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 2002  marzo 06 Mercoledì calendario

STARNONE

STARNONE Domenico Saviano (Napoli) 15 febbraio 1943. Scrittore. Nel 2001 vinse lo Strega con Via Gemito • «Ha esordito con Ex cattedra (1987). Nel 1989 ha pubblicato Il salto con le aste , nel 1994 Denti, portato sullo schermo da Gabriele Salvatores. [...] ”Prendo molti appunti (aneddoti, gesti, frasi sentite per strada) con una stilografica verde su quadernetti che porto sempre con me. [...] C’è una prima fase, snervante e faticosa, in cui bisogna mettersi al computer per costruire il racconto e i personaggi. La seconda, molto più piacevole, riorganizza le pagine. [...] Orario preferito? La mattina. Resisto fino a mezzogiorno nella prima fase. Nella seconda, sto al tavolo anche dodici ore di seguito. [...] Stampo solo alla fine: un momento terribile, perché fa perdere il senso di onnipotenza. Poi prendo la penna e ricomincio a correggere. [...] Mia moglie. lei "l’aiutante molesto" che secondo Adorno ogni scrittore dovrebbe avere. [...] Vado da un chiropratico, che mi cura i dolori alla cervicale. [...] Scrivo circondato da libri e quaderni di appunti, appoggiati sul tavolo ma soprattutto sul pavimento. Quando ne apro uno non lo chiudo mai prima che il romanzo sia finito: è il mio rito purificatore”» (Mariarosa Mancuso, ”Corriere della Sera” 3/7/2001) • Secondo qualcuno sarebbe lui la misteriosa Elena Ferrante: «Elena Ferrante è una scrittrice senza volto. Mai vista e mai ascoltata. Che non ha mai concesso di sé altro che le sue parole scritte. Comparsa dal nulla ed esplosa, fin dall’esordio del 1992, come un caso letterario e un seducente enigma editoriale. Contro ogni regola collaudata del marketing, senza alcun supporto mediatico, L’amore molesto (ed. e/o, 1992), il suo primo romanzo, vende più di ventimila copie, viene accolto trionfalmente dalla critica e tradotto in cinque lingue. Nel gioco frenetico e finora vano del suo svelamento, qualcuno avanza il sospetto che quel nome nasconda un uomo, Goffredo Fofi, che è peraltro il primo cui la Ferrante concede un’intervista, mediata dal suo editore. Altri al contrario sono pronti a giurare senza ombra di dubbio che dietro quella scrittura così corporea e calda non possa non esserci la mano di una donna. Chi è Elena Ferrante? Si tratta, semplicemente, di una scrittrice schiva, così riservata da sottrarsi al contatto e all’abbraccio del pubblico ”per un desiderio un po’ nevrotico di intangibilità”, come sostiene nella seconda e ultima intervista all’’Unità” del 2002? Oppure siamo di fronte a uno scrittore che si ”traveste” nel corpo e nei panni di un altro? Un uomo, ad esempio, che indossa gli abiti di una donna, si guarda allo specchio, si incipria il viso e inizia a percorrerne l’itinerario esistenziale: le emozioni, i pensieri, le memorie, e piega lo stile a una forma e a una sensibilità femminile, in un’opera di immersione nell’altro sesso, per poter vivere, sentire e scrivere come lei. Per tredici anni l’enigma Ferrante è rimasto insoluto. Sennonché un romanzo autobiografico di un altro scrittore pubblicato nel 2000, che presenta una serie di riscontri con situazioni, personaggi ed eventi dell’opera della Ferrante, si propone quasi come una deliberata traccia al lettore. L’ipotesi è che la ”scomparsa” di Elena Ferrante, che in verità precede la sua stessa esistenza, riveli forse proprio in questa forma assoluta di ”pudore” l’intenzione contraria di sfidarci al gioco del denudamento. Come se, da quelle labbra truccate che possiamo solo immaginare, ci sussurrasse: provate a prendermi. L’ipotesi è che lei stessa abbia lasciato sulla carta le impronte della sua reale identità. Che lo abbia fatto come l’autore di un thriller. E che tali indizi si trovino tutti già in quel primo romanzo, che non a caso è proprio un giallo psicologico. In esso si racconta della morte per annegamento di Amalia, ”la notte del 23 maggio”, una donna di sessantatré anni, il cui corpo che galleggiava a pochi metri dalla riva con addosso solo il reggiseno viene ritrovato il giorno dopo da due ragazzi. La voce narrante è di sua figlia Delia. Da molti anni Amalia e suo marito vivevano divisi. Lui era stato un uomo geloso e violento. Spesso la inseguiva per casa, la raggiungeva e la colpiva al viso, prima col dorso e poi col palmo della mano. Un’insofferenza e una litigiosità che si estendevano anche ai parenti di lei. Per il resto, suo padre passava la giornata seduto a dipingere, mentre la moglie pedalava, curva, sulla macchina da cucire. Nelle vecchie foto degli album di famiglia, sullo sfondo, si vedeva sempre una parte della sua Singer. Lui ”era un uomo insoddisfatto... perché la gente non lo stimava come doveva”. Un uomo affetto da una sorta di mitomania, che ”si immaginava chissà quale destino”. La moglie ”aveva avuto una bella fortuna a sposarlo. Lei, così nera, non si sapeva da quale sangue venisse”. Un pittore manesco e una guantaia, a Napoli. Lei morta. Una figlia che ricorda. I particolari non sono scelti a caso. Peraltro sono solo alcuni dei moltissimi che potremmo citare e che manifestano sorprendenti coincidenze con identici caratteri e situazioni che ritroviamo nel romanzo autobiografico di un altro scrittore. Dove campeggia, ancora nel racconto di un figlio, il ritratto di Federì, ferroviere di professione e pittore di vocazione, del quale si mettono in evidenza la natura rissosa, le scenate di gelosia, le fantasticherie sul proprio destino, l’ossessione della pittura. E si rappresenta, con minore evidenza e uguale intensità, la figura di Rusiné, alla quale il romanzo è dedicato. Anche lei come Amalia sarta, anche lei ”nera”, ”saracena”. Anche lei vittima di un marito lunatico e violento. Il romanzo è Via Gemito, vincitore del premio Strega nel 2001, e l’autore è Domenico Starnone [...] Napoletano, come la Ferrante, e come lei in stretti rapporti con l’editore e/o. La pelle olivastra del corpo di Amalia e di Rusiné, il carattere socievole di entrambe, inibito dai rispettivi mariti, la frutta che arrivava gratis ogni giorno, un vestito bruciato sul fuoco della cucina (L’amore molesto), i pettini bruciati sul carbone del focolare (Via Gemito), ”un’argentiera per argenterie mai possedute” in entrambe le case, il rimpianto per i soldi sudati, gettati dalla finestra da Amalia-Rusiné. Tutti ”segni” abbandonati in bella mostra, come se l’autore si fosse divertito a esibire la ”prova” del caso, allo stesso modo della Lettera rubata di Edgar Allan Poe, presente e chiara di fronte agli occhi di tutti e tuttavia invisibile. Parole, come direbbe l’investigatore Dupin, ”che sfuggono all’attenzione per la loro eccessiva evidenza”. A pagina 307, infine, in Via Gemito Starnone ricorda un episodio della sua infanzia. Definitivo indizio concesso al lettore. ”Un giorno trovai nell’armadio della camera da letto, in mezzo a tante altre cianfrusaglie, una scatola. L’aprii, c’erano delle foto... di donne nude... sorridevano mostrando i loro luoghi più segreti senza alcuna timidezza”. ”Spesso - si legge nell’Amore molesto - le pose della zingara erano malamente ricopiate da certe foto di donne che mio padre nascondeva in una scatola dentro l’armadio e che io andavo a sbirciare di nascosto”. Quale incredibile corrispondenza: un romanzo del 1992, quello della Ferrante, che riteniamo frutto di invenzione fantastica, presenta gli stessi protagonisti - il pittore irascibile e manesco e la sarta operosa, accusata di essere ”vanesia” - di un romanzo autobiografico del 2000 di Domenico Starnone. E perfino l’identico episodio della scatola nell’armadio della camera da letto in cui il padre nascondeva foto di donne nude. Questo vuol dire che Starnone e la Ferrante sono la stessa persona? Certo, se così non fosse a questo punto Starnone potrebbe addirittura subire l’accusa di plagio, ma dubitiamo che ciò accada, considerata la tenace riservatezza della Ferrante. Lui del resto saprebbe difendersi obiettando che non ha fatto altro che raccontare la sua vita, e che è stata la Ferrante, piuttosto, a sottrargliene proditoriamente la memoria. O forse, potrebbe finalmente confessare, parafrasando Flaubert: ”Elena Ferrante c’est moi”. Ci troveremmo di fronte, in questo caso, al Fernando Pessoa della letteratura italiana, che creava eteronimi, dotati ognuno di uno stile, di una poetica, di una separata biografia. Autori distinti, partoriti dalla mente fertile di un demiurgo che li sovrintende e governa. A margine di un’intervista inedita di qualche tempo fa, nella quale parlava del suo lavoro di narratore, Starnone ci ha spiegato che ”solo la convenzione editoriale, in fondo, impedisce allo scrittore di correre di qua e di là, di sperimentare le scritture più diverse. [...]» (Luigi Galella, ”La Stampa” 16/1/2005). «[...] Io sono un estimatore della Ferrante, e il gioco letterario che è stato fatto intorno ai nostri nomi è intelligente [...] Nell’Italia degli Anni 50, descritta nel mio libro e in quello della Ferrante che avete messo a confronto, c’erano guantaie e sartine dovunque. E a Napoli i ”pittori” erano più numerosi dei funghi. Io e la Ferrante veniamo dalla stessa area lessicale, siamo napoletani. Il mobile che entrambi chiamiamo ”argentiera” era difussisimo in tutte le famiglie, e portava quel nome anche se magari di argenti non ne aveva ospitati mai [...] mi sembra una buona operazione per dimostrare come di fatto, volenti o nolenti, dobbiamo ammettere che in Italia esistono le letterature regionali. Senza fare discorsi leghisti, gli scrittori ”padani” hanno tratti in comune tra loro, così come a Napoli io e la Ferrante. Però mi sento molto distante dai suoi libri, anche se li apprezzo. Sono nato come ”ironista”, lei è tutta visceralità [...] francamente non è che mi dispiaccia. Mi infastidisce l’osservazione sul plagio, cioè che se io non fossi la Ferrante, avrei potuto essere chiamato in causa come ”plagiatore” di Un amore molesto. Ma forse corre lo stesso rischio perfino Guido Ceronetti, per il lato torinese presente nella Ferrante. Anche lui, in fondo, parla di sartine [...] Il versante divertente della faccenda è che mi si possa pensare in grado di fare questo, di avere una doppia identità letteraria [...] Facciamo l’ipotesi che io sia la Ferrante, e domandiamoci che senso potrebbe avere il mio silenzio. Ora mi converrebbe rivelarmi, ne ricaverei molta più attenzione [...] se il gioco dura troppo a lungo, stufa. La realtà è invece molto più semplice. Proviamo a chiederci perché negli ultimi sette-otto anni nessuno è venuto fuori a rivendicare l’identità della scrittrice. La risposta è banale: perché esiste una Elena Ferrante che non ha voglia di affacciarsi in scena. Avrà i suoi buoni motivi per farlo [...] Secondo me è Guido Ceronetti...» (’La Stampa” 17/1/2005).