Varie, 6 marzo 2002
SORU
SORU Renato Sanluri (Cagliari) 6 agosto 1957. Politico. Ex presidente della Regione Sardegna (2004-2008). Imprenditore. Fondatore di Tiscali • «[...] a Sanluri, non c’è il mare e non ci sono montagne calve, ma colline che sembrano uscite da un paesaggio leonardesco, cipressi insieme ai mandorli e le ginestre che nascondono i fichi d’india. Ha studiato dai padri Scolopi, la grande istituzione di Sanluri, ed è rimasto qui fino al giorno in cui prese la maturità classica e andò con il fratello maggiore in vacanza alla Maddalena. Vacanza breve, perché i due litigarono e Renato tornò in autostop. L’uomo che gli diede un passaggio raccontava del figlio iscritto all’università di Firenze: ”E tu?”, chiese. Per far bella figura rispose: ”Alla Bocconi di Milano”. A casa lo raccontò al padre e il girono dopo erano già in continente per i certificati per l’iscrizione. ”I miei genitori cominciavano a godere di un relativo benessere e la loro principale aspirazione era quella di far studiare i figli”. [...] Il vecchio Soru aveva avviato un’edicola, poi un’agenzia di pompe funebri, poi un piccolo supermercato, ma morì l’anno dopo la partenza del figlio per Milano. La madre, a cinquanta e passa anni, prese la patente per andare a cercare prodotti ai mercati generali di Cagliari, mentre Renato cominciò la spola con il paese per portare a termine il supermercato lasciato a metà dal padre. Finito quello, ne costruì un altro e poi un altro ancora. A Milano si era sposato con una compagna di liceo iscritta a Medicina. Il loro primo appartamento era in via Pontaccio 1, poi si trasferirono dalle parti di via Pacini, zona Lambrate. Intanto arrivava la laurea, la Sardegna era sempre più vicina, nuovi supermercati crescevano. Fino ai 29 anni. I suoi compagni di corso trovavano posto nel mondo della finanza e Milano guardava Wall Street. La prima società finanziaria che lo assunse lo licenziò dalla sera alla mattina. Nella seconda andò meglio. Tirava il vento della liberalizzazione valutaria, si cominciava a investire all’estero, ma quella volta si licenziò lui: pensava di mettersi in proprio, magari inventarsi una boutique finanziaria. Così, ancora una volta, prese la rinccorsa dalla Sardegna e dal mondo che megli conosceva per realizzare un po’ di contante. ”Il cantiere mi affascinava, ogni volta immaginavo una cattedrale rinascimentale: prima non c’è nulla, poi arrivano centinaia di persone con esperienze e culture diverse che condividono le loro esistenze mentre il vuoto si riempie di un’opera maestosa: quando il progetto è ultimato, si salutano e vanno a incontrare gente nuova, nuovi mondi, un’altra cattedrale da costruire”. Ma questo era solo nella sua immaginazione: in realtà come ti muovevi pestavi i piedi a qualcuno ”e anche se avevi le carte in regola ti sembrava di violare qualcosa”. Caduta la cortina dif erro che separava l’Occidente dall’Est europeo, con i soldi guadagnati in Sardegna decise di costruire centri commerciali a Praga, una catena, forse, da vendere ai tedeschi. Caduta la cortina, cresceva però qualcosa che nessuno sapeva dove andasse: una rete che voleva abbracciare il mondo fornendo informazioni attraverso le linee telefoniche. Un altro sardo, Nicky Grauso, si era inventato Video on line: poteva essere la strada per realizzare il sogno della boutique finanziaria? ”Grauso mi disse: ti do la licenza, prova a Praga, se funziona ne parliamo”. Era già nato Czeck on line quando Grauso vendette la sua creatura a Telecom Italia. Qualche mese dopo la licenza venne revocata. ”A quel punto avevo otto linee telefoniche e non sapevo dove sbattere la testa: butto via tutto o continuo in un’impresa disperata?”. L’impresa riuscì grazie a Inter Sputnik, un satellite russo che permise la connessione con gli Stati Uniti. A Praga lasciò un amico di Oristano e tornò a seguire gli affari in Sardegna. Le cattedrali sorgevano ancora, ma tra mille ostacoli. ”Se ero in crisi chiamavo Praga e mi tiravo su”. E le crisi dovevano essere profonde se, come racconta il fratello Emanuele, ”una sera la chiamata durò dalle otto alle quattro del mattino”. ”Riuscissimo a fare in Sardegna quello che abbiamo realizzato a Praga!”, diceva Renato chiudendo la comunicazione. Nel ”97, mentre stava ristrutturando il negozio della madre per trasformarlo nel suo buen ritiro sanlurese, si cominciò a parlare anche in Italia di liberalizzare le telecomunicazioni. Si apriva d’incanto la possibilità di competere con Telecom in Sardegna, di diventare, magari, il numero uno dell’isola per la telefonia. ”Avevo in mente gli errori di Video on line, quello, ad esempio, di pensare subito globale. Lavorai allora per creare un forte radicamento nell’isola”. L’Italia era lontana, ma fu l’immediato passo successivo. E subito dopo l’Europa. Le cose dovevano maturare, impressionante è che maturavano in pochi mesi, addirittura settimane. ”Gli altri sembravano non capire e nessuno ti metteva i bastoni fra le ruote”. Da capire non c’era solo il nuovo business, era lo stesso capitalismo che stava cambiando: ”Internet mette in gioco gli emarginati. Se hai un’idea puoi avviare un’attività senza grossi investimenti. Se sei fuori dal mondo, puoi competere alla pari con gli altri, perché le distanze non esistono più [...]”. [...]» (Pier Luigi Vercesi, ”Specchio” 26/2/2000) • «Lo descrivono come un uomo taciturno e umbratile, ma quando racconta il suo paesaggio - una Sardegna contadina che non esiste più - le parole si fanno leggere, veloci nel vento di maestrale che avvolge Cagliari, come in un flusso di coscienza inarrestabile e quasi sussurrato, troppo intimo per essere declamato. Parla a voce bassa l’uomo che ha cambiato il capitalismo italiano. [...] L’uomo che volle farsi re, come ha titolato Newsweek. abituato a fronteggiare gli uomini di Rothschild, ha umiliato la vecchia e altezzosa Fiat, ma se gli chiedi di Egidio Soru e Gigetta Spada - i genitori - e dei luoghi dell’anima, ha come un moto di pudore. ”Andiamo via da qui”, chiede con la determinazione dei timidi. Il racconto del proprio paesaggio sentimentale esige altri scenari. ”Castello o la spiaggia del Poetto?”. Il Castello è l’acropoli di Cagliari, quartiere di miseria e nobiltà. Tra i suoi palazzetti spagnoleggianti, retaggio d’una corte pittoresca, D. H. Lawrence ambientò Sea and Sardinia. Nelle sue stradine strette incorniciate da cespugli di capperi è cresciuto Giaime Pintor, insieme al fratello Luigi. Lungo il Bastione di Santa Croce, uno sperone a picco sulla marina, il Bill Gates sardo ha comprato casa per i suoi quattro figli. qui, in un caffè sotto le loro finestre, che chiede un paio di sedie e comincia a raccontare. Un’altra storia. Lontana da Casteddu, dalla corte aragonese, dall’aristocrazia cagliaritana, ma ancor più da piazza Affari e dai tabelloni del Nasdaq."Sono un ragazzo di collina, cresciuto a Sanluri, paese ai bordi del Campidano. Per metà distese piatte e campi di grano, sull’altro lato rilievi dolci che corrono verso la Marmilla, colline tondeggianti a forma di mammella, in massima parte brulle, alcune bellissime con viali di ulivi e cipressi. In paese ci dividevamo in due specie, ragazzi di pianura e ragazzi di collina. Io ero di quelli che andava in montagna. La prima cosa che ho pensato di fare, non appena Tiscali è stata quotata in Borsa, è comprare un terreno su quelle colline. Sapevo d’un vecchio pastore, ormai alla fine dell’attività. Andai a trovarlo nella sua proprietà, macchia mediterranea e ciliegi, e poi ancora ulivi e cipressi. ”Com’è bello’, mi diceva indicando il profilo all’orizzonte. ”Lo guardi, e il mondo sembra tuo’. Neanche per il pastore c’era prezzo. Rinunziai: mi sembrava di portargli via una cosa troppo bella. Una cosa sua. E poi non volevo sconvolgere l’economia di quel paese”.Insieme alle colline dolci, s’affaccia alla memoria il nonno materno Giovanniccu Spada, bracciante agricolo alla giornata. ”Mio padre Egidio era altro: edicolante, impresario di pompe funebri, poi commerciante. Nonno era gerunnaderi: non possedeva niente, oltre le sue braccia. Piccolo, scuro, i piedi avvolti negli stracci: le calze erano già un lusso. Viveva in una casa a un piano, in cucina la camera da letto. Non mangiava a tavola, ma davanti a uno sgabello basso. Trebbiava, potava in vigna, faceva guardianìa. ”Chi non miete spigola’, mi diceva. Lui spigolava, raccoglieva quel che rimaneva delle spighe. E in autunno andava a cercare su scricchilloni, piccoli raspi d’uva. Non l’ho visto mai triste. E dalla campagna tornava sempre con le tasche piene di doni: mandorle, fichi, ciliegie, olive. Quando oggi torno a Sanluri - lì ho mantenuto la mia casa - so che su quei terreni è passato lui”.Della famiglia è rimasta in paese solo la sorella Anna, i genitori scomparsi da tempo. Altrove gli altri fratelli: Emanuele ha una fabbrica di patatine fritte, Giorgio insegna educazione fisica, Cechina ha aperto un negozio di oggettistica. ”Da bambini salivamo in collina, a caccia di conigli. Poca roba, ma poi le sparavamo grosse. I nostri erano giochi semplici, rituali di campagna. Spigolare, passare nei campi già mietuti: a giugno s’andava ”a fave’, a settembre si raccoglievano le mandorle, in autunno la vendemmia. D’estate, nella piana di grano, s’accendevano i bagliori degli incendi: in attesa di spegnerli, i contadini affollavano i sentieri con le tamerici. Ho conosciuto una Sardegna agricola che non esiste più. Oggi a Sanluri non vedo più di dieci alberi di ciliegio: all’epoca erano centinaia. I vigneti spazzati via dai bonus per l’espianto. Al posto della cantina sociale, un tristissimo magazzino di patate”. E gli amici? ”Dei miei compagni d’un tempo, ora uno fa il muratore, un altro il pastore. Ricordo un amico in particolare, oggi recluso in un manicomio criminale per aver ammazzato i genitori. Con lui, in groppa all’asino, andavo a portare da mangiare al padre, in ritiro solitario insieme al gregge. Ma serve parlarne?”.Un vicino di casa, ogni mattina, in tuta blu e caschetto partiva a fare il minatore. ”Un giorno decisi di seguirlo. Arbus, Montevecchio, Fluminimaggiore, Ingurtosu, Piscinas. Scoprii così le miniere, un altro mondo oggi scomparso. Rimangono soltanto i malati di silicosi e migliaia di ettari abbandonati. Un paesaggio spettrale, pietrificato, macerie di un tempio antico, che se lo attraversi ti rimane nell’anima”. Lì intorno i vecchi ruderi degli opifici industriali, la stessa strada sterrata che nel 1869 accolse Quintino Sella in visita alle miniere sarde. ”Ci piaceva curiosare tra i macchinari abbandonati, casette operaie a bocca di miniera. Scenario assurdo e affascinante, con le montagne di sabbia che erano pezzi di deserto, costoni di monti arrossati dal lavaggio dei materiali, torrenti di fiume diventati gesso, vecchi binari a scartamento ridotto, cestelli abbandonati. Uno straordinario luogo del fare, che oggi non c’è più”. Le scorribande tra quelle forme insolite di terriccio terminavano nella striscia azzurra di Piscinas, ”un mare deserto dove andavo a tuffarmi” lungo chilometri di dune e spiaggia. Il mare è una metafora di vita, ”un po’ come mettersi alla prova”. Lo affascina la sfida dei venti e ne ricava una filosofia. ”Da solo ho imparato a nuotare. Da solo ho imparato ad andare sul surf e in barca a vela. Mi piace rischiare, e spaventarmi”. Dai marosi di Piscinas al maremoto del Nasdaq: il passo sembra breve.Ragazzo di collina, è andato a cercare i propri simboli - il nuraghe di Tiscali, i sentieri di Andala, tutti nomi delle sue società - nel cuore roccioso della Barbagia, ”come una sorta di grande madre, custode della nostra identità”. L’ha scoperta attraverso i versi d’un poeta dialettale di Desulo (’Un mio professore di liceo, nel collegio degli Scolopi a Sanluri, me ne fece studiare la metrica, paragonabile alla lirica dei greci”). L’ha conosciuta più tardi grazie alla compagna di scuola che poi ha sposato. ”Vi ritrovo gesti altrove scomparsi, rituali dimenticati come la filatura davanti all’uscio o i forni di pane nelle case. Oggi tessono in molti, ma filano in pochi”. Non è attaccamento naïf né folclore banale. ”Non sopporto il ballo sardo, una tarantella che francamente abolirei. Mi piace solo vedere i paesi con la loro identità, regole precise, abitudini antiche, che poi sono il motore dell’economia”. Della sua diversità nuragica ha fatto una bandiera. ”Se vado in America e parlo come Fonzie di Happy days, difficile che mi ascoltino. Se racconto la mia storia, mi stanno a sentire. Ho imparato a non vergognarmi delle mie radici. Ho iniziato a fare Internet che è quanto di più globale e impalpabile possa esistere: senza luogo, senza tempo, senza nulla. L’unica cosa che puoi portarvi è la tua identità. Non si tratta di imporre balletti folk. Serve invece a ricordarci chi siamo”.Paladino della comunicazione globale, per la sua azienda ha scelto il vessillo d’una resistenza millenaria, Tiscali, riparo dei Nuragici dalle orde sanguinarie dei Fenici (così recita la leggenda). E oggi, i nuovi barbari? ”S’annidano altrove, dalle parti di Piscinas, Ingurtosu, o nel Sinis. Sono gli immobiliaristi senza cultura, palazzinari che impongono modelli turistici estranei alla nostra storia, divertimentifici in stile Disneyland. Ma i nuovi barbari a volte siamo noi”. Se gli ricordi la sua polemica contro gli invasori a nove zeri della Costa Smeralda, minimizza: ”Allora fui frainteso. Non voglio essere né censore né bacchettone. In realtà, due simboli positivi dell’isola turistica sono l’Aga Khan e Luigi Donà delle Rose, inventori l’uno della Costa Smeralda e l’altro di Porto Rotondo: dopo di loro sono arrivati gli usurpatori”.Aga Khan, nome mitico della sua fanciullezza in Campidano, nei primi anni Sessanta. ”Era come un principe delle favole, personaggio venuto dal lontano Oriente, Aladino o Ali Khan. Quando un elicottero passava sopra Sanluri, dicevamo in coro ” l’Aga Khan!’. Era come entrare nella fiaba”. I primi campeggi a 18 anni, estate del 1975, destinazione l’isola della Maddalena. ”Tra noi nessuno osava svoltare a destra, verso la costa dei miliardari. Era un mondo sideralmente lontano”. Oggi non lo è più, lontano. Ma è come se lo fosse. Una distanza però non gridata. Soru dice di sentirsi molto europeo, non diverso da un francese né da un inglese. ”Ma se penso al riposo, lo penso nel mio paese. Se penso alla vecchiaia, la penso qui. Posso vivere in ogni luogo, ma posso invecchiare solo a Sanluri”. Non vale chiedergli della sua ansia di riscatto. D’eleganza discreta, il ragazzo di collina s’accomiata sobriamente: ”Credo solo di aver fatto la mia parte”» (Simonetta Fiori, ”la Repubblica” 21/8/2001).