, tradizionali, estremamente godibili e leggibili. Eppure lontanissimi dai modi, dalle mode, dagli stili, dai movimenti che Susan Sontag aveva costeggiato e sostenuto in tutta la sua vita di saggista. Romanzi nati e nutriti dal puro piacere della narrazione, in cui lo stile - impeccabile - si metteva al servizio di una storia romanzesca: quella dell’amore di Lord e Lady Hamilton sullo sfondo di una tumultuosa Napoli settecentesca in L’amante del vulcano; quella di Maryna, un’attrice polacca che va alla conquista dell’America con l’arma dell’utopia, fondando una comunità ideale ad Anaheim in California - e pagandone tutti i prezzi - in In America. Sollecitata a raccontare perché avesse scritto In America, la spiegazione di Susan Sontag era pittoresca e molto personale. Aveva scoperto, diceva, i piaceri del melodramma, perché quando andava all’opera aveva voglia di salire lei stessa in scena a cantare, a incarnare le passioni di quelle storie. E la storia di Maryna Modjeska, del suo tentativo di creare una società utopistica all’interno della società americana, e, fallito l’esperimento, del suo ritorno alle scene, rappresentava per lei il punto di saldatura con il piacere della narrazione pura, ”un modo per comunicare emozioni forti, per dire le cose che non avevo più voglia di dire in forma di saggio”. In realtà il percorso di Maryna avrebbe potuto esser visto - ma Susan negava - anche come il suo percorso, divisa tra ambizioni grandissime e la voglia di comunicare a livello popolare. Così come - l’osservava Pietro Citati in una recensione di L’amante del vulcano - - Susan Sontag assomigliava in fondo a Sir William Hamilton, il marito della bella e vivace Emma, l’ambasciatore britannico a Napoli, il collezionista raffinato che ama il vulcano sotto cui sta il suo palazzo. Gli assomigliava per la sua qualità di collezionista di idee, capace di immettere in un romanzo - che è per dimensioni un romanzone, come i grandi romanzi dell’Ottocento - la cultura e la sapienza, la storia e le storie raccolte in una vita di ricerche intellettuali» (Irene Bignardi, ”la Repubblica” 29/12/2004). «[...] Le piaceva molto sorprendere i suoi lettori e il suo pubblico con battute che diventavano subito definizioni popolari: perfino in Notes on Camp ha inventato una battuta: ”Così cattivo che è buono” e nel saggio contro l’interpretazione lei, considerata la scrittrice più analitica di tutti, ha detto che ”l’analisi critica era coinvolta col potere incantatore e magico dell’arte”. Battute a parte era famosa per il suo interesse multiforme: era una studiosa del balletto e della fotografia, un’attivista appassionata nei problemi dei diritti umani, ma forse ancora più famosa perché aveva divulgato i suoi autori preferiti, Walter Benjamin e Elias Canetti. In Italia era popolarissima, specialmente a Roma, dove aveva diretto una commedia di Pirandello e dove aveva fatto una riduzione cinematografica di una sua commedia. In America aveva diretto in teatro Aspettando Godot di Samuel Beckett; ma ha lavorato per il teatro un po’ in tutto il mondo, per esempio a Sarajevo sotto assedio dove è stata nominata cittadina onoraria. La conoscevamo un po’ tutti, come illustre scrittrice e come irrefrenabile provocatrice. Io ero diventata un po’ sua amica nei due anni in cui è stata presidente del Pen Club americano. In quel periodo c¢era stata una riunione molto polemica perché Norman Mailer aveva voluto nominare presidente un alto funzionario di Stato. Il grosso problema era stato una rottura fra i delegati di Sinistra (come per esempio Kurt Vonnegut) e quelli di Destra (come per esempio Saul Bellow) e i due gruppi facevano lunghi interventi sostenendo ciascuno i suoi punti di vista. I punti di vista di Susan Sontag erano sempre intriganti: pareva che si divertisse a mettere in imbarazzo il suo pubblico. Era diventata molto popolare per esempio la sua definizione del fascismo rosso, la sua idea che tra fascismo e comunismo non c’era poi tanta differenza a causa dell’autorità assoluta che veniva dai loro dittatori. Le sue idee spesso in contrasto con le idee correnti erano basate sul suo attivismo nelle cause dei diritti umani, che venivano divulgate sia dalla sua assidua presenza in tutte le città del mondo quando c’erano dei problemi politici sia dalla sua straordinaria abilità nel fare ritratti di personaggi controversi, per esempio di Antonin Artaud: non si stancava mai di sfidare il pensiero convenzionale. Forse questo piacere le era venuto fin da bambina, figlia di una madre alcolizzata e di un padre convenzionale. Si era sposata con un compagno all’Università di Chicago conosciuto dieci giorni prima, aveva avuto a diciannove anni un figlio (gli aveva ceduto il suo splendido loft con una terrazza), ma dopo nove anni aveva divorziato e non si era più sposata. Quel marito lo avevo conosciuto a Venezia in un bar frequentato da Hemingway. sempre difficile capire le ragioni dei divorzi. anche difficile capire da che cosa nascano le simpatie di uno scrittore per altri scrittori. Per esempio, è strano pensare che Susan Sontag avesse tanta ammirazione per una scrittrice ”difficile” come Djuna Barnes e poi anche per I Miserabili di Victor Hugo: non mi ha mai detto quale dei due libri l’ha fatta ”singhiozzare e gemere” e pensare che fossero scrittori. In generale dei libri pensava che ”leggere un libro era come entrare in uno specchio”; le piaceva anche dire che aveva deciso di diventare uno scrittore da bambina quando aveva letto il Martin Eden di Jack London. In un’intervista della Paris Revue ha detto che leggeva ”in un delirio di esaltazioni letterarie”. Naturalmente leggeva tutte le riviste letterarie del mondo ed era presto diventata amica di Elizabeth Hardwick fondatrice della New York Review of Books di cui è sempre stata una importantissima collaboratrice. [...] le piaceva citare e adottare la celebre frase di Johann Wolfgang von Goethe secondo il quale la cultura consisteva nel ”sapere tutto”. E lei leggeva tutto: le piaceva dire che la principale ragione per cui leggeva era che ”le piaceva leggere”. Un’altra cosa che le piaceva dire era che ha sempre cercato di combattere ”la distinzione tra pensiero e sentimento”, che in realtà è la base di tutti i punti di vista anti-intellettuali. Diceva che ”pensare è una forma di sentimento; e sentimento è una forma di pensiero”. Quando si è accorta di essere malata ha scritto il libro intitolato Malattia come Metafora e, per non contraddire la sua idea che non bisogna essere indulgenti con le proprie malattie, non ne parlava mai. Naturalmente non era favorevole alla guerra in Vietnam e questo l’aveva molto avvicinata a Allen Ginsberg: si frequentavano da vecchi amici in quegli anni del Pen Club. Anch’io in quegli anni andavo sempre con loro nel ristorante dove si svolgeva il convegno, felice come sempre quando potevo ascoltare, diciamo così, ”in libertà”, geni straordinari com’erano loro. [...] Ai suoi oppositori non importava la sua convinzione che ”un romanzo è degno di essere letto quando è un’educazione del cuore”. Le sue massime non finivano mai: come Henry James diceva: ”Non esiste una mia ultima parola su niente”. Ricordiamola con rispetto, con ammirazione e con riconoscenza per le idee che ci ha dato» (Fernanda Pivano, ”Corriere della Sera” 29/12/2004). «Se una grande scrittrice europea della prima metà del Novecento, Colette, si dichiarava troppo interessata alla vita per dedicare alla morte una qualche attenzione, per Susan Sontag, scrittrice americana della seconda metà del secolo scorso, dapprima inconsapevolmente eppoi in modo esplicito, la morte fu il tema cruciale. Possiamo pensare alla Sontag in tre modi. Alla intellettuale newyorchese, dedita alle cause altrui, sempre pronta a gettarsi nella mischia: dal bellissimo Viaggio ad Hanoi del 1968 a Davanti al dolore degli altri del 2003, le testimonianze in tal senso sono eloquenti. Quando la Sontag andò a Sarajevo, e mise in scena Aspettando Godot di Beckett sotto le bombe, si pensò a lei come ad una reincarnazione di Hemingway. C’è poi la scrittrice dei racconti e romanzi: dai primi (Io eccetera) piuttosto impersonali, quasi esercizi di stile, fino ai due romanzi maggiori, Il kit della morte (nel quale la cecità acquista valore di metafora ma anche di contrappeso della stessa morte) e L’amante del vulcano, un romanzo-romanzo, un romanzo storico, una storia d’amore (ambientata a Napoli, al tempo dell’ammiraglio Nelson). In entrambi tuttavia si osserva un elemento programmatico, volontaristico, quasi provocatorio. La Sontag significativa è la terza. La incontrammo nel lontano 1967. Era una Medusa rossa Mondadori, intitolata Contro l’interpretazione. uno dei suoi grandi libri. Gli altri tre sono, a mio parere, Sotto il segno di Saturno del 1982, Sulla fotografia del 1977 e La malattia come metafora del 1979. Nei primi due la Sontag mostra un volto nuovo dell’America, che prima della guerra s’era intravisto in Henry Miller: un’autentica passione intellettuale per il vecchio mondo, dell’Europa, per la tradizione umanistica. In tal senso, mentre educava i suoi concittadini, la Sontag era sempre all’avanguardia, anche rispetto a noi europei. A differenza di un altro grande saggista americano, Gore Vidal, che viveva in Italia ma guardava all’America, la Sontag scopriva o riscopriva Simone Weil, Leiris, Artaud, Genet, Resnais, Godard, Bresson, lo Happening, il Camp, Syberberg, Barthes, il ”fascino fascista”. Vorrei dire che il suo rifiuto dell’interpretazione era un salutare rifiuto della ”morte”. Metto questa parola tra virgolette, perché essa si presentava come metafora. Ciò che la Sontag rifiutava in modo manifesto, secondo le urgenze culturali di quegli anni, era, della tradizione umanistica, il suo peso. Si trattava di un contributo, tra i tanti, alla denaturalizzazione del mondo degli oggetti, fino a quelli estetici. Gli uomini avevano con essi convissuto come elementi naturali. Quando all’improvviso ci si accorse che erano divenuti troppi, e troppo ingombranti, fu necessario prendere le distanze. Poi la morte, come metafora, sotto il segno della malattia, entrò con prepotenza nella vita di Susan Sontag. Tutto si rovesciò. Fu necessario ricominciare da capo. La scrittrice americana si ammalò e guarì. Ma sostenne una lotta. Il rifiuto dell’interpretazione non bastava più. La lotta fu precisamente una lotta dell’interpretazione. Che differenza c’è tra morire per infarto e morire per cancro? Che cos’è il tempo e che cosa l’eternità (o l’istante, come si manifesta nella fotografia)? ”Io intendo”, disse la Sontag, ”descrivere non la realtà del regno della malattia e del viverci, ma le fantasie punitive o sentimentali inventate su questa situazione”. Questa descrizione, accanita, dolente, è il sigillo della sua opera; ne testimonia l’altezza» (Franco Cordelli, ”Corriere della Sera” 29/12/2004). « una delle poche persone del nostro tempo di cui si possa dire come un complimento: intellettuale. Critica della letteratura e della società, regista teatrale e cinematografica (il suo film Unguided tour del 1983 è stato realizzato in Italia), drammaturga, questa ”americana inquieta” ha fatto di se stessa un work in progress. Forse ultimo esemplare della razza novecentesca oggi in estinzione dello scrittore impegnato, con un occhio rivolto alla filosofia e l’altro alla cultura popolare, ha esplorato ogni campo della scrittura e del sapere, ponendo sempre al centro di ogni suo libro l’avventura del pensiero e il mistero della conoscenza, l’ironia e l’intelligenza, il nostro presente alienato e perverso. ”Lo scrittore - ha dichiarato una volta - è qualcuno che si interessa di tutto”. [...] Era stata la sacerdotessa inquietante delle avanguardie americane degli anni ’60 e della nascente cultura pop, inventando parole e definizioni che sono entrate nel lessico comune. E’ ormai imprescindibile il suo saggio Sulla fotografia, uno dei primi a riflettere sul significato della rappresentazione visiva in una società che si sarebbe votata alla dittatura dell’immagine. Ha scritto saggi sulla pornografia e su autori europei come Benjamin, Canetti, Artaud e Barthes, sul cancro e sull’aids testimoniando che il dolore non deve averla vinta, che anche la più personale delle disgrazie può illuminare la condizione umana. Ma ha scritto anche racconti e romanzi passando dagli sperimentali Il benefattore e Il kit della morte a L’amante del vulcano (protagonisti l’ammiraglio Nelson e la sua amante nella Napoli in fermento di fine ’700), e In America (ambientato tra gli immigrati polacchi nella California dell’800), correndo il rischio di scrivere romanzi storici apparentemente tradizionali. Nella illusoria lontananza del passato e nella libertà espressiva della narrativa trova forse la strada di una rinascita, ma nel 1993 non esita a interrompere la stesura del suo romanzo più personale - In America, appunto - per correre nella Sarajevo assediata e dirigere sotto i bombardamenti Aspettando Godot . Dopo l’11 settembre la sua è stata una delle poche voci a levarsi al di là del pianto, per interrogarsi sul senso della tragedia americana delle Due Torri. Esponendosi di persona in tutte le battaglie, ha segnato quarant’anni della cultura occidentale, cogliendo misteriosamente lo spirito del tempo, e finendo per divenirne con la sua bellezza sgualcita lei stessa un’icona. ”Se la letteratura mi ha coinvolto, prima come lettrice e poi come scrittrice - ha scritto una volta - è perché è un’estensione della mia affinità e della mia comprensione verso altri regni, altri sogni, altre parole, altri territori"» (Melania Mazzucco, ”Il Messaggero” 9/6/2003). «Da bambina amavo i libri di viaggio e mi piaceva sentirmi altrove. I miei genitori vivevano anche all’estero. Volevo essere sempre lontano. Quando sono in Europa – e da adulta ho vissuto più della metà della mia vita nel vecchio continente – talvolta mi vedo lì come un’americana […] Essere scrittori siginifica alternare periodi di completa immedesimazione e solitudine e periodi di partecipazione attiva. Sono convinta che la cosiddetta scrittura che rimarrà viene scritta in solitudine […] Farà ridere ma ho scritto molto a Bari, dove ho vissuto a lungo, a casa del mio traduttore, che è un amico. Adoro quella città dove trascorro due mesi l’anno […] Vesto sempre di nero perché vivo in Down Town Manhattan e credo ci si vesta così perché è attraente e conveniente […] Voglio essere in contatto con più realtà possibili. Mi piace la realtà che non è la mia. Non ho molti soldi ma ne ho moltissimi rispetto alla gran parte della gente del pianeta. troppo facile vivere nel piccolo cerchio dei propri privilegi. Diventare vecchio se non si fa attenzione è anche un modo di ritornare piccoli. Io, invece, voglio viaggiare e vedere […] Non amo particolarmente essere un’americana. Sarà forse uno snobismo: sono uno scrittore americano, certo, ma molti autori stranieri sono più importanti per me […] Sono felice di essere una scrittrice e basta […] Scrivo intensamente, ma a sprazzi. Non penso di doverlo fare ogni giorno, ma ammiro chi lo sa fare. Ho scritto quindici libri e avrei potuto scriverne quaranta, ma credo in quello che resta, e nel giudizio della posterità. Noin penso sia importante scrivere molti libri. Poi amo leggere» (Alain Elkann, ”La Stampa” 28/1/2001).