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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

Sordi Alberto

• Roma 15 giugno 1920, Roma 24 febbraio 2003. Attore. «Romano di Trastevere, nasce da Pietro bassotuba al teatro dell’opera, e da Maria maestra. Un fratello e due sorelle. La devozione ai genitori, lungo una vita che non ha conosciuto una famiglia propria, resta inalterata. E si estende a tante figure più anziane: Vittorio De Sica. Ma anche l’amata Andreina Pagnani, futura ”signora Maigret”. Di strada, prima del cinema, ne aveva già percorsa tanta. Spinto dalla naturale vocazione a esibirsi - riscatto dalla probabile destinazione a un grigio impiego? - non si lascia vincere dalla sfiducia accademica verso l’invincibile accento. Crede in se stesso, e di un limite inaccettabile (una scuola di teatro lo mette alla porta) riuscirà a fare un punto di forza. Così come di un senso dell’umorismo inattuale e incomprensibile prima che il Neorealismo facesse irrompere la violenza della realtà comune, e con lui meschina e mediocre, nell’asettico apartheid dell’intrattenimento. Mette piede su un set come comparsa di Scipione l’Africano, monumento alla romanità mussoliniana il cui ricordo sarà in vecchiaia velato dalla nostalgia per gli anni giovanili. Anche se ha sempre rivendicato la propria autorialità enfatizzandola fino a fare a meno dei registi, alcuni incontri hanno rivestito un’importanza eccezionale. Il primo è De Sica. lui a muovere i fili del filmetto in cui Alberto è per la prima volta protagonista: Mamma mia che impressione (1951). Dove è un petulante boy scout che allude pesantemente al clericalismo trionfante. La sua, malgrado dovesse apparire così inizialmente, non è comicità astratta: trae ispirazione dalla vita, dagli umori e dai comportamenti contemporanei. Osservati con imparzialità: dal piccolo crociato dell’Azione Cattolica (vicino alla sua sensibilità personale) al partigiano comunista di Una vita difficile (lontanissimo). Non a caso si è sempre percepito come partecipe - coinventore, e divulgatore - della famiglia neorealista. Il secondo incontro è con il coetaneo Fellini, conosciuto con Giulietta prima del loro matrimonio di guerra: Lo sceicco bianco e I vitelloni (’52 e ”53) che farà da modello a una serie infinita di variazioni sul tema. La cui bandiera resterà il gesto di Alberto mano-avambraccio. Nello stesso 1953 - terzo incontro, Steno - nasce in sordina il più famoso dei suoi personaggi. Fortunato al punto da guadagnargli le chiavi della città di Kansas City dal presidente Truman. Nando Moriconi ”americano del Kansas City” non nasce con Un americano a Roma (1954) ma un anno prima dal film a episodi Un giorno in pretura. […] Con Il seduttore si apre una decennale galleria di personaggi inediti nel curriculum del cinema comico. Si verifica uno strappo dai cordoni ombelicali del teatro leggero, della farsa e della comicità vernacolare, i cui campioni sono stati Fabrizi, Totò, i De Filippo. Imborghesimento dei personaggi, normalizzazione dei loro comportamenti: né eccessivi né popolareschi, ma realistici. Il film comico sta diventando commedia, sta nascendo la commedia all’italiana. E Sordi inventa la storia di un italiano medio in compagnia degli sceneggiatori Sonego, Scola e Maccari, Age e Scarpelli, Benvenuti e De Bernardi. Con i registi Franco Rossi (Il seduttore), Pietrangeli (Lo scapolo), Loy e Puccini (Il marito), Risi (Il vedovo), Zampa (Il vigile), Comencini (Il commissario). Si sottopone a un superlavoro incredibile, ma anche quando si tratta di filmetti l’effetto-Totò si va amplificando: è l’unico con il Principe che riesca nell’impresa di rendere godibile all’infinito ogni performance. Uno per tutti, tra il ´55 e il ´59: Arrivano i dollari che vale solo per quel ”tiè, magnete er pappone”. Il 1959 è decisivo. L’attore è prossimo ai 40 anni e li celebrerà alla grande. Lo aspetta una trilogia capitale: La grande guerra (Monicelli), Tutti a casa (Comencini), Una vita difficile (Risi). L’ulteriore passo verso l’età adulta della commedia, che farà perno intorno all’attore meno politicizzato di tutti spingendo il genere fino a un passo dal dramma, è indicato da Monicelli. La sua audacia si manifesta nel collocare alla pari due attori, lui e Gassman, di primissimo piano. Si favoleggia di insofferenza reciproca, ma quel che conta è il risultato: magico. Tutti a casa e Una vita difficile – l’8 settembre e il ventennio successivo fino al ”boom” completano un’ideale storia del Novecento italiano rivisitata - pestano sul pedale che forza la sua immagine di uomo qualunque verso la catarsi eroica. Il finale del fante romano Jacovacci che si sacrifica accanto al compagno Busacca trova seguito nel tenente Innocenzi che imbraccia la mitragliatrice contro l’invasore nazista. E compimento nella ritrovata dignità dell’ex giornalista comunista Magnozzi quando stende con un ceffone il ”commendatore” (Rizzoli?) che lo ha comprato e mortificato. Le battute entrano nel lessico di milioni di italiani. Il paese è a una svolta. Mentre la pagina del ”miracolo” si è sostituita a quella della ”ricostruzione”, sta per concludersi l’epoca del centrismo dominato dalla Dc dopo il trionfo del ”48, e le porte del potere stanno per aprirsi ai socialisti di Nenni che con Moro e Fanfani incarnerà il primo centrosinistra. Il cinema è termometro del tempo che cambia e la commedia ancora di più. Quella di costume e di satira contemporanea (Sorpasso, Mostri, Divorzio all’italiana) e quella che ripassa la storia recente in chiave antifascista. All’insegna di una cultura resistenziale riabilitata dopo l’oscuramento degli anni 50. Raggiunge il picco massimo del valore di botteghino. Molti ruoli dei film più famosi dell’epoca aurea sono sfiorati dalla sua candidatura prima di passare ad altri (per suo rifiuto): Divorzio all’italiana, I mostri, Il sorpasso. Dopo aver versato il suo obolo alla moda dei film a episodi (I complessi nel famoso sketch di Guglielmo il dentone), la prossima svolta. Sordi comincia a pensare alla regia e all’esportazione del proprio marchio. Ha annusato che lo spirito del decennio sta per essere invaso dagli umori giovanili londinesi, dalla rivoluzione sessuale. Ed ecco Il diavolo (´63) e, diretto per la prima volta da lui, Fumo di Londra (´66). Instancabile nel tenere insieme conservatorismo e antenne sintonizzate sull’aria che tira, anche per Sordi ci sarà un ’68. E un cinema di denuncia: Il medico della mutua (di Zampa), Riusciranno i nostri eroi (di Scola), Detenuto in attesa di giudizio (Nanni Loy), Finché c’è guerra c’è speranza (suo). Si comincia a notare qualche perdita di colpi - che Albertone para cominciando a metter mano all’automonumento antologico della televisiva Storia di un italiano - senza impedirci di ammirare gli ancora fitti episodi di enorme successo. A partire da un nuovo incontro, quello con Gigi Magni. Sul comune terreno della romanità i due fanno scintille: Nell’anno del signore (1969). In Lo scopone scientifico di Comencini (1972) si trova accanto all´attrice e alla donna che più ha amato nella sua vita: Silvana Mangano. Polvere di stelle (1973) è la malinconica celebrazione dei fasti dell’avanspettacolo e il punto di massima armonia con Monica Vitti. Infine l’ultima svolta, e l’ultimo grande ruolo. Nel 1977 è lui, con lo stesso regista che vent’anni prima aveva aperto le danze, a mettere la parola fine alla gloriosa storia del genere cinematografico italiano per eccellenza. Un borghese piccolo piccolo di Monicelli. La morale è che non c’è più niente da ridere. L’anno seguente sarà quello del rapimento e dell’assassinio di Aldo Moro e della sua scorta. Gli spettatori degli anni Ottanta e Novanta hanno conosciuto un Sordi meno incisivo. Che con la ”partecipazione straordinaria” di Giulio Andreotti al manifesto qualunquista del Tassinaro ha per la prima volta scoperto le carte delle sue simpatie politiche. Tema che, con quello della vita sentimentale, con quello della fede e con quello di un riservatissimo impegno in opere di bene, ha sempre gelosamente tenuto per sé. Un Sordi votato a cantare la senilità nella favola amara del vetturino Nestore. Che offre un ultimo guizzo nel cupo Romanzo di un giovane povero di Scola. Che non ha figli biologici ma una caterva di figli artistici e indica in Carlo Verdone il suo erede: In viaggio con papà (1982, di Sordi) e Troppo forte (1986, di Verdone). Ma se questa generazione l’ha subissato di critiche (Nanni Moretti: ”ve lo meritate Alberto Sordi!”) le tracce di un indiscutibile ”sono tutti suoi figli” le potete rintracciare nel dna di tutti gli attori romani ma anche in Abatantuono. Mai ha smesso di concedersi con generosità. Consapevole di quanto aveva dato e pronto a canzonarsi su tutti i vizi - avarizia, misoginia, clericalismo - attribuiti dalla leggenda. Ma non sull’essere simbolo del piccolo uomo medio e comune, fino alla fine rivendicato con orgoglio» (Paolo D’Agostini, ”la Repubblica” 26/2/2003). «Fu un miracolo, la fede o un debutto? A quattro anni, investito da un’auto, rimase incolume. Le donne di Trastevere lo misero su un altare. Qui comincia l’avventura dell’attore che più di ogni altro, in oltre 150 film da lui tutti amorosamente conservati, dal ”38 al ”98 ha raccontato la storia d’Italia con una serie di non-eroi che rispecchiano l’Italia media e mediocre passata dal fascismo all’era democristiana con innato senso dell’ossequio. Tantissimi film e un rimpianto: non essere mai stato candidato dall’Italia agli Oscar. […] Figlio non modello, a 10 anni lavora nel teatro delle marionette, mangia cinema tutto il giorno, corregge il romanesco con l’italiano del doppiaggio. Ma verrà cacciato, per la pronuncia, dalla milanese Accademia dei Filodrammatici, che gli darà un diploma ad honorem solo pochi anni fa. A 16 anni incide un disco di fiabe a Milano, a 17, nell’ordine, fa la prima comparsata (Scipione l’Africano), s’innamora della Valli, vince il concorso MGM per dar la voce a Oliver Hardy, suo primo cavallo di battaglia teatrale come Albert Odisor. Nel profondo Nord, ingoiando nebbia e abbronzandosi sotto le luci del varietà, è boy-stile nell’avanspettacolo nei fumosi teatri del dopoguerra, macina polvere di stelle con Nanda Primavera, soubrette e primo amore, sostituita poi da Andreina Pagnani. Da un palco romano con Fanfulla, nel ”43, fa gli auguri a due sposini in sala, Federico e Giulietta Fellini. Passa la guerra, Sordi fa la rivista di Za Bum, nel ”45 recita con Garinei e Giovannini in Soffia so, e lo sketch del balilla provoca tumulti in sala. Il destino sulla passerella si conclude nel ”52: Alberto fa ditta con Wanda Osiris in Gran Baraonda, smitizzando e importunando la soubrette con uno sketch. Nel primo tempo della sua carriera Sordi porta in dote un carattere lunare e cinico, uccide le vecchiette, inventa il Compagnuccio della parrocchietta, prototipo il boy scout cattolico, il conte Claro e Mario Pio (un vero dirigente della Rai di allora), best seller radiofonici che trasferirà senza successo nel film Mamma mia che impressione, prodotto da De Sica. Continua a doppiare: è la voce di Mitchum, Mature, Quinn, del giovane Mastroianni. Fellini fu il primo a dargli fiducia con Lo sceicco bianco (’52), ma quando lo riscritturò per I vitelloni i produttori non vollero neppure il suo nome sui manifesti, cambiando velocemente idea quando il trionfo a Venezia con la scena cult dei ”lavoratori...”, lo rende immediatamente popolare. Inizia qui la storia di un italiano, secondo il collage tv dei suoi film, la storia di un attore che costruì metodicamente la sua carriera, arrivando negli Anni 50 a interpretare anche 12 titoli all’anno, compresi alcuni film da spiaggia, da Costa Azzurra a Palma di Majorca, trasferendosi da un set all’altro, cambiandosi in macchina. L’arte di arrangiarsi, appunto. Il primo Sordi di culto è quello firmato Steno in Un americano a Roma, il leggendario Nando Moriconi infatuato degli States, che sfida gli spaghetti e il vino in nome del fast food: gli americani, prendendolo sul serio, gli danno la cittadinanza onoraria. I prototipi sono italiani medi: dal Seduttore allo Scapolo, dal Marito al Vedovo ( celebre ”cretinetti” di Franca Valeri), dall’ipocrisia del Moralista al servilismo del Vigile, fino al bellissimo Il diavolo. Una summa dei vizi italici, compreso i Magliari, ruolo drammatico offertogli da Rosi. Le sue partner sono la Pampanini e l’amica Mangano, la giovane Bardot e la vecchia Swanson, la Loren- Cleopatra, la grande Franca Valeri e la spiritosa Monica Vitti, complici e partner che hanno condiviso il suo tempismo comico. I suoi registi sono i migliori della commedia, da Scola a Risi, da Zampa a Monicelli, da Lattuada a Comencini, da Loy a Pietrangeli, da Polidoro a De Sica che lo vede fuori sincrono come industriale che si vende un occhio nel bellissimo Il Boom e perfido mercante di bambini nel Giudizio universale, fino a Tonino Cervi che l’ha coniugato con gli avari e i malati immaginari di Moliére. Contratto per due film di successo l’anno, scadenza fissa Natale e Pasqua, con De Laurentiis: nascono i capolavori, lo sguardo interrogativo dell’attore incide a vista sulla coscienza collettiva. Indimenticabili personaggi: La grande guerra di Monicelli, Tutti a casa di Comencini, Una vita difficile di Risi sono i momenti memorabili di quegli anni, il puzzle di una storia d’Italia i cui nodi vengono al pettine, vista da registi a sinistra con un attore al centro in un’Italia a destra. Verranno gli Anni 60 con il cinema a sketch, ed anche qui Sordi offre del suo meglio grottesco: Guglielmo il dentone, il giornalista tv, i coatti in vacanza in Sardegna nelle Coppie, il mini capolavoro dello snobismo vip contro i fruttaroli romani di Dove vai in vacanza?, il gorilla in Di che segno sei? Nel ”66 Sordi, sempre con i suoi fedelissimi, lo sceneggiatore Rodolfo Sònego e il musicista Piero Piccioni, decide di dirigersi da solo e inizia a viaggiare con l’indovinato Fumo di Londra. Continua toccando i temi caldi del Paese, vantandosi di averli anticipati: dal dibattito sul divorzio (Scusi, lei è favorevole o contrario?) al senso del pudore, dal traffico di armi (Finché c’è guerra c’è speranza) alla tecnologia casalinga (Io e Caterina), dalla crisi della famiglia ( Amore mio aiutami con la Vitti) fino a Tutti dentro , in cui prevede Tangentopoli e Di Pietro. I 60 si chiudono con lo stratosferico successo del Medico della mutua di Zampa, che artiglia un nodo della nostra società ancora alla ribalta della cronaca. Come regista il suo film più indovinato è l’autobiografico Polvere di stelle, amarcord del varietà in passerella con la Vitti, una compagnia scalcinata in viaggio nell’Italia in guerra. Insieme con La più bella serata della mia vita e Bello onesto emigrato Australia, Detenuto in attesa di giudizio di Loy, Lo scopone scientifico di Comencini e Un borghese piccolo piccolo di Monicelli, storia di un piccolo borghese giustiziere della notte, sono i grandi film dei 70, a polemica accesa. Con le ultime prove, sempre più raffinate, come Il Marchese del Grillo, Sordi entra nella terza età, passa il testimonial all’erede Verdone, giocando ai grandi vecchi con Blier in Una botta di vita, facendo il vetturino sentimentale in Nestore e innamorandosi della Marini in Incontri proibiti» (Maurizio Porro, ”Corriere della Sera” 26/2/2003). «Rappresenta nell’immaginario medio italiano la proiezione catartica della sua quotidianità: la galleria di personaggi che ha portato sullo schermo in più di mezzo secolo di attività sono i caratteri di una grande commedia all’italiana, nella quale il guizzo dell’intelligenza e il gusto dell’ironia propri dell’attore, si sono spalmati nei quadri di vita che ha mimato». Con queste motivazioni il Rettore dell’Università IULM di Milano Giovanni Puglisi gli ha conferito il 12 marzo 2001 la laurea honoris causa. «Gusto dell’ironia e ironia del gusto: è all’incrocio di queste coordinate che si iscrivono la fortuna artistica e la popolarità umana di questo grande interprete della nostra vita e della nostra società». «Per tutta la carriera ho ”comunicato”, senza moralismi, un italiano in cui ci si può identificare, che può uscire ed entrare da un documento storico, anche se ho lavorato con la fantasia, i film, le storie e molti personaggi. Ma non ho mai impersonato uno straniero o qualcuno di realmente esistito. Perciò ho rifiutato offerte anche di Billy Wilder, non potevo diventare un americano, anche se ebbi poi la cittadinanza del Texas» (’Corriere della Sera” 8/3/2002). «L’ultimo grande divo italiano: ”Sono più che soddisfatto di quello che ho fatto. […] Ho recitato in 190 film, e non trovo un personaggio che io non abbia interpretato. […] Ho avuto la fortuna di interpretare personaggi sempre anagraficamente coerenti alla mia età. […] ”De Laurentiis svenne due volte, quando dissi di no a Billy Wilder, che mi chiese di fare un film con lui. Ma io volevo recitare gli italiani, raccontare l’Italia”. L’ha fatto in maniera impareggiabile» (Brunella Torresin, ”la Repubblica” 25/7/2002). «Tra i grandi comici italiani del Novecento lui è stato quello che più e meglio di tutti ha simboleggiato il carattere del paese. Non a caso la sua immensa produzione cinematografica, la sua opera omnia fu definita ”storia d’un italiano” poiché ha materializzato in personaggi, situazioni e storie una condizione umana tipicamente e inconfondibilmente nostra, composta da una mescolanza di difetti dai quali emerge poco meno che una etnia: familismo, sbruffoneria, furbizia, misoginia, vittimismo, bugie e soprattutto viltà, viltà fisica e morale. Ho detto attore comico ma in realtà quell’aggettivo gli fa torto, ne limita la dimensione perché Alberto Sordi è stato un grandissimo attore, forse il maggiore se si eccettua Eduardo. Con la differenza che Eduardo non ha mai riso, né sulla scena né, ch’io sappia, nella vita, mentre Sordi ha riso sempre, in qualunque ruolo e quasi dopo ogni frase, come se la risata fosse un’interpunzione, una virgola che serve a dividere un periodo dall’altro demitizzando il tragico, allontanandolo, esorcizzandolo. Oppure segnandone la presenza con uno sberleffo, un tentativo di accattivarselo e renderlo inoffensivo. Simbolo d’un paese ma soprattutto di Roma o, se volete, d’un paese visto attraverso una lente romana, d’una Roma papalina, quella di un Gregorio XVI […] Mi sono spesso chiesto - avendo per lui un’incondizionata ammirazione - se usasse il suo personaggio di italiano come una frusta ferocemente satirica oppure se vi aderisse senza essere consapevole della drammaticità di quel ritratto che ha impietosamente raffigurato nell’arco di sessanta lunghi anni, dai tempi dell’avanspettacolo, delle prime e felicissime macchiette radiofoniche dei compagnucci della parrocchietta, alla fase felliniana dello Sceicco bianco e dei Vitelloni che rivelarono la sua piena maturazione di grande attore, fino alla Grande guerra di Monicelli e a tutta la lunghissima serie della commedia italiana. Una volta, una sola volta sono riuscito a domandarglielo direttamente. Tornavamo da Parma a Roma in un piccolo aereo privato messo a sua disposizione da Pietro Barilla di cui si era festeggiato l’ottantesimo compleanno. L’occasione era propizia per chiarire un punto essenziale che sintetizzai con un dilemma che a me sembrava inevadibile: ”Insomma - gli dissi - lei è così o ci fa?”. Non mi parve affatto contento d’esser stato stretto in angolo da quella domanda e infatti se ne liberò facilmente con la sua prevedibile risata, un po’ troppo automatica, un po’ troppo metallica per esser presa per buona. Poi tergiversò, parlò dell’attore, della sua necessaria dedizione e identificazione con il personaggio cui di volta in volta deve prestare il volto, la voce, lo sguardo e insomma tutto se stesso, senza distacco né riserve. ”Ma nella vita?” insistetti. ”La mia vita è quella” rispose e cambiò discorso rapidamente domandando lui a me come andavano le cose italiane. Intendeva le cose politiche ed anche quelle economiche che lo interessavano in modo speciale. Ascoltò le poche e generiche frasi che normalmente ci si scambia in simili circostanze e poi ne tirò fuori la sua conclusione: ”Bisognerebbe che tutti ci volessimo più bene e ci ricordassimo che in fondo siamo tutti italiani”. Su questa risposta mi arrivò negli occhi un ricordo fulminante, una scena del suo film Polvere di stelle quando alla fine di un’infelice tournée lui, capocomico d’una sbandata compagnia, tenta di pagare il conto dell’albergo con un assegno naturalmente scoperto e all’albergatore che lo rifiuta reagisce gridando: ”Si vergogni, un po’ di comprensione, in fondo siamo tutti italiani che diavolo!” . Ma poiché era stato lui a portarmi sulla politica, mentre l’aereo stava atterrando sul campo di Ciampino gli chiesi a bruciapelo: ”Sordi, qual è l’uomo politico che preferisce?” arrivò la sua risata breve e, tra due virgole di risate, rispose: ”Andreotti è il più grande di tutti” risata e pausa. Poi, abbassando la voce quasi fosse in confessionale: ”Berlinguer mi piace, come uomo naturalmente, non come politico”. Imprendibile, Alberto Sordi; incorruttibile. Ricordate quando, nello Sceicco bianco, per sedurre la ragazza che ha portato in barca e creare un ambiente romantico indica il cielo sopra di loro con un ”an vedi er gabbiano?”. E quando, nei Vitelloni superando in auto un gruppo di scioperanti con i suoi amici di baldoria riminese, li apostrofa col segno dell’ombrello e un ”lavoratori!” seguito da una sonora pernacchia? Questo è il grande Sordi di genere. Ma poi c’è il Sordi di razza, quello che piange sul dolore della mamma e il grandissimo Sordi della Grande Guerra il fante in fuga che cerca di scampare alla morte ma alla fine le va quasi incontro per l’insopportabilità dell’umiliazione impostagli dall’ufficiale nemico. L’attore può avere una vita propria al di fuori e al di là dei suoi personaggi? O quella sua vita propria è sempre e soltanto funzione della mimesi scenica? Avessi pronunciato la parola mimesi con Sordi, la sua risata leggera mi sarebbe arrivata in faccia come uno schiaffo» (Eugenio Scalfari, ”la Repubblica” 26/2/2003). «Ci era o ci faceva? - è una domanda, badate bene, di popolo e di intellettuali, la stessa che si pongono il tassinaro e il critico, l’abbonato Rai e il cinefilo: solo i grandi artisti hanno il privilegio di lasciare lo stesso segno nei mercati e nei salotti, negli androni e sui libri. Quello sguardo impunito, quella giovinezza frescona e allegra, quel disincanto mezzo cinico mezzo intelligente, quel democristianismo insieme comodo e cordiale, sono stati il simbolo di un Tipo Italiano che non ha avuto eguali, ad alta, altissima definizione psicologica: l’italiano alla Alberto Sordi. Il problema è che Sordi, quel tipo, lo incarnava e lo scarnificava al tempo stesso. Lo consacrava e lo dissacrava. Stava perfettamente a cavallo tra la denuncia e il compiacimento, tra l’introspezione e l’assoluzione. Era - come la vera comicità è spesso - irresistibilmente ambiguo: perché il difetto denunciato, il vizio sviscerato erano anche la chiave della seduzione, la ragione dell’applauso. L´’obesità di Oliver Hardy, o la fissità quasi ebete di Keaton, sono deformità che diventano chance, infelicità sdoganate per la consolazione degli infelici. Se i comici sono soprattutto mostri, il capolavoro di Sordi fu riuscire a essere il mostro della normalità italiana, dell’opportunismo smagato, dell’incapacità congenita di appartenere a un campo ideale, a una socialità condivisa. Un mostro familiare, un mostro nostro, così nei suoi panni quando era nei panni ruffiani dell’italiano che tira a campare (dunque: ci era), così spietato e lucido quando usava materiali così deplorevoli, tare così irrimediabili per farci ridere (dunque, ci faceva). Impossibile dire quanto amasse i suoi mostri, quanta indulgenza e quanta severità suscitassero, nell’uomo Sordi, le orribili (perché erano veramente orribili) immoralità dei suoi medici della mutua, trafficanti di orfani, praticoni senza scrupoli. Avrebbe senso, del resto, chiedersi se Hardy avrebbe voluto essere magro e bello...? Impossibile, anche, indovinare nella persona eventuali scompensi e rimorsi, rispetto al suo Tipo Italiano. Se siamo assolutamente certi del suo prodigioso talento comico, non siamo altrettanto sicuri che Sordi avesse anche moralità satirica, e cioè intendesse castigare i costumi perché avrebbe voluto cambiarli, come usa la satira. Politicamente conservatore, non erano certo l’irritazione o lo spaesamento a muovere il suo sguardo comico: era semmai una compiaciuta familiarità con l’oggetto della sua arte, l’italianità popolare e piccoloborghese sempre sopravvivente, vitale e profittatrice, febbrile e patetica. Eppure, anche se Sordi fu sospettabile di una affettuosa complicità con i suoi mostri, c’è nei suoi film migliori una strepitosa, sfrenata ferocia: come nessun ”nuovo cinema italiano”, anche politicizzato, anche intellettualmente munito, è mai riuscito a rinnovare quando ha cercato di colpire al cuore i vizi sociali più recenti. Forse la misteriosa grandezza di Alberto Sordi sta proprio in questa estrema compromissione con il mostruoso italiano. Nessuno straniamento, niente sguardi ”da fuori”, solo un’allegra, totale promiscuità con la genia d’origine, ascoltata e riferita con la potenza e la credibilità di uno che appartiene alla stessa storia che ha deciso di raccontare. Sordi avrebbe potuto essere uno del suo pubblico, all’Ambra Jovinelli come nei cinematografi popolari che non esistono più, un romano sfrontato e spiritoso che non avrebbe mai cambiato vita o città o humus o animo, molto poco suggestionabile nel bene e nel male, magari governativo per pigrizia (chissà se votava Berlusconi), magari però poco abbindolabile, sempre per pigrizia, dalle mode facili, dalle nuove credulità di massa (chissà se votava Berlusconi). Quello che resta, del suo cinema, è soprattutto la facilità e la felicità di calarsi nel groppo vischioso e magari sgradevole dell’antropologia popolare, senza mai dare l’impressione del giudizio cilioso ed estraneo. Una lezione condivisa con i registi e gli sceneggiatori dei suoi anni ruggenti, che furono anche gli anni ruggenti del nostro grande cinema popolare. Difficile fare gli italiani senza sporcarsi, contaminarsi, infine senza assomigliare a questo popolo spregevole e intelligente, disincantato e vitale» (Michele Serra, ”la Repubblica” 26/2/2003). «Ci piaceva perché ci compiacciamo, e non ci piaceva perché non ci piacciamo. In ogni personaggio di Alberto Sordi, amatissimo gestore del luogo comune e della retorica nazionale, c’è il nostro destino più goffo. Di sicuro c’è Sordi nei nostri ospedali, dove il dottor Tersilli, con una marcetta per colonna sonora, continua a ricoverare i sani a pagamento e a mandare a casa i malati senza soldi. C’è Sordi a Montecitorio, in ogni onorevole spocchioso e sospettabile di corruzione. […] Con tutti i suoi film, ha incarnato, come nessun altro, l’antropologia italiana della rinuncia, la stessa del nostro calcio sconfitto dalle Coree, la stessa della nostra lunga e terribile storia militare, da Lissa a Caporetto. Sordi ha trasfigurato in spettacolo il carattere irresoluto e furbastro che è dei Trapattoni e che fu dei Badoglio, ha trasformato in cinema la paura privata e la sguaiatezza pubblica di un popolo, quella stessa che solo sul palcoscenico diventa polvere di stelle. Difatti Sordi è anche la prova che non basta una risata per guarire da se stessi. Ancora oggi noi siamo, con lui, la parodia e la smorfia dell’americano, pasticcio e prodigio maccheronico goliardico, masticatura malinconica di una modernità dalla quale mostriamo la distanza orecchiando e storpiando lingue e costumi. I Nando Moriconi di ieri sono i pretesi kennediani di oggi, e sono anche quelli che riducono una cultura nobile come l’Atlantismo all’eccitazione dinanzi alla bandiera, all’emozione di ascoltare la canzone ”New York New York”: uatzamerican. Ebbene, questo uatzamerican di Sordi a Roma è come il noio di Totò e Peppino a Milano, espressioni di subalternità e di estraneità: dell’italiano dall’Italiano e del filoamericano dall’America. Persino quando il pericolo, la morte o la più terribile delle disgrazie, quella dell’eroismo, ci prendono in contropiede, allora noi diventiamo il Sordi soldato della Grande Guerra, che muore senza tradire, o il Sordi padre e borghese piccolo piccolo che surroga la giustizia e si mette a sparare. Perché sempre l’aspetto tragico della commedia italiana viene fuori nell’inaspettato confronto con i bravi di don Rodrigo, quando don Abbondio ”non potendo schivare il pericolo vi corse incontro”. difficile incontrare un italiano anglofilo, uno dei tanti, e non ritrovarvi il Sordi di Fumo di Londra, non sorridere e al tempo stesso non immalinconirsi e non irritarsi dinanzi alla sfrontatezza del posticcio, alla bombetta indossata come una maschera, alla lingua esibita come il suono di una distinzione sociale. Capita, sempre e dovunque, di incontrarne qualcuno, per strada, in tv, nelle università e nei giornali: sono gli italiani camuffati da inglesi che ovviamente mai somigliano agli inglesi, ma sono i soli che, su un ponte di Londra, proprio come nel film, piacciono agli altri italiani: ”Ecco finalmente un vero inglese, fammi una foto con lui”. Allo stesso modo gli italiani, con Sordi, fanno ancora il ridicolo saltello del goffo disinvolto che nasconde la pancetta in un respiro, e si rifugiano nel tono gradasso e nelle invettive sentenziose, ma sono pavidi e solo in fondo, ma molto in fondo, sono di buon cuore. Infine gli italiani di Sordi non sono, come vorrebbe l’onorevole Speroni, ”er core de Roma”. Sordi prestava benissimo la sua faccia tanto alla romanità del parastato quanto al padroncino di Varese: la grettezza è la stessa, perché non c’è una vera differenza tra l’arciromano e l’arcilombardo. Del resto, come quasi tutti i grandi attori italiani, Sordi non aveva bisogno di recitare né di ricorrere ai travestimenti o ai nasi finti: gli bastava essere se stesso. Come la Loren che è naturaliter la popolana in carriera. O come Gassman, narciso antiitaliano nel Paese che è un giardino di narcisi. O come Volontè, che era l’italiano arrabbiato e fragilissimo. Così Sordi era il simpatico che vuole piacere a tutti, che sogna una regina ma consuma velocemente e per tutta la vita cameriste, attrici e donne del varietà come beni di conforto, sincero e perfetto idealtipo dell’ordinario italiano, quello che appunto non piace all’italiano che non si piace, che non sa ridere dell’italianità, perché è un difetto che non vuole avere, che spera di non avere» (Francesco Merlo, ”Corriere della Sera” 26/2/2003). «Ma che ci stava più a fare, Alberto Sordi, nell’Italia di Dell’Utri che mette in scena Socrate e di Nanni Moretti che guida l’opposizione? Qui ormai il mestiere di attore equivale a quello di politico, lo spettacolo si è preso il potere, la Lega e tutti gli altri partiti rivendicano fiction identitarie, come se fosse questo il loro compito: fornire immagini, costruire rappresentazioni. E tuttavia fino a ieri sarebbe stato impossibile anche solo immaginare Albertone che sbeffeggia Berlusconi a Sanremo (come Benigni), o sul palco della manifestazione pacifista (come Lella Costa o Claudia Koll), o testimonial del governo (come Lino Banfi), o candidato a qualsiasi carica. Neppure senatore a vita. Se ne parlò al suo 75° compleanno e prima di morire fece a tempo a ripensarci un paio di volte, perfino con malinconia. Con lui scompare l’antica dignità dell’attore che fa l’attore. E stop. Non ha bisogno di modificare la realtà perché gli basta di interpretarla, nel suo caso con un istinto che ha molto a che fare con la genialità. Di questa virtù apolitica, che poi forse è semplicemente artistica, resta come ideale epitaffio una battuta che il grande, invisibile e forse misconosciuto demiurgo di Sordi, Rodolfo Sonego, gli fece pronunciare in un film del 1955, Un eroe del nostro tempo: ”Guardi - dice appunto un Sordi spaventato a quello che allora si poteva definire un ”questurino’ - io non sono né di destra, né di sinistra, ma non vorrei, signor commissario, che lei pensasse che sono di centro”. In realtà, più che neutrali, le maschere sono universali. E anche questa decantata e anacronistica apoliticità di Alberto Sordi non toglie che proprio a lui si debba la compiuta raffigurazione, in un certo senso anche l’incarnazione sul piano stilistico e perfino fisico di un fenomeno storico: il graduale, ma inarrestabile mutamento del tipo italiano in homo democristianus. Sordi era cattolico per educazione e democristiano per convenienza. Va da sè che quella convenienza era a sua volta una grandiosa risorsa politica entro cui si risolve probabilmente l’arte di governo e il segreto del potere di una classe dirigente che bene o male ha resistito quasi mezzo secolo. Ma prima di tutto Sordi era un attore. Così, la frequenza dell’oratorio gli consentì di calibrare il personaggio radiofonico di Mario Pio e poi il personaggio del ”compagnuccio della parrocchietta” (Mamma mia che impressione) o del boy scout precocemente goffo, nevrotico e misogino. Allo stesso modo, assaporare il conformismo opportunistico della maggioranza lo mise in condizione di mettere in scena inaudite doppiezze e feroci caricature di avidi ipocriti e preti intriganti. ”Il difetto democristiano fa ridere di più - spiegava pure con qualche candore - perché la cattiva azione viene sempre compiuta con un’aria di perbenismo, quasi di vergogna”. La politica, insomma, veniva fuori da sola. Abbondano i democristiani, a tutti i livelli, nella sterminata filmografia di Sordi. Basterà qui ricordare Il moralista, ricalcato sulla figura dell’onorevole Agostino Greggi, gran nemico del nudo. E poi Il vigile. Qui, al momento dell’assunzione, il sindaco (De Sica) gli chiede: ”Lei è incensurato?”. E il solito Sonego fa rispondere a Sordi: ”Ma che scherza? E in famiglia siamo tutti schierati da una parte. Sappiamo per chi votare. Io sono sempre stato governativo, mia moglie è del circolo femminile e mio cognato è doroteo”. Quest’ultima specifica rinviava a un’appartenenza quasi tribale. Sordi, come si legge utilmente ne Il Cinema secondo Sonego (a cura di Tatti Sanguineti, Cineteca del Comune di Bologna) era un talento animalesco, ”selvaggio”, anche un po’ folle e a lungo non ebbe alcun problema a interpretare dei veri e propri ”mostri”. Non solo l’indimenticabile ”Guglielmo il Dentone” de I complessi, l’aspirante annunciatore della Rai brutto, bravissimo e privo di raccomandazione. Ma anche e soprattutto servi, traditori, voltagabbana, vigliacchi, medici corrotti, mercanti d’armi, pensionati che si improvvisano giustizieri e torturatori. Poi, evidentemente, cominciò a costargli fatica e si fece sdolcinato, e anche un po’ noioso. Ma ancora una volta la politica seguiva, non anticipava, né condizionava le scelte artistiche di Alberto Sordi. Restava fedele al suo status di ”impiegato del cinema”. Aveva il pubblico dalla sua, e questo lo incoraggiava a stare al suo posto, senza alcuna vocazione moraleggiante, giusto un filo di scetticismo. A volte, ma sempre più di rado, la vita pubblica continuava a ispirarlo. Nel 1984, con Tutti dentro, interpretò profeticamente una specie di Di Pietro con capelli alla De Michelis (’E più mi dicono che sono lunghi e meno me li taglio”). L’anno prima aveva voluto ”arruolare” Andreotti ne Il tassinaro, e furono cinque minuti di cinema abbastanza triste. I due parlavano di università, nessuno mordeva più. Stavano per essere ufficialmente proclamati in televisione ”mostri sacri” della nazione, da Pippo Baudo, in una specie di concorso ”sul più amato dagli italiani”: 245 punti Sordi, 242 Andreotti. Tra il 1991 e 1992 girò un film - Assolto per aver commesso il fatto - che si disse fosse ispirato da un imprenditore della tv, una via di mezzo fra Parretti e Berlusconi. Ma lo stesso attore, nel presentare il film, negò che si trattasse di una storia tratta dalla realtà. Quando la dc scomparve, senza sentirsene minimamente orfano Sordi seguitò a prestare la sua popolarità ai potenti di turno con la stessa diffidente parsimonia che aveva dispiegato per un quarantennio. Una carezza a Veltroni, un sorriso a Rutelli, una presenza al premio Gallipoli con D’Alema. Quest´ultimo addirittura lo imitò a un Costanzo Show: ”Maccarone, tu m’hai provocato e io me te magno!”. Di Dini si disse che si sarebbe comprato la villa che a Roma è entrata nella toponomastica ufficiosa. Ma non era vero. Su Berlusconi Sordi lasciò un lapidario complimento: ” educato”. Diceva: ”Oggi è come se i politici fossero perennemente su un set”. Insomma: aveva capito tutto» (Filippo Ceccarelli, ”La Stampa” 26/2/2003).